ADALINDA GASPARINI              PSICOANALISI E FAVOLE

FIABE ITALIANE ANTICHE, REGIONALI E ALLOGLOTTE
ZIO GILLETTO

ITALIANO
1893
ZIU GILLETTU

SALENTINO
2025




ZIO GILLETTO

ZIU GILLETTU
E sì che vo' narrare ai piccini, e a voi, donne mie care, quel che mi fece quel diamine di vecchio, da molti vituperato, e fin battuto, ma che alla buon'ora recava a più d'uno del bene.
Io dunque era giovinetta a circa quindici anni: era una bella sera di giugno, e noi, dopo il lavoro, sedevamo a godere la luna e prender fresco, avanti alla nostra casetta.
L'orologio della Porticella batteva le due ore di notte, dando i sessantadue tocchi, che dà tuttavia; il che del mio tempo veniva detto la fuor'ora, perché le botteghe si chiudevano, e la gente, coperto il fuoco, andava a riposo.

Mio padre mi disse:
– Levati su, figliuola, prendi l'orciuolo e le poche monete che sono sulla panca, e corri alla cantina di Leonardo, innanzi che chiuda, e digli che te l'empia di vin paesano, ch'ei serba per gli amici.
E mo’ sì ca ogghiu bu cuntu, alli piccinni e a bbui, fimmine mie care, quiddhru ca me figge ddhru tiaulu te vecchiu, te tanti disprezzatu e financu mazzisciatu, ma ca allu momentu opportunu, facìa bbene a chiù te quarchetunu.
Iou, a tiempi, era giovinetta, allincirca te 15 anni: era na bella serata te Giugnu e nui ni ssittavamu nnanti la casiceddhra noscia, cu ni cutimu la luna e lu friscu.
L’orologiu te la Porticeddhra segnava le doi te notte, dandu sessantato’ cuerpi, comu li tae tutt’ora moi, ca tandu se ticia la fuorora perché le putee se chiutianu e li cristiani, mucciatu lu fuecu se sci curcavanu.
Sirma me tisse:
– Ausate, figghia, pigghia lu mbile, e dri picchi sordi minuti ca stannu sulla cascia, e fuci alla cantina te lu Leonardu prima cu chiute, e dinne cu te inche te mieru paisanu, quiddru ca ccoghe pell’ amici.
Toltomi orcioletto e monete, v'andai di buone gambe, e giunsi a tempo. Al ritorno, come fui al largo, vidi venire da sotto la torre dell'orologio, a me vicino, un uomo,  che alla voce riconobbi essere Zio Gilletto; ché al vestire mi sarebbe parso impossibile. Curioso proprio al vederlo! Indossava una giubba di bel verde, calzoni rossi affibbiati alle ginocchia, su calze bianchissime di seta, scarpe lustre, cravatta e corpetto bianco, e berretta di velluto rosso a galloni d'oro; teneva fra le mani un bastoncino elegante, con pomo di perla, a lucida ghiera. Avea la zazzera ben pettinata, guanti gialli alle mani, e oliva tutto di zibetto.

– Buona sera bella ragazza – mi diss'egli, garbato e amorevole – ove corri così in fretta?
– A portare il vino per la cena – gli risposi io – ché il babbo vuol dormire. E voi, a che così rassetto e attillato, ché mi avete l'aria di uno sposo?
– Non sai? – soggiunse egli – vado a godermi una festa qui vicino. Oh! I bei dolci e liquori squisiti, e i be' sorbetti, e ogni sorta di delicato mangiare, che saravvi a bizzeffe! Vuoi venir meco, ragazza? Noi sarem presto di ritorno.
– Ma io vado così mal concia ch'è una pietà – gli risposi – ho indosso una gonnella di casa, e sono scalza per giunta.
Ed egli:
– Ciò è nulla; vieni con me, ché come saremo colà, ti farò far netta, e adornar come a regina, di seta, veli e collane dalle mie comari. Vedrai cose bellissime e nuove.
– Andiamo – diss'io sedotta dal suo parlare.
Toltomi egli allora di mano l'orciuolo, riposelo in un angolo della piazzetta, dov'eravi dell'ombra. Mossosi tosto di colà, io lo seguii; e come fummo sotto al muro del giardino dei frati, fermossi, e fece col bastone un cerchio a terra: borbottate non so quali parole, vedemmo d'improvviso alla nostra presenza un papero, di tale grandezza, ch'io, in vita mia, non vidi mai l'eguale. Zio Gilletto vi si mise tosto a cavallo, ed invitò me a pormi in groppa. Com'e' videmi adagiata:
– Tienti bene alla coda della mia giubba – mi disse – e sta' ferma; e bada a non profferire alcuna cosa che sia di sacro, altrimenti saremmo perduti amendue; ché d'un salto solo la bestia si scaricherà del nostro peso.
Non ancora egli avea pronunziata l'ultima parola, che l'uccellone, allargate le ali, si sollevò da terra, e prese in breve un altissimo volo; tal che a me parea toccar quasi con mano la luna, le stelle, e fin la volta del cielo. Chinando per poco gli sguardi, vidi giù, sott'a miei piedi, città, boschi, villaggi, mare, montagne; e mi pareano divenuti  piccini e come dipinti nei quadri.
In un punto ch'era una gran valle, sentii fischiar la tempesta, e romoreggiar l'uragano; e vidi il guizzare dei fulmini, cui succedeva il rombo del tuono, che udiasi, come portato da' venti, lontano lontano. Ond'io, chiuse le palpebre, tremava a verga, compresa da somma paura; e maledicevo in cuor mio l'ora e il momento che m'era abbattuta in quel dimonio di vecchio.
Allora vidi chiaramente esser vere le accuse che gli davano, di star egli mescolato in fattucchierie; e ben meritate le lunghe penitenze, che faceagli spesso fare il nostro arcivescovo, buon'anima. E quasi piangente, gli chiesi:
– Ove mi conducete voi stasera? Deh, piacciavi pormi a terra; io tremo tutta dallo spavento, ché veggomi vicina tanto la morte.
– Taci, sciocca – risposemi Gilletto – ché or ora giungeremo.
Poi, modulando una sua arietta, cantarellava:
Sopr'acqua e sopra vento
Andiamo a Benevento;
Balliam con le Comari
Ne' lor sacrati lari.
Confortata alquanto dentro di me, pensando ai godimenti promessi, aprii per poco gli occhi, volgendo giù lo sguardo; e parvemi vedere, in una vasta pianura, come de' fuochi risplendenti fra gli alberi d'un bosco, in mezzo ai quali appariva una luce maggiore e più grande. Il valente uccello frattanto, senza perder la rapidità del suo volo, andavasi di mano in mano abbassando verso la terra, finché giunto in un delizioso giardino, pien di vaghissime piante fiorite, e d'alberi con bei frutti maturi, fermossi  piè d'una fontana di bianchi marmi, a molti zampilli e a cascatelle, limpide e deliziose alla vista. Scesi ambo a terra, il papero entrò a nuoto nella vasca; e noi, messici in un viale odoroso per molti e variopinti fiori, dopo alquanti passi fummo dinanzi a bellissimo e meraviglioso palazzo, tutto di cristallo, bene alluminato in ogni sua parte: ed era tanto lo splendore, che, appena, a riguardarlo, potea reggere l'occhio.
Due gentili donzelle, nobilmente vestite, mi vennero incontro, anzi me le vidi d'improvviso davanti, senza aver udito romore de' lor passi, ch'eran sì leggiere, che parea non  poggiassero a terra. E:
– Siate la benvenuta, bella signorina – mi dissero; e presami per mano mi condussero con loro in una stanza terrena, ove spogliatami dal capo ai piedi, mi dettero prima un fresco e odoroso bagno, ch'io mi sentia tutta confortata e rifatta; e quindi mi arricciarono i capelli e li unsero d'olî soavissimi, che olivan di rosa e bergamotto. Poscia aperto un armadio, ne trassero una veste di drappo a ricami, che parea fatta a mio dosso; e calze e magnifici usattini; e tutto  mi posero di bel garbo e con la maggiore prestezza. Tolsero anche una collana, tutta di perle finissime legate ad oro, e me le sospesero al collo; e le trecce mi ornarono di fiori gentili, e lucidi brillanti.
Così adorna com'era e fatta bella, che parea veramente una regina, mi ricondussero nel giardino, dicendomi:
– Divertitevi a vostro agio e piacere – e andaron via.
Vennemi tosto dappresso un gentil cavaliere ad offerirmi il braccio; e così insieme entrammo ne' viali, rischiarati da mille lampade di nitidissimo cristallo, a coglier fiori e ornarcene, e pomi saporosi dagli alberi; e a sollazzarci in piacevoli giuochi, unitamente con altre dame e cavalieri, che entravano pur quivi in folla.
Sedutici poscia tra le piante, chi novellava, chi canterellava, e chi intrecciava allegre carole. Quivi mi avvenne incontrarmi con parecchie persone, ch'io ben riconobbi, tra le quali un sindaco di Francavilla, che sapea, come dicevasi da molti, la virtù di far l'oro; un molto reverendo di Maruggio, che non so in qua' pegole, con iscompiglio de' suoi frati; e un canonico del duomo di Oria, con una monaca, per la qual delirava e basiva; e a quest'ultima rivolta voleva il magagnato per forza sposarla.
Vidi dunque tutti costoro nel giardino delle fate; e tutti vestiti, senza distinzione alcuna, pomposamente, e in leggiadre fogge, baloccavansi in mille guise. Zio Gilletto avea pur esso la sua dama a braccio, forse la più bella e vaga donna ch'io abbia colà veduta.
In un tratto udironsi melodiosi suoni di arpe, di flauti, di viole e d'altri piacevoli strumenti di fiato e di corda; i quali avvertivan la brigata, che già aprivasi il ballo.
All'avviso, tutti quant'eran, dame e cavalieri, levatisi, andarono al palazzo; ed io con loro; e salite le scale, ch'eran di fine alabastro, entrammo in una vasta e magnifica sala, di specchi, e preziosi arazzi e frange d'oro, e fiori a festoni, maravigliosamente ornata, e splendente per molti doppieri e lumiere.
Datosi cominciamento, io fui graziosamente invitata dal mio cavaliere a un giro di danza, che feci con tale abilità e sveltezza, come ne fossi stata più tempo istrutta. Entrai poscia nelle quadriglie e in altri balli, che succedevansi con ordine e leggiadria; dopo i quali ebber luogo de' giuochi di vaghissime donne con molto ben disposti e gentili giovani: e fu un diletto e divertimento generale, e mai più veduto.

Pigghiai lu mbile e li sordi, scivi fucendu fucendu e riai ttiempu ttiempu.
Allu turnare, comu me llargai, iddi inire te sutta la torre te l’orologiu annazi a mie, nu cristianu ca te la uce canuscivi ca era lu ziu Gillettu, me te lu vestimentu me parse impossibbile. Era propriu curiosu cu llu iti! Tinia na giubba te nu bbellu verde, li causi cu le fibbie alle scinucchie, subbra li quasetti bianchissimi te seta, scarpe lustrate, cravatta e corpettu biancu, e nu coppulinu te vellutu russu cu stemmi te oru. Tinìa a manu nu bastone elegante, cu lu pumu te perla e na rifinitua lucita. Tinia la zazzera bella pettinata, uanti gialli alle mane e ndurava tuttu te zibettu.
– Bonasera beddhra carusa! – me tisse iddhru ngarbatu e amorevole – addu sta scappi cussì de pressa?
– Cu portu lu mieru pe la sira – ni rispusi iou – ca sirma ole se curca! E signuria, cussì cunzatu e ntolettatu, ca me pari nu sposu?
– Nu la sai? – tisse iddhru – sta ba me spafu a na festa qua nnanzi. Ah, ddhri belli tuci, li liquori squisiti, belli sorbetti, e tuttu lu mangiare chiù raffinatu, nci n’ete a tirapanza! Vuei bieni cu mie, vagnona? Ca ni ritiramu mprima!
– Ma iou au cussi scunzata ca me ne scornu – ni rispusi, tengu na gonna te casa e squasata puru te subbra!
E iddhru:
– Nu face nienzi! Comu stamu addhrai, te fazzu fare noa noa e fazzu te conzanu comu na reggina le cummari mei, te seta, te veli e de cullane. Poi iti cose noe e bellissime.
– Sciamu! – tissi iou – ncantata te lu parlare sou.
Me lliau allora te manu lu mbile e lu scuse a nn’angulu te la piazzetta addu nc’era umbra. Poi se spustau te ddhrai e iou lu sicutai. E comu rriammu sutta lu parite te lu sciardinu te li monici, se firmau e figge nu circhiu cu lu bastone anterra, nu sacciu ce parole ruscìu e tuttu te paru ni iddimu te nanzi na papara cussì rande ca nu n’ia mai ista una uguale in tutta la vita mia.
Lu ziu Gillettu nci nchianau a cavallu e me tisse cu nchianu subbra puru iou.
Comu me idde ca m’ia sistimata:
– Ziccate bona alla cuta te la giubba mia – me tisse – e statte ferma, e nu dire nuddra cosa ca sia te chiesa, ca si no stamu ntra li uai tutti e doi, ca cu nu zzumpu ni mina abbasciu.
Nu ia ncora spicciata te tire l’ultima parola ca lu ceddhru, llargate l’ale se mpizzau te terra e fucendu zziccau a bulare autu autu ca me paria ca sta zziccu cu le mane la luna, le stelle e lu cielu.
Basciandu nu picca l’uecchi, uardai sutta e biddi sutta li pieti mei città, boschi, villaggi, mare e montagne, ca me parsera ca ianu divintati piccinni comu ntra nu quatru.
Intra nu puntu ca era na grande valle ntisi fiscare na tempesta e rumore comu na capiddhruta, e biddi dirlampare li furmini, e poi seguitavanu li trueni, e se sintia ientu te luntanu luntanu. E quindi iou ia chiusi l’uecchi e trimulava comu na fogghia, tanta era la paura, e sta castimava ura e momentu ca ia ncuntratu dru vecchiu malitettu.
Allora me resi contu ca eranu vere le ngiurie ca ni ticianu, ca stia miscatu mienzu le masciarìe e se le mmiritava ddhre longhe penitenze ca ni facia fare l’arcivescuvu nuesciu, bonanima. E quai chiangendu ni dummandai:
– Ma addu me sta puerti stasira! Lassame an terra per favore, ca sta tremulu tutta per la paura e me pare ca sta mueru!
– Citta scema – me rispuse Gillettu – ca sta rriamu!
E poi, cantava na canuzunetta soa:

Subbra acqua e subbra ientu
Ne sciamu a Beneventu;
Ballamu cu lle cummari
Intra li sacri lari.

Confortata intra te mie, e pinsandu alle cose bbone ca m’ia purmise, aprivi nu picca l’uecchi, basciandu lu sguardu, e me parse ca iddi intra na grande pianura, comu fuechi ca splendianu ammienzu l’arviri te nu boscu, e ddrha mienzu me parse ca se itia na luce ncora chiù rande.
Lu ceddhru valorosu intantu, senza cu rallenta lu volu sou, se bbasciava manu manu versu la terra, finchè rriau intra nu sciardinu deliziosu chiunu te chiante fiorite, e de arviri cu bella frutta fatta; se firmau alli pieti te na funtana te marmu biancu, e cu tanti spruzzi e cascate limpide e deliziose cu le iti. Quandu scisimu anterra tutti e doi la papara trasiu intra la vasca natandu, e nui ca n’iamu misi intra nu viale chinu te fiuri profumati e colorati, dopu parecchi passi ni truammu annanti a nu palazzu bellissimu  e meravigliosu, tuttu te cristallu  e tuttu ddumatu: era tantu splendente ca a malapena riuscivi cu lu uardi.
Do’ vagnone ta garbu, e belle istute, me innera annazi, anzi me le iddi tuttu te paru te fronte senza mancu me ne ccorgu, ca nu ia ntisi mancu lu rumore te li passi loru, tantu eranu liggere ca mancu paria ca ttuppavanu an terra. E:
– Siti la benvenuta, signorina! – me tissera.
E pigghiandume pe manu me purtara cu iddre a na stanza suttra terra, addu, me spugghiara tutta te la capu a li pieti e me figgera prima nu bagnu friscu e profumatu ca me sintìa tutta ristorata e comu noa, e poi me rricciara li capiddhri, e me li ungera te uegghiu profumatu, ca sapia te rosa e bergamottu. Poi aprera n’armadiu e ne pigghiara na esta te rrobba tutta ricamata, ca paria fatta amposta pe mie e quasetti e stivaletti magnifici, e me misera tuttu cu garbu e cura. Pigghiara puru na collana tutta te perle ttaccate cu l’oru e me la misera an cueddru, poi me addobbara le trecce te fiuri ngrazziati e de brillanti lucidi.
Cussì cunzata e fatta beddhra ca paria veramente na reggina, me purtara ntra lu sciardinu e me tissera:
– Diviertite e sguariate comu te piace – e se ne scera.
Tandu pe citandu me inne annanti nu cavaliere galantomu e me zziccau sutta razzu, e cussì amparu trasemmu intra li viali, lluminati te mille lamapade te cristallu chiarissimu, e cugghìamu fiuri e ni li mintìanu subbra, cugghìamu mile sapurite te l’arviri, e ni spafavamu cu sciuechi ca ni piacianu insieme cu l’aure dame e cavalieri ca trasianu ddhra intra a sarcine.
Ni ssittammu poi mmienzu le chiante e ci cuntava cunti, ci cantava, ci ballava an circhiu allegramente.
Addhrai po’ ncuntrai parecchi cristiani ca canuscia bueni, tra li quali lu sindicu te Francavilla, ca se ticia sapia fare l’oru, nu reverendu te Maruggiu, ca sape intra quali mbrogghe stia, cu lu spumpigliu te tutti li monici, e nu prete te lu Duomu te Oria, cu na monica pe la quale mpaccia e se n’ia sciutu te capu, tantu ca ulia per forza cu la sposa ddhru spinturatu. Iddi tutti quisti intra lu sciardinu te le masciare, e tutti istuti, nisciunu esclusu, a festa e cunzati ngraziati, ca se divertianu a tutte le manere. Lu ziu Gillettu puru tinia la dama soa sutta razzu, forse la chiù beddhra e elegante fimmina ca iggiu ista addhrai.
Tuttu te paru se ntisera sunare melodiose arpe, flauti, viole a auri strumenti a fiatu e a corde, ca già vvisavanu la brigata ca ianu ccuminciati li bballi.
All’avvisu tutti quanti eranu, dame e cavalieri, se ausara e scera intra lu palazzu e iou cu iddhri, e nchianate le scale ca eranu te alabastru, trasemmu intra na sala rande e magnifica, te specchi, arazzi preziosi e zinzuli te oru, fiuri a festoni, ornata na meraviglia, e splendente pe li muti lampatari e candelabri.
Quandu tesera lu via fuesi nvitata a ballare te lu cavaliere miu e lu figgi cu tanta capacità e sveltezza, comusìa ca ìa nata mparata. Trasivi poi intra le quadriglie e auri balli ca seguivanu cu ordine e garbu; e dopu nci fosera sciuechi te fimmine bellissime e li cavalieri loru ngarbati e educati e fose nu divertimentu e nu sguariu generale, ca nu l’aggiu istu mai chiui.


Passando davanti a uno specchio, io mi mirai per poco; e vedendomi sì bella e nuova, dissi fra me medesima: «Oh, io sono veramente la Peregrina, figliuola di Diego il cavaterra, e sorella a Beppe il bettoliere, o pure una gran dama, se non la regina di Napoli in persona?»
E rimasi lì piena di meraviglia per più tempo a mirarmi.
Eransi frattanto apparecchiate le mense, in una sala contigua, ove l'allegra adunanza, a un novello segnale, entrò in fretta a ristorarsi della stanchezza. Le tavole eran coperte di lini bianchissimi, e v'eran vasellami d'argento e d'oro in gran copia, ed anfore e vasi con fiori; e vaschette di terso cristallo, con entro pesciolini di bel colori scambienti e vivaci, nuotanti scherzevoli in limpidissime acque; e gabbiuzze d'oro con uccellini canori, a piume verdi, rossine, cerulee, dorate, e via altre tinte nuove e non mai vedute.
L'ampia sala era tutta profumata di essenze ed aromi, che valeano ad aguzzare vie più l'appetito. Sedutici agiatamente in seggiole dorate e a cuscini di velluto cremisino, ci vennero apprestate da molti familiari, pulitamente vestiti, e con zazzerine pettinate, vivande delicatissime e in molto numero. De' vini non so dirvene, ché ce n'erano d'ogni colore e sapore. V'eran vini di Francia, di Spagna e fino di Grecia, bianchi, vermigli, dolci, asprini: e di tutti bevvi a dovizia, senza che m'avessero per nulla annebbiato il capo. La cena poi veniva allietata da canti e suoni melodiosi e soavissimi, di persone non vedute, e come velati di lontananze, che era un magico incanto. E innanzi che ci levassimo da tavola, entraron nuovi serventi, con vassoi colmi di dolci manicaretti e bevande, tutti entro il ghiaccio e la neve che dispensarono in giro ai commensali.
Ma in un subito, e quasi d'improvviso, l'intera compagnia levossi, e frettolosa uscì dalla sala,  precipitandosi giù dalle scale, come se la volta del palazzo minacciasse rovinarle sul capo.
Mi levai ancor io, e fuggii con loro; e chiestone il perché, mi risposero:
– È per suonare mezzanotte; mal per noi se ci cogliesse in questo luogo.
Mi vidi allora dinanzi le due donne, che m'avevano vestita come a gran signora; le quali, trattami nella solita camera terrena, mi spogliarono in un subito, riponendomi i miei sdruciti e grossi panni. Cercato poscia in fretta Zio Gilletto, andammo insieme presso la vasca, da cui uscì tosto il papero: il quale sbuffando, e figgendoci in viso due occhi che parean carboni accesi, ci disse con una voce come di tuono:
– Non la finivate più stasera, sciagurati! Mal gioco sarebbe stato per voi, se v'avesse qui colti la mezzanotte.
Io m'intesi allora far grizze le carni, che mi parea quello nn più papero, ma un dimonio: e senza profferir parola, insieme con Gilletto ci ponemmo sul dorso della bestia; la quale, aprendo, e dibattendo forte le ali, riprese il volo. Dall'alto abbassai verso terra lo sguardo, a mirare, per l'ultima volta, quella magnificenza; ma qual fu la mia meraviglia quando vidi il giardino cangiato in un deserto, ed il bellissimo palazzo in oscuro ed ombroso noce?
Il volo levavasi ancora più, e noi ripassammo per le medesime vie del cielo; e col favor della luna rividi i mari, le città, i boschi, e le stesse montagne, e quant'altro erami caduto sott'occhi nell'andata. Ma in un subito, coll'impeto con cui dall'alto cade in giuso una pietra, si abbassò l'uccellone, e io riconobbi essere a casa nostra, e propriamente sotto il muro del giardino de' frati: e toccata la terra, scendemmo.
– Signore, ti ringrazio – dissi, vedendomi giunta in salvo; ma com'ebbi pronunziata quella parola, spirò tosto un turbine intorno a noi, il quale sollevò tanta polvere, che oscurossi la luna; e fra que' nugoli s'ascose il papero, e sparì.
Tornato il sereno, non vidi nemmeno accosto a me il vecchio Gilletto; e tremando di gran paura, diedi in lagrime, e così piangente diressimi alla volta di mia casa.
Per via incontrai babbo, seguito da mamma che piangeva a dirotto, percuotendosi il viso e strappandosi i capelli, perché temea non m'avessero gli zingari rubata: ai quali narrai fil filo quant'erami accaduto, e mostrai loro per fino il sito ove il vecchio aveva nascosto l'orcioletto, che con nostra meraviglia trovammo quivi stesso, senza mancarvi gocciol di vino. Rientrammo in casa, e andammo, senz'altra parola, a letto: ma chi potea dormire? Io col capo pieno di tante belle e nuove cose, e i miei genitori col sangue rimescolato per l'avuta paura, la passammo tutta notte in veglia.
A giorno levatici, il babbo senza dir motto, si tolse sotto il braccio cinque spanne d'un querciol nocchieruto, che tene a' suoi usi, e uscì soffiando, recandosi difilato a casa di Zio Gilletto, che per maggior sua mala ventura incontrò per via, mentre andava al beccaio in piazza: e guardatolo bieco, gliene diè sulla nuca un paio con tanta violenza, che il rovesciò per terra, e:
– Svergognato stregone – gridava – io non so chi mi tenga che non ti lasci freddo qua nel fango. Ti par bene, vecchio assassino, condurre mia figliola a casa del diavolo, e farla trescare co' negromanti, colle streghe e colle fattucchiere?
E gettata via la mazza, gli si avventò con tanto impeto addosso, dandogli calci e pugni a tempesta, che l'avrebbe certo finito, se non gliel levavano di sotto alcune persone, accorse in furia al rumore.
Alle quali il poveraccio, lagrimando e tutto lacero nel volto, nella schiena e in altre parti del corpo, tal che non aveva osso, o capello in capo che ben gli stesse, giurava e spergiurava per tutti i santi del cielo, essere innocente dell'accusa, e che ciò gli si era addebitato per male.
Passandu te nanzi a nu specchiu me mirai nu picca e, itendume cussì beddhra e cangiata, me tissi intra te mie: «Oimme, ma su daveru iou la Peregrina, la figghia te lu Diegu scarufaterra e la soru te lu Beppe lu mmassaru o suntu na grande dama ci nu propu la reggina te Napuli?» e rimasi ddhrai, china te stupore, chiù tiempu cu me mmiru.
Addhru frattiempu ianu cunzate le banche, intra na sala te coste addu l’allegra combriccola, allu nueu segnale, trasiu te pressa cu se ristora te la stanchezza.
Le banche eranu ricoperte te linu bianchissimu e nc’eranu vasi te argentu e oru in abbondanza, e  ozze e vasi cu li fiuri, e vaschette te cristallu lucitu cu indra pisciceddhri belli colorati e vispi, ca natavanu schirzandu intra acque limpidissime, e poi caggiule te oru cu ceddhri ca cantavanu, cu piume vierdi, russigne, celiesti, ndorate e aure tinte noe ca nu ia mai istu prima.
La grande sala era china te ndori e profumi, ca te facianu inire ancora chiù fame.
Dopu ca ni ssittammu subbra segge te oru e cuscini te vellutu cremisi, ni venne purtatu  te muti familiare ben vestiti e cu le zazzere pittinate, mangiare delicatissimu e mutu.
Te lu mieru nu mbogghiu bu ticu, ci n’era te ogne culure e sapore. C’eranu vini te la Francia, te la Spagna, financu te la Grecia, bianchi, russi, tuci, mari; e iou me li bivivi tutti quanti, senza cu me bbau te capu. La taulata inia poi allietata te canti e sueni melodiosi e soavi, te cristiani ca nu se itianu, comusia velati in lontanaza ca paria na masciaria.
E prima cu ni ausamu te taula, innera auri inservienti cu vassoi chini te cose tuci, zuzzi e bevande tutte intra lu iacciu e la nie, ca tesera a tutti li nvitati.
Ma te pressa a pressa e tuttu te paru la compagnia se ausau, e bissiu te la stanza, e se precipitara pe le scale, comusìa ca la volta te lu palazzu minacciava cu ni cate an capu.
Me ausai puru iou e me ne scappai cu iddhri, e quandu ni dummandai percene me rispusera:
– Sta mo mo ca sona menzanotte e uai pe nui ci ni zzicca a qua intra.
Me iddi allora annanzi le do’ fimmine ca m’ianu istuta comu na gran signora, ca me purtara intra la cammira sutta terra e me spugghiara subbitu, e me misera le robbe mei tutte mustunisciate e pisanti. Circai poi te pressa lu ziu Gilettu e scemmu an paru versu la vasca, te la quale issiu te pressa la papara, la quale priticandu e uardanduni fiacchi an facce, cu do uecchi ca parianu crauni ddumati, ni tisse cu na uce te truenu:
– Nu la spicciau chiui sta sira, dibbusciati! Ma lu sciuecu ia statu pe bui, ci la menzanotte ia rriata mentre stiu aqquai.
A mie me rrizzicara li carni, ca me parse filu na papara, ma nu demoniu: e senza cu dicimu na parola ni misimu cu lu ziu Gillettu subbra le spaddhre te la bestia, la quale aprendu e sbattendu forte l’ale se nde ulau. De ddhra subbra me misi a uardare a basciu pe l’urtima fiata tuttu ddhru bene te Diu: ma me meravigliai quandu iddi tuttu lu sciardinu cangiatu intra nu desertu, e lu bellissimu palazzu intra nu nuce umbrusu e scuru.
Lu volu se ausava ancora te chiui e nui passammu pe le stesse vie te lu cielu, e cu la luce te la luna iddi ntorna li mari, le città, li boschi e le stesse montagne, e tuttu quiddhru ca m’ia catutu sutta l’uecchi alla sciuta. Ma subbitu cu ddh’impetu te comu cate te subbra abbasciu ne petra, se bbasciau lu ceddru, e iou canuscivi casa noscia, e propiu propiu sutta lu parite te lu sciardinu te li monici e quandu tuccammu terra scisimu.
– Signore, te ringraziu – tissi, quandu me iddi in salvu, ma comu tissi ddhra parola subbitu se girau na capiddhruta te nanzi a nui ca ausau tanta te ddhra purvere ca se umbrau la luna, e intra ddhre nuule se scuse la papara e sparìu.
Turnatu lu serenu nu biddi mancu te coste a mie lu vecchiu Gillettu, e trimulandu per la paura me misi a chiangere, e cussì chiangendu me ne scivi versu casa mia.
Pe la via ncuntrai sirma cu mama ca sta chiangia a fiumi, ca se tia an facce e se strazzava li capiddhri pinzandu ca m’ianu rrubata li zingari. A iddhri cuntai pe filu e pe segnu tuttu quiddhru ca m’ia successu, e ni musciai puru lu postu addu lu vecchiu ia scusu lu mbile, ca poi cu stupore truammu addhrai stessu, senza ne manca na goccia te mieru. Trasemmu a casa e, senza dicimu aure parole ni sci curcammu: e ci turmia? Iou cu la capu china te cose noe e belle, li mei cu lu sangu maru pe la paura ca s’ianu pigghiata, passammu tutta la note ddiscitati.
La matina quandu ni ausammu, sirma senza dice na parola se mise sutta razzu nu taccaru te na misura, tuttu chinu te nnuti e bissìu spumandu, e sciu rittu a casa te lu ziu Gillettu, ca pe sfurtuna soa lu ncuntrau pe la via ca sta scia allu ucceri te la chiazza, e uardandulu fiaccu ni tese do cuerpi sulla cuteddhra cu tanta raggia ca lu mbrigghiau an terra:
– Macaru svergognatu – ritava – ca nu sacciu ci me tene cu nu te llassu friddu quai intra la mogghia. Te pare bellu cu puerti figghiama a casa te lu tiaulu e cu la faci mboscare cu le streghe e le masciare?
E minata an terra la mazza, se vventau subbra te iddhru cu ni tae cauci e pugni a tremulaterra, ca sicuru l’ia ccisu ci nu ne l’ianu lliatu te nanzi certi cristiani, ca s’ianu precipitati sentendu rumore.
A quiddri, lu poverettu chiangendu e cu la facce tutta squagghiata, comu puru la spaddhra e aure parti an cuerpu, ca nu tinia chiu n’uessu o nu capiddhru appostu, giurava e scongiurava subbra tutti li santi te lu cielu, ca era innocente te ddhra ngiuria, e ca lu sta ccusavanu auecchiu.



RIFERIMENTI E NOTE
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TESTO
Giuseppe Gigli, "Zio Gilletto", in: Superstizioni pregiudizi e tradizioni in terra d'Otranto.Con un'aggiunta di canti e fiabe popolari. Firenze: G.Barbera, 1893; pp. 247-259.
https://books.google.it/books?id=fHcAAAAAMAAJ&printsec=frontcover#v=onepage&q&f=false; ultimo accesso: 27/08/25

Rist. anast., Sala Bolognese: Arnaldo Forni Editore, 1979.
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ALTRE FIABE SALENTINE
Indice delle dieci fiabe raccolte da Giuseppe Gigli (1893) e trascritte per questo sito: click per aprirle.

I.         La sposa del re
II.        Le tre sorelle
III.       La lampada d'oro
IV.       Ninetta di Fierarmata
V.        Storia d'una sirena
VI.       I fratelli invidiosi
VII.      Zio Gilletto
VIII.     L'Orco
IX.       L'incanto
X.        La canzone del menestrello
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TRADUZIONE Lucia Conte, novembre 2025. https://www.instagram.com/luciacontesinger/?hl=it
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IMMAGINE The Sleeping Beauty and other fairy tales from the Old French retold by Sir Arthur Quiller Couch, illustrated by Edmund Dulac. New York: Hodder and Stoughton 1909;
https://archive.org/details/sleepingbeautyot00quil/page/70/mode/2up; ultimo accesso 19 aprile 2024.

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NOTE

Zio Gilletto
Già nella fiaba "La canzune de lu pueta"(http://www.alaaddin.it/_TESORO_FIABE/FD_Puglia_Menestrello.html) abbiamo visto il ricorso a una figura femminile estranea all'ordine patriarcale di matrice cattolica, grazie alla quale il rischio di morte si trasforma in un finale felice. Qui il ricorso alla magia è addirittura il viaggio a cavallo di un papero demoniaco, grande come l'uccello Ruch delle Mille e una notte, fino al celebre Noce di Benevento, dove, invece di elementi perturbanti, si svolge una festa degna della Parigi del Re Sole. Vero è che a mezzanotte tutti devono sparire per evitare conseguenze spaventose, ma alla fine la protagonista rientra senza danni nella sua famiglia, e il mediatore tra i due mondi prende una scarica di bastonate dal padre di lei, ma senza conseguenze tragiche.
L'esperienza è un sogno? Una fantasia? Un delirio?
Certo questa fiaba è ricca e coerente per la struttura narrativa, per il linguaggio  popolare ma certo ricco di espressioni colte, e per le immagini anch'esse degne della corte francese ai tempi del Re Sole e
di Charles Perrault. Una singolare fiaba, che per la sua potenza espressiva non ha nulla da invidiare alle fiabe di raccolte più celebri e celebrate, come quelle toscane e siciliane.





online dal 4 agosto 2025
ultima modifica 19 novembre 2025