Il potentissimo re Fierarmata aveva una
figliuola a nome Ninetta, sul fulgore degli anni e
della bellezza.
Costei abitava insieme con una giovine dama di compagnia,
in una parte del castello decorata con immensa profusione
di marmi preziosi, e di preziosissimi legni odorosi. La
sua camera da letto era smagliante di pietre d'alto
valore, e il letto ov'ella dormia i suoi placidi sogni di
vergine era tutto un pezzo d'oro.
Un giorno ella volle uscire con la sua compagna in città.
Ma appena varcata la soglia del portone s'incontrò in una
vecchia d'orribile bruttezza.
La giovine regina allora mirandola esclamò:
– Com'è brutta!
Quella vecchia era una fata, che sorrise di disprezzo a
quelle parole, e rispose:
– Che tu possa trasformarti secondo il tuo desiderio, e
che tu possa innamorarti del figlio del re, e che questo
non ti ami, se non dopo che tu avrai fatto la serva!
Ninetta turbossi a questa imprecazione, ma la sua compagna
rassicurolla, pregandola a non dare ascolto alle parole
d'una vecchia.
Passarono molti mesi.
Un giorno fu annunziato al castello l'arrivo, di un
giovine principe straniero, che viaggiava per diporto. Fu
ricevuto con la massima cortesia, e rimase ospite della
real famiglia per tre giorni. Quel giovine era bellissimo,
e toccò il cuore di Ninetta. Quando egli partì per
proseguire il lungo viaggio questa rimase profondamente
addolorata, senza saperne discacciare dagli occhi la
immagine, e dal cuore il desio.
Un giorno, non potendo più tollerare tanto martirio, ne
parlò col re suo padre; il quale, amantissimo com'era di
quell'unica figliuola, e vedendola lentamente deperire
nella salute, le promise che sarebbe immediatamente
partito alla volta del reame del padre del giovine
principe, per fargli noto un così fervido amore.
Partì infatti, e vi giunse accolto cortesemente dal
vecchio re, suo amico. A costui confidò le ansie e il
desio della figliuola, pregandolo di farne partecipe il
principe.
Il vecchio re promise che tutta la sua autorità
interposta, acciò si compissero nozze lui bene
accette; ma quando la sera ne parlò al figliuolo, questi
rispose con una solenne risata, e soggiunse:
– No, caro padre, io non prendo moglie!
Il re insistette, facendogli noto il languore e il fervido
amore di Ninetta; e quello allora, traendosi di tasca un
fazzoletto finemente ricamato, disse:
– Ebbene, fatele pervenire questo fazzoletto, affinché
ella, a me pensando, si asciughi le lacrime che verserà
per amor mio!
Tornato il re Fierarmata al castello, consegnò il
fazzoletto alla figliuola, ripetendole l'ottenuta
risposta.
Questa cadde allora in profonda malinconia, e cominciò a
soffrire seriamente nella salute.
Suo padre attese parecchi mesi, e, vedendo riuscire vana
ogni cura, decise di tornare dal padre del lontano
principe, per cercare di riuscire nuovamente nell'intento.
Ma neppur questa volta fu felice, perché il crudele
giovine, consegnandogli una boccetta ripiena di profumata
acqua, disse:
– Io non prendo moglie; però presentate questa boccetta
alla vostra figliuola, affinché se l'appressi al naso,
quando si sentirà venir meno per me!
Ninetta conosciuta col ritorno del padre la brutta
novella, infermò gravemente. Invano re Fierarmata chiamò
intorno al suo letto i primi medici del reame; invano
promise metà delle sue ricchezze a colui che ridasse la
primiera salute alla sua figliuola...
Ed una notte che la malata era per morire, egli si rivolse
al suo buon Genio, ed esclamò:
– Fatela ancora vivere, sin ch'io compia un altro viaggio.
Postosi immediatamente in viaggio, dopo tre giorni, giunse
al castello del giovine crudel principe. Non appena lo
scorse da lontano, con gli occhi pieni di lagrime, gridò:
– Volete dunque farmi morire l'unica figliuola, il solo
bene della mia vita? E volete dunque mostrarvi più crudele
d'una tigre?
Quello sorrise, e traendosi di tasca un lungo laccio d'oro
finissimo, rispose:
– Io non prendo moglie; però presentate questo laccio alla
vostra figliuola, affinché, se è vero ch'ella soffre tanto
per amor mio, la finisca una buona volta colla vita, e si
appicchi con esso a un albero!
Lo sconsolato padre tornò al natio castello, e riferì,
tra' singhiozzi, alla figliuola la villana risposta.
Ninetta prese quest'ultimo oggetto, e levandosi
improvvisamente da letto, disse:
– Ora sto bene; mi ha guarita il mio buon Genio; però qui
non posso più stare, e voi, padre, beneditemi, ché per
lungo tempo non ci potremo vedere. Io debbo fare un lungo
viaggio.
Il padre cercò di ritenerla con sé, ma riuscendo vane
tutte le sue premure di affetto, la benedisse, dicendo:
– Ti accompagni la fortuna, Ninetta!
E Ninetta partì.
2.
Giunta alla città capitale del reame appartenente al re,
padre del giovine principe che ella amava, domandò ad
alcune popolane qualche informazione su' costumi di
quest'ultimo, e seppe ch'egli aveva amorose relazioni con
una bellissima donna maritata.
Ella pensò: « Ah, l'infame! Perciò dice di non voler
prender moglie! E dunque mi pospone a codesta donna?
Voglio vederla ».
Si vestì poveramente, come una mendicante, e andò a
bussare alla porta della sua rivale.
– Sono una povera giovine abbandonata da tutti, – ella
disse con voce tremante, – e vi prego di volermi
accogliere come serva.
La donna, che ricamava oro ed argento una magnifica
sciarpa da guerriero, disse:
– O povera giovine, non ho bisogno di serve.
– O buona signora, accoglietemi per carità; ascoltate, io
non voglio alcuna mercede da voi; mi basta un letto, e un
pezzo di pane, e vi assicuro che resterete contenta di me.
Accoglietemi, o buona signora.
L'onesta e bella faccia di Ninetta commosse colei, che
finalmente disse:
– Ebbene, entrate pure in casa.
Dopo parecchi giorni, tanto la donna come suo marito
eran davvero contentissimi delle buone qualità della
serva, e ringraziavano la fortuna che l'aveva loro
mandata.
Il marito, specialmente, ammirava in lei i bei modi
gentili, e la cortese favella, tanto che un giorno, dopo
aver fatto un ghiotto pranzo e alzato bene il gomito,
chiamandola per nome, disse:
– O Ninetta, tu parli tanto bene; raccontami un po'
qualche istoria...
E quella:
– O signore, io ve la racconterò fra qualche giorno.
Intanto la giovane regina non dormiva; ed a furia di
spiare, vide che ogni notte la sua padrona abbandonava il
letto del marito, e, tratto da un armadio un mazzo di
chiavi, con queste apriva quattro porte dell'appartamento,
e giunta in una stanza buia, ritrovava il giovane
principe, col quale passava molte ore...
Si fu allora un giorno che l'uomo aveva più del solito
bevuto generosamente, ella disse:
– O non volete dunque ascoltare una storia?
– Sì, sì, brava Ninetta, racconta pure...
– O signore, io vorrei, ma temo che novellando non dia
pena alla mia signora, vostra moglie.
E costei:
– Narra, narra pure.
– Ebbene, ascoltate. Vi è un figlio di re, bello e
crudele, che fa soffrire a morte una giovine principessa,
padrona del più vasto reame del mondo, per dare il suo
cuore a una donna volgare che tradisce il proprio marito.
Questa donna ogni notte si leva dal letto, apre un armadio
da cui toglie più chiavi, traversa una, due, tre, quattro
stanze, si adagia su un letto morbido di piume di cigno, e
si inebbria col giovane principe di abbracci e di baci...
La donna, a queste parole, divenne bianca come calce.
Il marito disse:
– E chi è mai questa donna?
– Voi, o signore, l'avete a lato.
– Che dici mai, mia moglie?
– Sì, o signore.
– E in quell'armadio sono le chiavi?
– Sì, o signore.
– Se ciò fosse una vile calunnia, non meriteresti tu la
pena di morte?
– Sì, o signore.
Il tradito marito si appressò all'armadio, tolse le
chiavi, aprì e attraversò le quattro stanze, attese
un'ora, due, e vide comparire il giovine principe...
Il giorno dopo alcuni barcaioli pescavano in mare il
cadavere della donna infedele.
Ninetta si era vendicata.
3.
Passarono molti altri mesi, otto, dieci forse.
Il giovine principe era intanto caduto in profonda
malinconia, dopo la perdita della donna amata. Il padre
suo aveva pure tentato ogni mezzo per distrarlo dai cupi
pensieri, ma tutto era riuscito inutile. Si fu allora che
qualcuno gli consigliò di accettare la mano offertagli
della figlia del re Fierarmata; ma egli rispose:
– Nel mio cuore non c'è che una sola immagine di donna, e
questa ora è morta: nessun'altra può supplirla!
Allora il re padre pensò di dare nel suo castello delle
sfarzose feste da ballo, alle quali dovessero convenire
tutte le più belle donzelle del reame, sperando che di
qualcuna di esse potesse innamorarsi il povero figlio suo.
Era una sera di gennaio la prima volta che il castello si
aprì a migliaia di invitati. Il giovine principe vide
passare sotto lo sfavillio di mille lumi le più vaghe
donzelle; ma per nessuna ebbe il più lieve sorriso.
Suonava la mezzanotte quando, all'improvviso, nella sala
sollevossi un mormorio di ammirazione. Tutti volsero gli
occhi verso l'uscio, e videro apparire la più bella
fanciulla che mai mani di fata avessero potuto scolpire.
Camminava ella con solennità maestosa, gettando qua e là
sprazzi di luce da' diamanti che tempestavano il suo
abito, tutto velo e trine. Nel viso aveva tutte le grazie
d'una dea, e negli occhi il lume d'una stella.
A quest'apparizione, rimase meravigliato il giovine
principe, che, fino allora rimasto seduto malinconicamente
in un canto, si levò e invitò alla danza la bella
sconosciuta. Questa accettò, e fu vista nelle braccia di
colui volare mollemente, più che calpestare co' piedi il
terreno.
E allora il principe domandolle.
– Chi siete mai?
– O principe, io non posso dirvelo.
– Almeno ditemi in quale paese nasceste.
– Pur questo è un segreto.
– Voi siete assai bella!
– Grazie, principe.
Chiusa alla mattina la festa, il principe mandò due
cortigiani alla ricerca della bellissima fanciulla, per
offrirle la sua mano, tanto era innamorato di lei; ma
invano quelli picchiarono a tutte le case della città, ché
nessuno aveva mai vista o albergata alcuna straniera.
Dopo alquante sere, una nuova festa fu indetta a corte, e
non era ancora scoccata intera la mezzanotte, quando
novellamente apparve la meravigliosa fanciulla.
Questa volta ella era vestita di azzurro, e sugli abiti
suoi v'erano gettate in perle le ricchezze d'un re.
Vederla, e avvicinarsele per invitarla al ballo, fu un
momento solo pel principe.
E le disse:
– Io ho pensato sempre a voi, e vi amo. Vi offro un regno
e una corona: volete accettare la mia mano?
– O principe, io non prendo marito...
– Se voi rifiutate, io passerò nel pianto la mia vita per
amor vostro...
Allora quella trasse dal seno un fine fazzoletto ricamato,
e porgendolo a lui disse:
– Se piangete per me, con questo fazzoletto asciugatevi le
lacrime.
E sparì.
Il giovane principe si struggea di malinconia.
I medici chiamati intorno a lui non sapevano trovare un
rimedio al male. E dopo tre giorni una novella festa fu
indetta a corte. Questa volta la bella sconosciuta apparì
vestita tutta di piume di cigno, sicché parea che volasse
in una morbida nube. Scorgendo il principe sconsolato,
ella sorrise, e avvicinandoglisi mormorò:
– Soffrite, o principe?
– Sì, e per voi. Fra pochi giorni venite almeno a visitare
la mia tomba, ove voi, coll'ostinato rifiuto, mi spingeste
a poco a poco!
– Mi duole, principe, ma nulla ho da farvi: io sono
destinata a non prender marito: lo sapete: ma pure,
ecco...
E ciò detto gli porse una boccetta di cristallo:
– Qui è rinchiuso un soave profumo; se per amor mio vi
sentirete qualche volta venir meno, odoratelo, o
principe...
E sparì.
Il principe moria. Al castello si facevano già i
preparativi funebri. Allora egli chiese al padre che prima
di morire gli facessero rivedere almeno un'altra volta la
misteriosa straniera.
– Date un'altra festa, – egli disse, – così solo potrò
ritrovarla.
E la festa fu data. Il principe con gli occhi infossati e
il respiro affannoso fu portato nella gran sala.
Quando, in sulla mezzanotte, apparì la bella, egli
sentissi rivivere. Questa volta essa era coperta da una
fitta rete di smeraldi e di diamanti. Le si appressò:
– Volete dunque davvero farmi morire disperato come un
cane? Volete davvero mostrarvi più crudele d'una tigre?
– O principe – rispose ella, – c'è chi vi ama ed è
disprezzata da voi... ora io non posso darvi che questo
laccio d'oro, affinché affrettiate la vostra morte,
impiccandovi per amor mio a un albero...
E ciò dicendo gli porse un grosso e fine laccio d'oro.
Poi sparì.
4.
Il giorno dopo tutta la corte era in movimento, perché il
giovine principe, riacquistata all'improvviso una insolita
energia, colla scorta di cento cavalieri, doveva partire
pel giro del mondo, alla ricerca della bella sconosciuta.
Un minuto prima della partenza, presentossi alle porte
della reggia una mendicante, col viso tinto di carbone e
gli abiti sdruciti, la quale chiese di parlare al re. I
domestici la volevano respingere, ma in quel momento
apparve davvero il re.
– Maestà, – gridò ella, – io sola ho la possibilità
di guarire il figlio vostro.
– E come? – esclamò il re.
Allora quella, presentandogli una focaccia di pane,
rispose:
– Mangi il principe di questo pane, e vi assicuro che
guarirà.
Il re sorrise per incredulità; pure per la curiosità del
nuovo espediente accettolla, e, rientrato in casa, la
porse al figlio.
Questi, colla scorta, partì.
A mezzogiorno, nel cuore d'una folta foresta, smontarono
tutti da cavallo per riposarsi, e rifocillarsi con qualche
leggiera colazione.
Il principe allora prese la focaccia, e nell'aprirla in
due, vide cadersi ai piedi un grosso anello d'oro.
Raccoltolo, vi lesse per il cerchio queste parole: «Chi tu
disprezzasti, ora desideri; tu vai lontano, e te la lasci
indietro. Torna nelle sue braccia, Ninetta ti aspetta!»
Stupefatto egli di ciò, comandò alla scorta di tornare al
castello, ove giunto, trovò sulla soglia d'entrata, la
mendicante che gli aveva fatta pervenire la focaccia. Le
comandò allora di venir nelle sue stanze, ove giunti, le
disse:
– Spiegatemi il mistero di questo anello.
E quella:
– O principe, imparate a rispettare meglio chi, nata come
voi, vi offre il cuore!
Allora, sorridendo, ella all'improvviso trasformossi in
vaghissima fanciulla, nella quale il giovine riconobbe la
sconosciuta sua bella, la misteriosa visione delle feste
al castello, la figlia del Re Fierarmata, Ninetta.
Il giorno dopo le sfarzosissime nozze eran proclamate da
cento araldi pe' due potenti reami.
|
Lu potentissimu rre te Fierarmata tinia na
figghia ca se chiamava Ninetta, allu megghiu te l’anni soi
e de la bellezza.
Iddhra abitava amparu a na giovane dama te compagnia,
intra na parte te lu castellu decorata cu marmi preziosi
immenzi. e taule profumate e preziosissime. La cammira te
liettu soa era splendente te petre te mutu valore, e lu
liettu, addu iddhra turmia li suenni soi calmi te
verginieddhra, era tuttu nu stuezzu te oru.
Nu giurnu iddhra ose bbesse cu la cumpagna soa intra lu
paise. Ma appena superau lu timmitale te lu purtune se
ncuntrau cu na vecchia te na bruttezza mai vista.
La giovane reggina allora, uardandula, tisse:
– Ce bbe brutta!
Ddhra vecchia era na masciara, ca se mise a ritere cu
disprezzu a ddhre parole e rispuse:
– Cu te puezzi trasformare a sicunda te lu desideriu toi,
e cu te nnamuri te lu figghiu te lu rre e quiddhru cu nu
te ole ci nu dopu ca ai fatta la serva!
La Ninetta mmariu a ddhra parola, ma la cumpagna soa la
calmau ticendu cu nu ssente le parole te ddhra nunna.
Passara parecchi misi.
Nu giurnu fose annunziatu allu castellu, ca sta rriava nu
giovane principe stranieru, ca viaggiava cu sse ddiverte.
Fose accoltu cu grande cortesia, e rimase ospite te la
famiglia reale pe tre giurni. Ddhru giovane era bellissimu
e ne purtau lu core alla Ninetta. Quandu iddhru partìu cu
continua lu luengu viaggiu iddhra ne rimase parecchiu
fiacca, senza se llea mai te l’uecchi la facce soa e de lu
core lu desideriu.
Nu giurnu, nu putendu chiui combattere cu ddru martiriu,
ne parlau cu sirsa lu rre, ca siccomu era nnamuratu pacciu
te ddhr’unica figghia, e itendula deperire te salute, ni
purmise ca partìa tandu pe citandu cu bae allu regnu te lu
sire te ddhru giovane principe, cu ni tice te stu grande
amore.
Difatti partìu, e quandu rriau fose accoltu gentilmente te
lu vecchiu rre, amicu sou. A iddhru ni cunfissau le
preoccupazioni e lu desideriu te la figghia, e lu priau cu
ni la tice allu principe.
Lu vecchiu rre purmise ca nci mintia la bona parola soa di
modu cu se face stu sposaliziu, ca, a iddhru ni facia
piacere; ma quandu la sira ne parlau cu lu figghiu, quistu
ni rispuse cu na grande risata e sciungìu:
– E nno, caru Tata, iou nu me sposu filu!
Lu rre nzistìu, ticendu te quantu sprasimava pe iddru e ni
ulia bbene la Ninetta, e iddhru allora, se cacciau nu
bellu fazzulettu ricamatu te pauta e disse:
– Evvabbene, mandatini stu fazzulettu, dimodocchè iddhra,
quandu me penza, se stuiscia li chianti ca mina pe l’amore
miu!
Quandu lu rre te Fierarmata turnau allu castellu, ni
consegnau lu fazzulettu alla figghia e ni tisse la
risposta ca ia uta.
Iddhra catiu allora intra na grande malincunia, e
cuminciau a mmalazzare seriamente.
Sirsa spittau parecchi misi, e bitendu ca ogne cura nu
sirvìa, decise cu torna addu lu sire te lu principe
luntanu, cu bite ci sta fiata nci la face cu lu convince.
Ma mancu sta fiata fose felice, perché lu giovane ca era
fiaccu propriu, ni consegnau na buccetta china te acqua
profumata e ni tisse:
– Iou nu
me sposu filu; però prisentani sta buccetta a figghiata,
cussì se la ndora quandu se sente mancare pe mie!
La Ninetta, quandu sippe la brutta notizia te lu sire, se
mmalazzau fiacca propriu. Auecchiu lu rre Fierarmata
chiamau li megghiu tottori te lu regnu nturnu nturnu allu
liettu sou; auecchiu purmise menze te le ricchezze soi
allu cristianu ca riuscia cu ni tae ntorna la vecchia
salute alla figghia soa…
E ’na notte ca la malata sta murìa, iddhru se rivolse allu
buenu Geniu sou e ni tisse:
– Fanne cu campa ncora, fina cu fazzu n’auru viaggiu.
Se mise immediatamente in viaggiu, e dopu tre giurni,
rriau allu castellu te lu giovane principe crudele. Appena
lu idde te lu largu cu l’uecchi chini te lacrime, ritau:
– Nzomma uei propriu me faci murire l’unica figghia ca
tegnu, l’unicu bbene te la vita mia? E vuei cu te muesci
chiù fiaccu te na tigre?
Quiddhru se mise a ritere e se cacciau te pauta na
catenella longa finissima te oru e rispuse:
– Iou nu me sposu filu, però prisentani sta catenella a
figghiata, cussì, ci è veru ca iddhra soffre tantu pe
l’amore miu, cu la spiccia filu cu campa e cu se ’mpica cu
quista ann’arviru!
Lu sire sconsolatu turnau allu castellu addu ia natu e ni
riportau, signuttandu, alla figghia ddrha risposta
marducata.
La Ninetta pigghiau st’urtimu cosu, e se ausau tuttu te
paru te lu liettu e disse:
– Mo stau bona; m’ha sanata lu buenu Geniu miu; però quai
nun ci pozzu stare cchiui, e signuria, Tata, benedicime,
ca nu ni putimu bbitere pe parecchiu tiempu. Iou aggiu
fare nu viaggiu luengu.
Lu sire circau cu se la tene cu iddru, ma itendu ca nu
sirvianu a nienti le raccomandazioni soi, la benitisse,
ticendu:
– La furtuna cu te ccumpagna, Ninetta!
E la Ninetta partìu.
2.
Rriata alla capitate te lu regniu ca era te lu rre, lu
sire te lu giovane principe ca iddrha ulia, ddummandau a
certe cristiane qualche informazione sullu modu te fare te
iddhru, e sippe ca iddru facia l’amore cunna fimmina
mmaritata bellissima.
E iddhra pinsau: «Ah, ddhru nfame! Amposta dice ca iddhru
nu mbole se sposa! E quindi me minte arretu a sta fimmina?
Ogghiu propu lla isciu».
Se istìu te pureddhra, comu na mindicante, e sciu cu tozza
alla porta te la rivale soa.
– Su na povera vagnona bbandunata te tutti – tisse iddhra
cu la uce ca ni trimulava – e bu preu cu me pigghiati pe
serva.
La signura, ca ricamava cu oru e argentu na bellissima
sciarsa te guerrieru, tisse:
– Uh, povera vagnona, nu aggiu bisuegnu te serve.
– Ah, bona signura, pigghiame pe’ carità; sienti, iou nun
bogghiu bessa pavata, me basta nu liettu e nu stuezzu te
pane e, state sicura ca rimani cuntenta te mie. Pigghiame,
bona cristiana.
L’onestà e la bella facce te la Ninetta la figgera
chiangere e finalmente tisse:
– Evvabbene, trasi a casa mia.
Dopu parecchi giurni, tantu la signura ca lu maritu eranu
ddaveru cuntenti te le cose bbone te ddhra serva, e
ringraziavanu la furtuna ca ni l’ia mandata.
Lu maritu specialmente, ammirava li belli modi, la bona
favella, tantu ca nu giurnu, dopu ca ia mangiatu e sia
bbinchiatu e ia puru biutu, la chiamau pe nume e ni tisse:
– Uei Ninetta, tie parli cussì buenu; cuntame quarche
fattu me..
E iddhra:
– Ah, patrunu, fra quarche ggiurnu bu lu cuntu.
Ntantu la giovane reggina nu durmia, e a furia cu spia,
idde ca ogne notte la patruna soa bbandunava lu liettu te
lu maritu, e pigghiava nu mazzu te chiai te ntra n’armadiu
e cu quiste apria quattru porte te l’appartamentu, e
rriata a na stanza allu scuru, truava lu principe e
passava cu iddhru parecchie ure…
Nci fose allora nu ggiurnu ca lu patrunu ia biutu
chiummutu, e iddhra tisse:
– Beh nun buliti sintiti nu cuntu?
– Sì, sì, brava Ninetta, cunta, cunta…
– Ah patrunu miu, iou ulia, ma nun bogghiu ca cuntandu tau
fastitiu alla signura, muggherita.
E iddhra:
– Cunta, cunta.
– Evvabbene, sintiti. Ncè nu figghiu te rre, beddrhu e
tristu, ca face soffrire a morte na giovane principessa,
la patruna te lu cchiù rande regnu te lu mundu, cu dae lu
core sou a na fimmina fiacca ca ncurniscia lu maritu. Sta
fimmina ogne notte se ausa te lu liettu, apre n’armadiu
addu pigghia certe chiai, traversa una, doi, trete e
quattru stanze, se poggia su nu liettu moddre te piume te
cignu, e se mbriaca cu lu giovane principe, se mbrazza e
se bbacia…
La signura, a ddhre parole, se figge bianca comu la cauce.
Lu maritu tisse:
– E ci ete sta fimmina?
– Signuria la tieni te coste.
– Ma ce sta dici? Muggherima?
– Sissignore.
– E intra ddhr’armadiu stannu le chiai?
– Sissignore.
– E ci quista ete na buscia, nu te mmieriti la pena te
morte?
– Sissignore.
Lu maritu traditu se cucchiau all’armadiu, cacciau le
chiai, apriu e traversau le quattru stanze, spittau n’ura,
doi e bidde cumparire lu giovane principe…
Lu giurnu dopu certi pescatori, piscara ntra mare lu
cadavere te la fimmina infedele.
La Ninetta s’ia vendicata.
3.
Passara
parecchi misi, uettu o tece sirai.
Lu giovane principe intantu ia catutu intra na brutta
malincunia, dopu ca ia persa la fimmina ca ulia. Sirsa ia
puru pruatu intra tutti li modi cu lu face spafare te
ddhri pinzieri fiacchi, ma nu ia sirvutu a nienti. Fose
tandu ca quarchetunu lu cosigliau cu accetta ma manu te la
figghia te lu rre te Fierarmata, ca ne l’ia offerta, ma
iddhru rispuse:
– Intra lu core miu nce sulu na figura te fimmina, e
quiddhra ha morta: nuddrha aura la pote cangiare!
Sirsa lu rre allora pinsau cu face intra lu castellu sou
feste te ballu bellissime, addu ianu scire tutte le cchiu
beddhre vagnone te lu regnu, sprirandu ca lu poveru
figghiu sou se ne putia nnammurare te quarchetuna te
quiste.
Era na sira te gennaiu la prima fiata ca lu castellu se
apriu a migghiare te nvitati. Lu giovane principe idde
passare sutta lu brillare te mille lumi le cchiu beddhre
vagnone; ma pe nisciuna ibbe mancu nu liggeru sorrisu.
Sta sunava menzanotte quandu, tuttu te paru, intra lu
salone se intise nu ruscere te gente ca sta ammirava
quarche cosa. Tutti girara l’uecchi versu la porta e
biddera cumparire la chiu beddhra vagnona ca mancu le mane
te na masciara l’ianu pututa criare. Caminava cu na
compostezza maestosa, minandu quai e ddhrai sprazzi te
luce ca issianu te li diamanti te lu vestitu sou, ca ne
era tempestatu, tuttu te velu e merletti. An facce tinìa
tutte le grazie te na matonna, e intra l’uecchi la luce te
na stiddhra.
A st’apparizione, rimase sbalorditu lu giovane principe,
ca, finu a tandu ia rimastu ssittatu e maru ntra
n’angulieddhru; se ausau e nvitau cu balla la beddhra
furistera. Iddhra ni tisse sine e la iddera ulare
mbrazzata a iddhru, invece te mpuggiare li pieti an terra.
E allora lu principe la ddummandau:
– Ci sinti?
– Ah principe, nu te pozzu tire.
– Ammenu timme a quale paise ha nata.
– Puru quistu è nu segretu.
– Si mutu beddhra!
– Grazie, principe.
Spicciata la festa alla mmane, lu principe mandau do
cristiani cu cercanu la bellissima vagnona, ca ulia se la
sposa, pe quantu s’ia nnamuratu te iddhra; ma auecchiu
quiddhri tuzzara a tutte le case te lu paise, ca nisciunu
ia mai ista o ospitata na furistera.
Dopu parecchie sire, nci fose n’aura festa alla corte, nu
ia ncora sunata menzanotte quandu nrtorna cumparìu la
beddhra vagnona.
Sta fiata era istuta azzurra, e sullu vestitu nceranu
tante perle ca parianu lu patrimoniu te nu rre.
Mpena la idde se cucchiau subbitu cu la nvita cu balla
intra nn’attimu lu principe.
E ni tisse:
– Aggiu pinsatu sempre a tie e te ogghiu. Te offru nu
regnu e na corona: ue te spuesi cu mie?
– Ah principe, iou nu me sposu filu…
– Ci nu me vuei, aggiu passare la vita mia cu chiangu pe
l’amore tou…
Allora iddhra se cacciau te piettu nu bellu fazzulettu
ricamatu, ni lu tese e disse:
– Ci chiangi pe mie, ssucate le lacrime cu stu fazzulettu.
E sparìu.
Lu giovane principe se cripava te malincunia.
Li tottori chiamati nturnu nturnu a iddhru nu truavanu na
soluzione pe ddhra malatìa.
E dopu tre giurni nci fose n’aura festa alla corte. Sta
fiata la beddhra furistera cumparìu istuta tutta te piume
te cignu, ca paria ca sta bulava intra na nuvula moddhre.
Itendu lu principe sconsolatu, iddhra se mise a ritere, se
cucchiau e ni tisse cittu cittu:
– Sta soffri, principe?
– Sì, pe tie. Fra quarche giurnu ieni ammenu cu me truei
allu campusantu, addu me sta puerti cchianu cchianu, a
furia cu me tici te none!
– Me dispiace, principe, ma iou nu pozzu fare nienti: su
destinata cu nu me sposu e la sai: ma na, zzicca..
E ticendu cussì ni tese na buccetta te cristallu:
– Quai stae chiusu nu bellu profumu; se quarche fiata te
sienti mancare pe’ amore miu, ndoralu, principe…
E sparìu.
Lu principe sta murìa. Allu castellu sta priparavanu già
cu ne lu portanu. Allora iddhru dummandau a sirsa, prima
cu mmore cu ni fannu bitere ammenu n’aura fiata la
misteriosa furistera.
– Faciti na festa – tisse – e sulu cussì la pozzu truare.
E la festa se figge. Lu principe cu l’uecchi mmirsati e lu
nfannu fose purtatu ntra lu salone. Quandu alla
menzanotte, cumparìu la beddhra vagnona, iddhru se ntise
turnare a campare. Sta fiata era mucciata te na fitta
rezza te smeraldi e te diamanti.
Iddhru se cucchiau:
–
Uei daveru me faci murire disperatu comu nu cane? Uei
daveru cu te mmuesci chiù fiacca te na tigre?
– Ah
principe – rispuse iddhra – ncete una ca te ole e tie la
disprezzi… iou mo nu te pozzu fare auru ca cu te tau sta
catinella te oru, cussì la spicci mprima, e bba te
mpichi a n’arviru pe amore miu…
E cussi
ticendu, ni tese na bella catina te oru.
Poi
sparìu.
4.
Lu
giurnu dopu tutta la curte stia a movimentu, perché lu
principe, truata ntorna tuttu te paru na strana forza,
cu la scorta te centu cavalieri, ia partire pe lu giru
te lu mundu an cerca te la bella furistera.
Nu
minutu prima cu parte, se pprisintau alla reggia na
mindicante, cu la facce tinta te craune e le robbe
strazzate, ca dummandau cu parla cu lu rre. Li servi
ulìa ni la mandanu, ma intra dru momentu cumparse daveru
lu rre.
–
Maestà – ritau iddhra – sulu iou sacciu comu aggiu
sanare lu figghiu tou.
– E
comu? – tisse lu rre.
Allora
iddhra, ni prisintau na fucazza te pane e rispuse:
– Cu se
mangia stu pane, e bbiti comu sana.
Lu rre
se mise a ritere ca nun ci critìa; però pe curiosità te
sta storia noa, se la pigghiau, e rientratu a casa, la
tese allu figghiu.
Quistu
partìu cu la scorta.
A
menzatia, ammienzu a na fitta foresta, scisera tutti te
li cavaddhri cu se difriscanu e cu se mangianu na
cosiceddhra pe colazione. Lu principe allora pigghiau la
fucazza, e quandu la spaccau a ddoi, ni catìu alli pieti
nu nieddhru ruessu te oru. Lu ccose, e liggìu intra lu
circhiu ste parole: «Ciunca ha disprezzata mo la
desideri; sta bai largu e la sta llassi rretu. Torna an
brazze a iddhra, la Ninetta te sta spetta!». Sbalorditu
te sta cosa, cumandau alla scorta cu tornanu allu
castellu. Addhrai, qquandu rriau, sulla porta truau la
mindicante ca n’ia purtata la fucazza. La cumandau
allora cu trase ntra la stanza soa, e quandu rriara, ni
tisse:
–
Spiegame lu misteru te stu nieddhru.
E
iddhra:
– Ah
principe, mparate cu rispetti megghiu ciunca, nata comu
a tie, te tae lu core!
Allora,
ritendu, tuttu te paru se cangiau ntra na beddhra
carusa, e lu giovane canusciu ca era la beddhra
furuistera soa, la misteriosa visione te le feste allu
castellu, la figghia te lu rre Fierarmata la Ninetta.
Lu
giurnu dopu lu sposaliziu sfarzosissimu inne proclamatu
te centu banditori, pe li do potenti regni.
E vissero
felici e contenti,
iou me ne scivi
e nu ne sippi chiù nienti.
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