E sì che vo' narrare ai piccini, e a voi, donne
mie care, quel che mi fece quel diamine di vecchio, da
molti vituperato, e fin battuto, ma che alla buon'ora
recava a più d'uno del bene. Io dunque era giovinetta a
circa quindici anni: era una bella sera di giugno, e noi,
dopo il lavoro, sedevamo a godere la luna e prender
fresco, avanti alla nostra casetta.
L'orologio della Porticella batteva le due ore di notte,
dando i sessantadue tocchi, che dà tuttavia; il che del
mio tempo veniva detto la fuor'ora, perché le botteghe si
chiudevano, e la gente, coperto il fuoco, andava a riposo.
Mio padre mi disse:
- Levati su, figliuola, prendi l'orciuolo e le poche
monete che sono sulla panca, e corri alla cantina di
Leonardo, innanzi che chiuda, e digli che te l'empia di
vin paesano, ch'ei serba per gli amici.
Toltomi orcioletto e monete, v'andai di buone gambe, e
giunsi a tempo. Al ritorno, come fui al largo, vidi venire
da sotto la torre dell'orologio, a me vicino, un
uomo, che alla voce riconobbi essere Zio Gilletto;
ché al vestire mi sarebbe parso impossibile. Curioso
proprio al vederlo! Indossava una giubba di bel verde,
calzoni rossi affibbiati alle ginocchia, su calze
bianchissime di seta, scarpe lustre, cravatta e corpetto
bianco, e berretta di velluto rosso a galloni d'oro;
teneva fra le mani un bastoncino elegante, con pomo di
perla, a lucida ghiera. Avea la zazzera ben pettinata,
guanti gialli alle mani, e oliva tutto di zibetto.
- Buona sera bella ragazza, - mi diss'egli, garbato e
amorevole, - ove corri così in fretta?
- A portare il vino per la cena, - gli risposi io, - ché
il babbo vuol dormire. E voi, a che così rassetto e
attillato, ché mi avete l'aria di uno sposo?
- Non sai? - soggiunse egli, - vado a godermi una festa
qui vicino. Oh! I bei dolci e liquori squisiti, e i be'
sorbetti, e ogni sorta di delicato mangiare, che saravvi a
bizzeffe! Vuoi venir meco, ragazza? Noi sarem presto di
ritorno.
- Ma io vado così mal concia ch'è una pietà, - gli risposi
– ho indosso una gonnella di casa, e sono scalza per
giunta.
Ed egli:
- Ciò è nulla; vieni con me, ché come saremo colà, ti farò
far netta, e adornar come a regina, di seta, veli e
collane dalle mie comari. Vedrai cose bellissime e nuove.
- Andiamo, - diss'io sedotta dal suo parlare.
Toltomi egli allora di mano l'orciuolo, riposelo in un
angolo della piazzetta, dov'eravi dell'ombra. Mossosi
tosto di colà, io lo seguii; e come fummo sotto al muro
del giardino dei frati, fermossi, e fece col bastone un
cerchio a terra: borbottate non so quali parole, vedemmo
d'improvviso alla nostra presenza un papero, di tale
grandezza, ch'io, in vita mia, non vidi mai l'eguale. Zio
Gilletto vi si mise tosto a cavallo, ed invitò me a pormi
in groppa. Com'e' videmi adagiata:
- Tienti bene alla coda della mia giubba, - mi disse, - e
sta' ferma; e bada a non profferire alcuna cosa che sia di
sacro, altrimenti saremmo perduti amendue; ché d'un salto
solo la bestia si scaricherà del nostro peso.
Non ancora egli avea pronunziata l'ultima parola, che
l'uccellone, allargate le ali, si sollevò da terra, e
prese in breve un altissimo volo; tal che a me parea
toccar quasi con mano la luna, le stelle, e fin la volta
del cielo. Chinando per poco gli sguardi, vidi giù, sott'a
miei piedi, città, boschi, villaggi, mare, montagne; e mi
pareano divenuti piccini e come dipinti nei quadri.
In un punto ch'era una gran valle, sentii fischiar la
tempesta, e romoreggiar l'uragano; e vidi il guizzare dei
fulmini, cui succedeva il rombo del tuono, che udiasi,
come portato da' venti, lontano lontano. Ond'io, chiuse le
palpebre, tremava a verga, compresa da somma paura; e
maledicevo in cuor mio l'ora e il momento che m'era
abbattuta in quel dimonio di vecchio. Allora vidi
chiaramente esser vere le accuse che gli davano, di star
egli mescolato in fattucchierie; e ben meritate le lunghe
penitenze, che faceagli spesso fare il nostro arcivescovo,
buon'anima. E quai piangente, gli chiesi:
- Ove mi conducete voi stasera? Deh, piacciavi pormi a
terra; io tremo tutta dallo spavento, ché veggomi vicina
tanto la morte.
- Taci, sciocca, - risposemi Gilletto, - ché or ora
giungeremo.
Poi, modulando una sua arietta, cantarellava:
Sopr'acqua e sopra vento
Andiamo a Benevento;
Balliam con le Comari
Ne' lor sacrati lari.
Confortata
alquanto dentro di me, pensando ai godimenti promessi,
aprii per poco gli occhi, volgendo giù lo sguardo; e
parvemi vedere, in una vasta pianura, come de' fuochi
risplendenti fra gli alberi d'un bosco, in mezzo ai quali
appariva una luce maggiore e più grande. Il valente
uccello frattanto, senza perder la rapidità del suo volo,
andavasi di mano in mano abbassando verso la terra, finché
giunto in un delizioso giardino, pien di vaghissime piante
fiorite, e d'alberi con bei frutti maturi, fermossi
piè d'una fontana di bianchi marmi, a molti zampilli e a
cascatelle, limpide e deliziose alla vista. Scesi ambo a
terra, il papero entrò a nuoto nella vasca; e noi, messici
in un viale odoroso per molti e variopinti fiori, dopo
alquanti passi fummo dinanzi a bellissimo e meraviglioso
palazzo, tutto di cristallo, bene alluminato in ogni sua
parte: ed era tanto lo splendore, che, appena, a
riguardarlo, potea reggere l'occhio.
Due gentili donzelle, nobilmente vestite, mi vennero
incontro, anzi me le vidi d'improvviso davanti, senza aver
udito romore de' lor passi, ch'eran sì leggiere, che parea
non poggiassero a terra. E:
- Siate la benvenuta, bella signorina – mi dissero; e
presami per mano mi condussero con loro in una stanza
terrena, ove spogliatami dal capo ai piedi, mi dettero
prima un fresco e odoroso bagno, ch'io mi sentia tutta
confortata e rifatta; e quindi mi arricciarono i capelli e
li unsero d'olî soavissimi, che olivan di rosa e
bergamotto. Poscia aperto un armadio, ne trassero una
veste di drappo a ricami, che parea fatta a mio dosso; e
calze e magnifici usattini; e tutto mi posero di bel
garbo e con la maggiore prestezza. Tolsero anche una
collana, tutta di perle finissime legate ad oro, e me le
sospesero al collo; e le trecce mi ornarono di fiori
gentili, e lucidi brillanti.
Così adorna com'era e fatta bella, che parea veramente una
regina, mi ricondussero nel giardino, dicendomi:
- Divertitevi a vostro agio e piacere – e andaron via.
Vennemi tosto dappresso un gentil cavaliere ad offerirmi
il braccio; e così insieme entrammo ne' viali, rischiarati
da mille lampade di nitidissimo cristallo, a coglier fiori
e ornarcene, e pomi saporosi dagli alberi; e a sollazzarci
in piacevoli giuochi, unitamente con altre dame e
cavalieri, che entravano pur quivi in folla.
Sedutici poscia tra le piante, chi novellava, chi
canterellava, e chi intrecciava allegre carole. Quivi mi
avvenne incontrarmi con parecchie persone, ch'io ben
riconobbi, tra le quali un sindaco di Francavilla, che
sapea, come dicevasi da molti, la virtù di far l'oro; un
molto reverendo di Maruggio, che non so in qua' pegole,
con iscompiglio de' suoi frati; e un canonico del duomo di
Oria, con una monaca, per la qual delirava e basiva; e a
quest'ultima rivolta voleva il magagnato per forza
sposarla.
Vidi dunque tutti costoro nel giardino delle fate; e tutti
vestiti, senza distinzione alcuna, pomposamente, e in
leggiadre fogge, baloccavansi in mille guise. Zio Gilletto
avea pur esso la sua dama a braccio, forse la più bella e
vaga donna ch'io abbia colà veduta. In un tratto udironsi
melodiosi suoni di arpe, di flauti, di viole e d'altri
piacevoli strumenti di fiato e di corda; i quali
avvertivan la brigata, che già aprivasi il ballo.
All'avviso, tutti quant'eran, dame e cavalieri, levatisi,
andarono al palazzo; ed io con loro; e salite le scale,
ch'eran di fine alabastro, entrammo in una vasta e
magnifica sala, di specchi, e preziosi arazzi e frange
d'oro, e fiori a festoni, maravigliosamente ornata, e
splendente per molti doppieri e lumiere. Datosi
cominciamento, io fui graziosamente invitata dal mio
cavaliere a un giro di danza, che feci con tale abilità e
sveltezza, come ne fossi stata più tempo istrutta. Entrai
poscia nelle quadriglie e in altri balli, che succedevansi
con ordine e leggiadria; dopo i quali ebber luogo de'
giuochi di vaghissime donne con molto ben disposti e
gentili giovani: e fu un diletto e divertimento generale,
e mai più veduto.
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Passando
davanti a uno specchio, io mi mirai per poco; e vedendomi
sì bella e nuova, dissi fra me medesima: «Oh, io sono
veramente la Peregrina, figliuola di Diego il cavaterra, e
sorella a Beppe il bettoliere, o pure una gran dama, se
non la regina di Napoli in persona?»
E rimasi lì piena di meraviglia per più tempo a mirarmi.
Eransi frattanto apparecchiate le mense, in una sala
contigua, ove l'allegra adunanza, a un novello segnale,
entrò in fretta a ristorarsi della stanchezza. Le tavole
eran coperte di lini bianchissimi, e v'eran vasellami
d'argento e d'oro in gran copia, ed anfore e vasi con
fiori; e vaschette di terso cristallo, con entro
pesciolini di bel colori scambienti e vivaci, nuotanti
scherzevoli in limpidissime acque; e gabbiuzze d'oro con
uccellini canori, a piume verdi, rossine, cerulee, dorate,
e via altre tinte nuove e non mai vedute.
L'ampia sala era tutta profumata di essenze ed aromi, che
valeano ad aguzzare vie più l'appetito. Sedutici
agiatamente in seggiole dorate e a cuscini di velluto
cremisino, ci vennero apprestate da molti familiari,
pulitamente vestiti, e con zazzerine pettinate, vivande
delicatissime e in molto numero. De' vini non so dirvene,
ché ce n'erano d'ogni colore e sapore. V'eran vini di
Francia, di Spagna e fino di Grecia, bianchi, vermigli,
dolci, asprini: e di tutti bevvi a dovizia, senza che
m'avessero per nulla annebbiato il capo. La cena poi
veniva allietata da canti e suoni melodiosi e soavissimi,
di persone non vedute, e come velati di lontananze, che
era un magico incanto. E innanzi che ci levassimo da
tavola, entraron nuovi serventi, con vassoi colmi di dolci
manicaretti e bevande, tutti entro il ghiaccio e la neve
che dispensarono in giro ai commensali.
Ma in un subito, e quasi d'improvviso, l'intera compagnia
levossi, e frettolosa uscì dalla sala,
precipitandosi giù dalle scale, come se la volta del
palazzo minacciasse rovinarle sul capo. Mi levai ancor io,
e fuggii con loro; e chiestone il perché, mi risposero:
- È per suonare mezzanotte; mal per noi se ci cogliesse in
questo luogo.
Mi vidi allora dinanzi le due donne, che m'avevano vestita
come a gran signora; le quali, trattami nella solita
camera terrena, mi spogliarono in un subito, riponendomi i
miei sdruciti e grossi panni. Cercato poscia in fretta Zio
Gilletto, andammo insieme presso la vasca, da cui uscì
tosto il papero: il quale sbuffando, e figgendoci in viso
due occhi che parean carboni accesi, ci disse con una voce
come di tuono:
- Non la finivate più stasera, sciagurati! Mal gioco
sarebbe stato per voi, se v'avesse qui colti la
mezzanotte.
Io m'intesi allora far grizze le carni, che mi parea
quello nn più papero, ma un dimonio: e senza profferir
parola, insieme con Gilletto ci ponemmo sul dorso della
bestia; la quale, aprendo, e dibattendo forte le ali,
riprese il volo. Dall'alto abbassai verso terra lo
sguardo, a mirare, per l'ultima volta, quella
magnificenza; ma qual fu la mia meraviglia quando vidi il
giardino cangiato in un deserto, ed il bellissimo palazzo
in oscuro ed ombroso noce?
Il volo levavasi ancora più, e noi ripassammo per le
medesime vie del cielo; e col favor della luna rividi i
mari, le città, i boschi, e le stesse montagne, e
quant'altro erami caduto sott'occhi nell'andata. Ma in un
subito, coll'impeto con cui dall'alto cade in giuso una
pietra, si abbassò l'uccellone, e io riconobbi essere a
casa nostra, e propriamente sotto il muro del giardino de'
frati: e toccata la terra, scendemmo.
- Signore, ti ringrazio, - dissi, vedendomi giunta in
salvo; ma com'ebbi pronunziata quella parola, spirò tosto
un turbine intorno a noi, il quale sollevò tanta polvere,
che oscurossi la luna; e fra que' nugoli s'ascose il
papero, e sparì.
Tornato il sereno, non vidi nemmeno accosto a me il
vecchio Gilletto; e tremando di gran paura, diedi in
lagrime, e così piangente diressimi alla volta di mia
casa. Per via incontrai babbo, seguito da mamma che
piangeva a dirotto, percuotendosi il viso e strappandosi i
capelli, perché temea non m'avessero gli zingari rubata:
ai quali narrai fil filo quant'erami accaduto, e mostrai
loro per fino il sito ove il vecchio aveva nascosto
l'orcioletto, che con nostra meraviglia trovammo quivi
stesso, senza mancarvi gocciol di vino. Rientrammo in
casa, e andammo, senz'altra parola, a letto: ma chi potea
dormire? Io col capo pieno di tante belle e nuove cose, e
i miei genitori col sangue rimescolato per l'avuta paura,
la passammo tutta notte in veglia.
A giorno levatici, il babbo senza dir motto, si tolse
sotto il braccio cinque spanne d'un querciol nocchieruto,
che tene a' suoi usi, e uscì soffiando, recandosi difilato
a casa di Zio Gilletto, che per maggior sua mala ventura
incontrò per via, mentre andava al beccaio in piazza: e
guardatolo bieco, gliene diè sulla nuca un paio con tanta
violenza, che il rovesciò per terra, e:
- Svergognato stregone, - gridava, - io non so chi mi
tenga che non ti lasci freddo qua nel fango. Ti par bene,
vecchio assassino, condurre mia figliola a casa del
diavolo, e farla trescare co' negromanti, colle streghe e
colle fattucchiere?
E gettata via la mazza, gli si avventò con tanto impeto
addosso, dandogli calci e pugni a tempesta, che l'avrebbe
certo finito, se non gliel levavano di sotto alcune
persone, accorse in furia al rumore.
Alle quali il poveraccio, lagrimando e tutto lacero nel
volto, nella schiena e in altre parti del corpo, tal che
non aveva osso, o capello in capo che ben gli stesse,
giurava e spergiurava per tutti i santi del cielo, essere
innocente dell'accusa, e che ciò gli si era addebitato per
male. |