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POETI LATINI FRA IL SEC. I  A.C. E IL SEC. I D.C.

CORNIFICIA

CATULLO
 
ORAZIO

OVIDIO


 A CURA DI ADALINDA  GASPARINI & CLAUDIA CHELLINI
CORNIFICIA
85 A.C. 40 A.C.

ORAZIO
VENOSA 65 A.C
. - ROMA 8 A.C. 

CATULLO
VERONA 84 A.C. - ROMA 54 A.C

 
OVIDIO
SULMONA 43 A.C.- TOMI (MAR NERO) 17 D.C.

 

CORNIFICIA
GIOVANNI BOCCACCIO
DE MULIERIBUS CLARIS
Che Cornificia fosse donna romana o piuttosto straniera non mi ricordo haver ritruovato, nondimeno secondo il testimonio de gli antichi, fu molto degna di memoria. Imperocché, essendo Imperatore Ottaviano Cesare, risplese di tantadottrina Poetica, che fu giudicata nodrita non di latte italiano, ma di bevanda Castalia, et a Cornificio suo fratello carnale in quel medesimo tempo poeta eccellente, parimente accrebbe molto gloria. Né contenta di haver avuto in parole così gran potere, giudico guidata dalle sacre Muse, spessissime fiate gettata la rocca, pigliò con le dotte mani la penna, et scrisse versi d'Elicona. Ma compose molti notabili epigrammi, i quali al tempo di Girolamo prete, et huomo santissimo, com'egli testimonia era il prezzo, ma quello, che ne sia venuto dappoi non ne ho molta certezza.
[...]
Poche costei, non sprezzate le forze di natura con l'ingegno, e con le fatiche avanzare il sesso femminile, e con lecita fatica acquistarsi nome eterno, non facendo quello, a che communemente tutti sono atti ma oprando cose, che a gli
huomini illustri sono rare et eccellenti. (pag. 100)



CORNIFICIA, RIFERIMENTI E NOTE

Giovanni Boccaccio
dal De mulieribus claris

Nella traduzione di Giuseppe Betussi, 1547
https://books.google.it/books?hl=it&id=Ek5cAAAAcAAJ&q=cornificia#v=onepage&q&f=false; ultimo accesso 29 marzo 2024
















GAIO VALERIO CATULLO

A me pare uguale a un dio
Carme 51
Ille mi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos,c,
qui sedens adversus identidem te
  spectat et audit
dulce ridentem, misero quod omnis
eripit sensus mihi: nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi
   <vocis in ore>
lingua sed torquet, tenuis sub artus
flamma demanat, sonitu suopte
tintinnant aures, gemina teguntur
   lumina nocte.

Otium, Catulle, tibi molestum est:
otio exsultas nimiumque gestis:
otium et reges prius et beatas
   perdidit urbes.
A me pare uguale a un dio,
e anche, se oso, più degli dei,
lui che si siede di fronte a te
  e guarda e ascolta te
che ridi dolcemente, e allora, povero me,
quasi perdo tutti i sensi: perché ogni volta
che ti guardo Lesbia, non ho più
  <voce nella gola>
mi s'impasta la lingua, sottile una fiamma
corre sotto le mie membra, di un suono
tutto loro vibrano le orecchie, e gli occhi
   mi si coprono di notte.

L'ozio, Catullo, ti fa male:
nell'ozio ti esalti e ti agiti troppo
l'ozio ha già distrutto sovrani
e città felici.

Viviamo, Lesbia mia, e amiamo
Carme 5
Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis.
Soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum,
Dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.
Viviamo, Lesbia mia, e amiamo
e le chiacchiere dei vecchi troppo severi
consideriamole meno di un centesimo.
I soli possono morire e tornare:
noi, una  volta che si sarà spenta la breve luce
abbiamo una notte eterna da dormire.
Dammi mille baci, e poi cento
poi altri mille. poi di nuovo cento,
poi ancora altri mille, poi cento.
Poi, quando ne avremo molte migliaia
li confonderemo, per non sapere,
e perché un cattivo non possa farci il malocchio
sapendo che ci sono tanti baci.

Odi et amo
Elegia 85
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio, et excrucior.

Odio e amo. Mi chiedi, forse, come possa farlo.
Non lo so, ma lo sento accadere, e mi crocifigge.


CATULLO, RIFERIMENTI E NOTE


A me pare uguale a un dio
https://laprofonline.files.wordpress.com/2017/05/analisi-carme-51.pdf
Strofe saffica minore

vedi, nella pagina, Saffo, A me pare uguale agli dei...


Viviamo, Lesbia mia, e amiamo
http://www.poesialatina.it/_ns/Greek/tt2/Catullo/Cat005.html
Endecasillabo falecio


Odio e amo
http://www.poesialatina.it/_ns/Greek/tt2/Catullo/Cat085.html
Distico elegiaco













ORAZIO
Vides ut alta stet nive candidum
Carme I, 9
Vides ut alta stet nive candidum
Soracte nec iam sustineant onus
silvae laborantes geluque
flumina constiterint acuto.
Dissolve frigus ligna super foco
large reponens atque benignius
deprome quadrimum Sabina
o Thaliarche, merum diota.
Permitte divis cetera, qui simul
stravere ventos aequore fervido
deproeliantes, nec cupressi
nec veteres agitantur orni.
Quid sit futurum cras, fuge quaerere et,
quem Fors dierum cumque dabit, lucro
adpone nec dulces amores
sperne, puer, neque tu choreas,
donec virenti canities abest
morosa. Nunc et campus et areae
lenesque sub noctem susurri
composita repetantur hora,
nunc et latentis proditor intimo
gratus puellae risus ab angulo
pignusque dereptum lacertis
aut digito male pertinaci.
Vedi come si erge candido di neve
il Soratte, vedi come le selve
si piegano sotto il peso, e per il gelo
rigido i fiumi siano fermi.
Dissolvi il freddo mettendo legna
sul fuoco in abbondanza, e generoso
attingi dall'anfora sabina
vino di quattro anni, o Taliarco.
Lascia il resto agli dei: appena
placano i venti che si combattono
sul mare infuriato, non si scuotono più
i cipressi né gli orni antichi.
Quale sia il futuro domani, evita di chiederlo
e quanti siano i giorni che la Sorte darà,
scrivili dalla parte dei guadagni,
giovane, e non disprezzare i dolci amori,
né le danze, ora che l'uggiosa canizie
sta lontana dalla folta chioma. Ora
il campo e le piazze e i lievi bisbigli
tornino nella notte all'ora serena,
torni la cara risata traditrice
della fanciulla nascosta nell'angolo,
e torni il pegno, rubato dal braccio,
o dal dito che un poco resiste.


Carpe diem
Carme I, 11

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati!
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum, sapias: vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.



Non chiedere, o Leuconoe - male sapere! - che fine
abbiano destinato a me, a te, gli dei; e non consultare
i numeri babilonesi. Quant’è meglio vivere quel che viene!
Sia che Giove ci conceda molti inverni, o solo questo
che debilita il Tirreno sbattendo le onde contro gli scogli,
impara: versa il vino e taglia la speranza lunga
a misura del tempo breve. Mentre parliamo il tempo vola
invidioso: carpe diem, credi nel futuro meno che puoi. 
Non omnis moriar
Carme III, 30
Exegi monumentum aere perennius
regalique situ pyramidum altius,
quod non imber edax, non Aquilo impotens
possit diruere aut innumerabilis
annorum series et fuga temporum.
Non omnis moriar multaque pars mei
vitabit Libitinam: usque ego postera
crescam laude recens, dum Capitolium
scandet cum tacita virgine Pontifex.
Dicar qua violens obstrepit Aufidus
et qua pauper aquae Daunus agrestium
regnavit populorum, ex humili potens,
princeps Aeolium carmen ad Italos
deduxisse modos. Sume superbiam
quaesitam meritis et mihi Delphica
lauro cinge volens, Melpomene, comam.
Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo
e più alto del sito regale delle piramidi,
che non possa distruggerlo la pioggia vorace,
né l'Aquilone sfrenato né l'innumerabile
serie degli anni e i tempi fuggitivi.
Non tutto morirò e buona parte di me
eviterà Libitina: continuamente io crescerò
mantenuto in vita dalla lode dei posteri, finché un Pontefice
salirà al Campidoglio con la vergine silenziosa.
Si dirà che io, dove vorticoso rumoreggia l'Ofanto
e dove Dauno povero d'acqua ha regnato
su popoli agresti, da umile potente,
io, per primo, ho portato la poesia greca
nei modi italici. Goditi l'eccellenza
ottenuta per merito tuo, Melpomene, e lieta
cingimi il capo con l'alloro Delfico.



ORAZIO RIFERIMENTI E NOTE

Carme I, 9

http://www.poesialatina.it/_ns/Greek/tt2/Orazio/Carm1_09.html. Consultato il 22 marzo 2024.
Strofe alcaica.
Traduzione nostra.

Carme I, 11
http://www.poesialatina.it/_ns/Greek/tt2/Orazio/Carm1_11.html. Consultato il 22 marzo 2024.
Asclepiadei maggiori oraziani.
Traduzione nostra.

Carme III, 30
http://www.poesialatina.it/_ns/Testi/Horat/Carm3.htm. Consultato il 22 marzo 2024.
Sistema asclepiadeo primo.
Traduzione nostra














PUBLIO OVIDIO NASONE
HEROIDES
EROIDI
                                                                                                  IV
Phaedra Hippolyto
Fedra a Ippolito
Venit amor gravius, quo serius. urimur intus;
urimur et caecum pectora vulnus habent.
Scilicet ut teneros laedunt iuga prima iuvencos
frenaque vix patitur de grege captus equus,
sic male vixque subit primos rude pectus amores
sarcinaque haec animo non sedet apta meo.
Ars fit, ubi a teneris crimen condiscitur annis;
quae venit exacto tempore, peius amat.
Quanto più è tardivo tanto più l'amore giunge violento. Brucio nel profondo, brucio e il mio cuore ha una ferita nascosta. Come il primo giogo ferisce i teneri giovenchi e il cavallo catturato dal branco mal sopporta il morso, così il mio animo inesperto con difficoltà e con pena si lascia soggiogare dal primo amore e questo è un peso molesto per il mio cuore. L'amore diviene arte, quando la colpa è appresa in tenera età; ma la donna che giunge ad amare quando ormai il tempo è passato, ama con maggiore sofferenza.
Per Venerem, parcas, oro, quae plurima mecumst.
Sic numquam, quae te spernere possit, ames;
sic tibi secretis agilis dea saltibus adsit
silvaque perdendas praebeat alta feras;
sic faveant Satyri montanaque numina Panes
et cadat adversa cuspide fossus aper;
sic tibi dent nymphae, quamuis odisse puellas
diceris, arentem quae levet unda sitim.
Addimus his precibus lacrimas quoque. verba precantis
perlegis, at lacrimas finge videre meas.
Ti prego per Venere, che tutta mi pervade, risparmiami; che mai tu debba amare una donna che ti respinga; che l'agile dea ti sia accanto nei recessi selvosi ed il bosco profondo ti offra animali da uccidere; che ti siano propizi i Satiri, le paniche divinità montane e il cinghiale cada trafitto dalla lancia che gli hai rivolto contro; che le ninfe, sebbene si dica che tu odi le fanciulle, ti offrano acqua che dia ristoro alla tua sete ardente!
A queste preghiere aggiungo anche le lacrime; leggi le parole
di colei che ti prega, ma le mie lacrime, immagina di vederle.
                                                                                                  V
OENONE PARIDI
ENONE A PARIDE
Ipse, ratus dignam, medicas mihi tradidit artes
admisitque meas ad sua dona manus.
Quaecumque herba potens ad opem radixque medendo
utilis in toto nascitur orbe, meast.
Me miseram, quod amor non est medicabilis herbis.
Deficior prudens artis ab arte mea.
Ipse repertor opis vaccas pavisse Pheraeas
fertur, et e nostro saucius igne fuit.
Quod nec graminibus tellus fecunda creandis
nec deus, auxilium tu mihi ferre potes.
Et potes, et merui. dignae miserere puellae.
Non ego cum Danais arma cruenta fero;
sed tua sum tecumque fui puerilibus annis,
et tua, quod superest temporis, esse praecor.
Proprio lui, ritenendomi degna, mi ha insegnato le arti mediche
e mi ha concesso di mettere le mie mani sui suoi doni.
Ogni erba e ogni radice dotata di virtù utili all'opera medica
in qualunque regione della terra cresca, è mia.
Povera me! l'amore non si può medicare con le erbe.
Maestra nell'arte, l'arte stessa mi tradisce.
Si racconta che lo stesso scopritore pascolando le vacche
di Fere, e fu ferito dal mio stesso fuoco.
Quell'aiuto che né la terra feconda nel generare erbe,
né un altro dio, tu me lo puoi dare.
Tu puoi, e io lo merito, povera innocente fanciulla
Non sono io che porto una guerra cruenta con i Greci;
ma sono tua, e con te abbiamo passato l'età più tenera,
e tua prego di essere per il tempo che ci resta.

                                                                                                  VI
HYPSYPILE IASONI
IPSIPILE A GIASONE
Dic age, si ventis, ut oportuit, actus iniquis
intrasses portus tuque comesque meos
obviaque exissem fetu comitante gemello,
hiscere nonne tibi terra roganda fuit?
Quo vultu natos, quo me, scelerate, videres?
Perfidiae pretio qua nece dignus eras?
Ipse quidem per me tutus sospesque fuisses,
non quia tu dignus, sed quia mitis ego;
paelicis ipsa meos implessem sanguine vultus,
quosque veneficiis abstulit illa suis.
Medeae Medea forem. quodsi quid ab alto
iustus adest votis Iuppiter ille meis,
quod gemit Hypsipyle, lecti quoque subnuba nostri
maereat et leges sentiat ipsa suas,
utque ego destituor coniunx materque duorum,
a totidem natis orba sit aque viro;
nec male parta diu teneat peiusque relinquat;
exulet et toto quaerat in orbe fugam.
Quam fratri germana fuit miseroque parenti
filia, tam natis, tam sit acerba viro;
cum mare, cum terras consumpserit, aëra temptet:
erret inops, exspes, caede cruenta sua.
Haec ego, coniugio fraudata Thoantias oro.
Vivite devoto nuptaque virque toro!
Su, dimmi, se spinto da venti sfavorevoli, come sarebbe stato giusto, avessi fatto ingresso nel mio porto, tu e la tua compagna, ed io ti fossi venuta incontro accompagnata dai gemelli - certo avresti dovuto chiedere alla terra di spalancarsi! - con quale faccia, disgraziato, avresti guardato i tuoi figli, con quale me? Di quale morte saresti stato degno, come prezzo del tuo tradimento? Ma, per quanto mi riguarda tu saresti stato salvo e al sicuro, non perché tu ne sia degno, ma perché io sono clemente; ma io in persona avrei saziato del sangue della tua concubina i miei occhi e i tuoi, che lei mi ha portato via con le sue stregonerie. Con Medea sarei stata Medea! Se, dall'alto, Giove stesso, dio di giustizia, accoglie in qualche modo le mie preghiere, anche l'usurpatrice del mio letto provi a sua volta le sofferenze per cui Ipsipile piange e sia colpita dalle sue stesse leggi. E come io, sposa e madre di due figli, sono abbandonata, anche lei, avuti i figli, sia privata del marito; e ciò che avrà partorito malamente non possa conservarlo a lungo, e ancor peggio lo perda; sia esule e cerchi rifugio per tutto il mondo! E quanto, come sorella, fu crudele con il fratello e, come figlia, con il povero padre, altrettanto lo sia con i figli e altrettanto con il marito. E dopo aver esaurito terra e mare, cerchi la via del cielo; vada errando povera e disperata, macchiata del sangue della sua strage. Queste le punizioni che io, figlia di Toante, defraudata delle mie nozze, invoco. Vivete, moglie e marito, in un talamo maledetto!
                                                                                                  IX
DEIANIRA HERCULI
DEIANIRA A ERCOLE
Quem non mille ferae, quem non Stheneleius hostis,
non potuit Iuno vincere, vincit Amor.
At bene nupta feror, quia nominer Herculis uxor
sitque socer rapidis qui tonat altus equis.
Quam male inaequales veniunt ad aratra iuvenci,
tam premitur magno coniuge nupta minor;
non honor est sed onus species laesura ferentes:
siqua voles apte nubere, nube pari.
Vir mihi semper abest, et coniuge notior hospes
monstraque terribiles persequiturque feras;
ipsa domo vidua votis operata pudicis
torqueor, infesto ne vir ab hoste cadat;
inter serpentes aprosque avidosque leones
iactor et hausuros terna per ora canes.
Me pecudum fibrae simulacraque inania somni
omniaque arcana nocte petita movent.
Aucupor infelix incertae murmura famae,
speque timor dubia spesque timore cadit.
Mater abest queriturque deo placuisse potenti,
nec pater Amphitryon nec puer Hyllus adest;
arbiter Eurystheus irae Iunonis iniquae
sentitur nobis iraque longa deae.
Haec mihi ferre parum. peregrinos addis amores
et mater de te quaelibet esse potest.
Non ego Partheniis temeratam vallibus Augen,
nec referam partus, Ormeni nympha, tuos;
non tibi crimen erunt, Teuthrantia turba, sorores,
quarum de populo nulla relicta tibist;
una, recens crimen, referetur adultera nobis,
unde ego sum Lydo facta noverca Lamo.
Maeandros, terris totiens errator in isdem,
qui lassas in se saepe retorquet aquas,
vidit in Herculeo suspensa monilia collo,
illo, cui caelum sarcina parva fuit.
L'uomo che mille belve non furono in grado di vincere, né il figlio di Stenelo, suo nemico, né Giunone, lo vince Amore. Ma si dice che io sono felicemente sposata, perché sono chiamata moglie di Ercole e mio suocero è colui che tuona dall'alto con i suoi veloci destrieri. Quanto malamente si adattano all'aratro due buoi di diversa mole, tanto resta schiacciata una moglie inferiore da un marito prestigioso. Non è un privilegio, ma un peso, la bellezza che danneggia chi la possiede; se vuoi sposarti adeguatamente, sposa un tuo pari. Mio marito sta sempre lontano, e mi è più familiare come ospite che come sposo, e si dà all'inseguimento di mostri e belve spaventose. Io, nella casa vuota, intenta in caste preghiere, mi tormento nel timore che mio marito cada per mano di un nemico pericoloso. Mi agito fra serpenti, cinghiali, leoni insaziabili e cani che azzannano senza mollare la presa con triplici fauci. Mi turbano le viscere degli animali sacrificati e gli evanescenti fantasmi dei sogni e i presagi cercati nel segreto della notte. Infelice, cerco di captare gli incerti sussurri della fama e la paura si perde nella speranza vacillante, la speranza nella paura. Tua madre è lontana e si duole di essere piaciuta a un dio potente; non c'è tuo padre, Anfitrione, né nostro figlio Illo. Sento gravare su di me Euristeo, strumento dell'ingiusto odio di Giunone e la collera inesauribile della dea. Ed è ancora poco per me sopportare tutto questo; aggiungi gli amori per femmine straniere e che una donna qualsiasi può essere resa madre da te. Non dirò di Auge, violentata nelle valli del Partenio, né della tua prole, o ninfa nipote di Ormeno; non verrai incolpato per le sorelle, discendenti di Teutrante: della loro schiera non ne hai trascurata nessuna; ricorderò una sola come amante, ultimo affronto nel tempo, per colpa della quale sono diventata matrigna di Lamo di Lidia. Il Meandro, che attraversa tante volte il medesimo territorio, e che continuamente ripiega su se stesso le sue acque stanche, ha visto collane pendere dal collo di quell'Ercole, per il quale la volta celeste fu piccolo peso.
                                                                                                             X
ARIADNE THESEO
ARIANNA A TESEO
Tempus erat, vitrea quo primum terra pruina
spargitur et tectae fronde queruntur aves.
Incertum vigilans, a somno languida, movi
Thesea prensuras semisupina manus;
nullus erat. referoque manus iterumque retempto
perque torum moveo bracchia; nullus erat.
Excussere metus somnum; conterrita surgo,
membraque sunt viduo praecipitata toro.
Protinus adductis sonuerunt pectora palmis,
utque erat e somno turbida, rapta comast.
Luna fuit; specto siquid nisi litora cernam;
quod videant oculi, nil nisi litus habent.
Nunc huc, nunc illuc, et utroque sine ordine, curro;
alta puellares tardat harena pedes.
Interea toto clamavi in litore "Theseu";
reddebant nomen concava saxa tuum,
et quotiens ego te, totiens locus ipse vocabat;
ipse locus miserae ferre volebat opem.

Era l'ora in cui la terra inizia ad essere coperta da un strato di brina, come di vetro e gli uccelli, al riparo delle fronde, emettono il loro canto lamentoso; non ancora del tutto sveglia, illanguidita dal sonno, sollevandomi appena mossi le mani per toccare Teseo: non c'era nessuno! Ritraggo le mani e riprovo una seconda volta, e muovo le braccia per tutto il letto: non c'era nessuno. La paura scacciò il sonno; in preda al terrore mi alzo ed il mio corpo si precipita fuori dal letto vuoto. Subito il mio petto risuonò, percosso dalle mani; mi strappai i capelli così com'erano, ingarbugliati dal sonno. C'era la luna; scruto se vedo qualcosa oltre alla spiaggia; ma i miei occhi non riescono a scorgere nulla oltre alla spiaggia. Corro disordinatamente ora qua e ora là, in ogni direzione. La sabbia fonda ostacola il mio passo di fanciulla. Intanto mentre gridavo per tutta la spiaggia "Teseo!", le rocce dalle loro cavità mi rimandavano indietro il tuo nome e quante volte ti chiamavo, altrettante il luogo stesso chiamava; anche il luogo voleva recare aiuto a me sventurata.
                                                                                                  XI
CANACE MACAREO
CANACE A MACAREO
His mea muneribus, genitor, conubia donas?
Hac tua dote, pater, filia dives erit!
Tolle procul de caede faces, Hymenaee, maritas
et fuge turbato tecta nefanda pede.
Ferte faces in me, quas fertis, Erinyes atrae,
et meus ex isto luceat igne rogus.
Nubite felices Parca meliore sorores,
amissae memores sed tamen este mei.
Quid puer admisit tam paucis editus horis?
Quo laesit facto vix bene natus avum?
Si potuit meruisse necem, meruisse putetur.
A! miser admisso plectitur ille meo.
Nate, dolor matris, rapidarum praeda ferarum,
ei mihi! natali dilacerate tuo,
nate, parum fausti miserabile pignus amoris,
haec tibi prima dies, haec tibi summa fuit.
Non mihi te licuit lacrimis perfundere iustis,
in tua non tonsas ferre sepulcra comas,
non super incubui, non oscula frigida carpsi.
Diripiunt avidae viscera nostra ferae.
Ipsa quoque infantis cum vulnere prosequar umbras
nec mater fuero dicta nec orba diu.
Tu tamen, o frustra miserae sperate sorori,
sparsa, precor, nati collige membra tui
et refer ad matrem socioque impone sepulcro,
urnaque nos habeat quamlibet arta duos.
Vive memor nostri lacrimasque in vulnere funde
neve reformida corpus amantis amans;
tu, rogo, dilectae nimium mandata sororis
perfer; mandatum persequar ipsa patris.

Sono questi i doni, genitore, che mi offri per le mie nozze? Di questa dote, padre, tua figlia sarà ricca? Allontana, Imeneo tradito, le fiaccole nuziali e fuggi agitando il passo da questa casa esecrabile! Fosche Erinni, volgete verso di me le fiaccole che impugnate ed il mio rogo si illumini del vostro fuoco! Siate spose felici, sorelle, abbiate un destino migliore; ma conservate, tuttavia il mio ricordo, dopo morta! Che male ha commesso un bimbo venuto al mondo da così poche ore? Appena nato, che cosa ha fatto per offendere il nonno? Se ha potuto meritare la morte, si pensi pure che l'abbia meritata; ah, infelice, è punito lui per la mia colpa! Figlio, dolore di tua madre, preda di belve rapaci, sbranato, ahimè, nel giorno della tua nascita, figlio, pegno sventurato di un amore infausto, questo per te è stato il primo giorno, questo per te l'ultimo. Non mi fu concesso di versare su di te giuste lacrime, non di deporre sulla tua tomba i miei capelli recisi; non vegliai su di te, non colsi da te freddi baci; fiere voraci dilaniano le mie viscere. Anch'io, con la mia ferita, seguirò l'ombra del mio bambino e non sarò stata detta a lungo né madre, né priva di lui. Ma tu, inutilmente sperato dall'infelice sorella, raccogli, ti prego, i resti di tuo figlio, riportali a sua madre e ponili in una sepoltura comune ed un'unica urna, per quanto stretta, ci accolga entrambi! Vivi nel mio ricordo e versa lacrime sulle mie ferite, tu che mi ami, non temere il corpo di chi ti ama. Ti supplico, porta a compimento le volontà della sorella troppo amata! Io adempirò a mia volta la volontà del padre.
                                                                                                 XV
SAPPHO PHAONI
SAFFO A FAONE
Tu mihi cura, Phaon; te somnia nostra reducunt,
somnia formoso candidiora die.
Illic te invenio, quamquam regionibus absis;
sed non longa satis gaudia somnus habet.
Saepe tuos nostra cervice onerare lacertos,
saepe tuae videor supposuisse meos.
Oscula cognosco, quae tu committere linguae
aptaque consueras accipere, apta dare.
Blandior interdum, verisque simillima verba
eloquor, et vigilant sensibus ora meis.
Ulteriora pudet narrare, sed omnia fiunt,
et iuvat, et siccae non licet esse mihi.
At cum se Titan ostendit et omnia secum,
tam cito me somnos destituisse queror.
Antra nemusque peto tamquam nemus antraque prosint;
conscia deliciis illa fuere meis.
Huc mentis inops, ut quam furialis Enyo
attigit, in collo crine iacente, feror.
Antra vident oculi scabro pendentia topho,
quae mihi Mygdonii marmoris instar erant.
Invenio silvam, quae saepe cubilia nobis
praebuit et multa texit opaca coma.
At non invenio dominum silvaeque meumque:
vile solum locus est; dos erat ille loci.
Agnovi pressas noti mihi caespitis herbas;
de nostro curvum pondere gramen erat.
Incubui, tetigique locum qua parte fuisti;
grata prius lacrimas combibit herba meas;
quin etiam rami positis lugere videntur
frondibus, et nullae dulce queruntur aves.
Sola virum non ulta pie maestissima mater
concinit Ismarium Daulias ales Ityn.
Ales Ityn, Sappho desertos cantat amores.
Hactenus ut media cetera nocte silent.


Tu sei il mio pensiero assillante, Faone, e i miei sogni ti riconducono a me, sogni più radiosi di una bella giornata. Là io ti trovo, anche se sei in un paese lontano; ma il sonno non reca gioie sufficientemente lunghe. Spesso mi sembra che la mia testa posi sulle tue braccia, spesso che le mie braccia sostengano la tua. Riconosco i baci che tu eri solito affidare alla tua lingua, baci che tu eri sempre esperto nel dare e nel ricevere. Talvolta ti accarezzo e pronuncio parole del tutto simili alla realtà e la mia bocca è desta per i miei sensi. Mi vergogno a raccontare il resto, ma accade tutto e provo piacere e non riesco a restare insensibile. Ma quando il Titano si offre alla vista e ogni cosa con lui, allora mi lamento che il sonno mi abbia abbandonata tanto presto; vado in cerca di boschi e caverne, come se il bosco e le caverne potessero aiutarmi: sono stati testimoni delle mie gioie d'amore. Sono trascinata là, fuori di senno, con i capelli sparsi sul collo, come una donna posseduta dalla furiosa Enio. I miei occhi vedono le grotte scavate nel tufo poroso, che per me erano simili a marmo Migdonio; ritrovo il bosco, che spesso ci offrì un giaciglio e ci protesse ombroso, con la sua fitta chioma, ma non trovo il signore e del bosco e mio; quel posto è ormai diventato terreno senza valore: era lui la ricchezza del luogo. Ho riconosciuto l'erba schiacciata delle zolle a me note: l'erba era afflosciata per il nostro peso; mi lasciai cadere sopra e toccai il terreno dalla parte dove stavi tu: l'erba, un tempo a me cara, si impregnò delle mie lacrime. Persino i rami, spogliati delle foglie, sembrano piangere e nessun uccello fa sentire il suo dolce lamento. Solo l'uccello di Daulide, la madre colma di tristezza che si vendicò scelleratamente del marito, canta l'ismario Iti. L'uccello canta Iti, Saffo l'amore non più ricambiato; solo questo: il resto tace, come a mezzanotte.
PSITTACUS OCCIDIT
AMORES, II, 6
È MORTO IL PAPPAGALLO
AMORI, II, 6


Psittacus, Eois imitatrix ales ab Indis,
occidit: exsequias ite frequentes, aves;
ite, piae volucres, et plangite pectora pinnis
et rigido teneras ungue notate genas;
5  horrida pro maestis lanietur pluma capillis,
pro longa resonent carmina vestra tuba.
Quod scelus Ismarii quereris, Philomela, tyranni,
expleta est annis ista querela suis;
alitis in rarae miserum devertere funus:
10  magna sed antiquam est causa doloris Itys.
Omnes, quae liquido libratis in aëre cursus,
tu tamen ante alios, turtur amice, dole.
Plena fuit vobis omni concordia vita
et stetit ad finem longa tenaxque fides.
15  Quod fuit Argolico iuvenis Phoceus Orestae,
hoc tibi, dum licuit, psittace, turtur erat.
Quid tamen ista fides, quid rari forma coloris,
qui vox mutandis ingeniosa sonis,
quid iuvat, ut datus es, nostrae placuisse puellae?
20  Infelix avium gloria nempe iaces.
Tu poteras fragiles pinnis hebetare zmaragdos
tincta gerens rubro Punica rostra croco.
Non fuit in terris vocum simulantior ales:
reddebas blaeso tam bene verba sono.
25  Raptus es invidia: non tu fera bella movebas;
garrulus et placide pacis amator eras.
Ecce, coturnices inter sua proelia vivunt,
forsitan et fiant inde frequenter anus.
Plenus eras minimo, nec prae sermonis amore
30  in multos poteras ora vacare cibos:
nux erat esca tibi causaeque papavera somni,
pellebatque sitim simplicis umor aquae.
Vivit edax vultur ducensque per aëra gyros
milvus et pluviae graculus auctor aquae;
35  vivit et armiferae cornix invisa Minervae,
illa quidem saeclis vix moritura novem.
Occidit ille loquax humanae vocis imago
psittacus, extremo munus ab orbe datum.
Optima prima fere Manibus rapiuntur avaris;
40  implentur numeris deteriora suis:
tristia Phylacidae Thersites funera vidit
iamque cinis vivis fratribus Hector erat.
Quid referam timidae pro te pia vota puellae,
vota procelloso per mare rapta Noto?
45  Septima lux venit non exhibitura sequentem,
et stabat vacuo iam tibi Parca colo;
nec tamen ignavo stupuerunt verba palato:
clamavit moriens lingua «Corinna, vale.»
Colle sub Elysio nigra nemus ilice frondet
50 udaque perpetuo gramine terra viret.
Si qua fides dubiis, volucrum locus ille piarum
dicitur, obscaenae quo prohibentur aves:
illic innocui late pascuntur olores
et vivax phoenix, unica semper avis;
55  explicat ipsa suas ales Iunonia pinnas,
oscula dat cupido blanda columba mari.
Psittacus has inter nemorali sede receptus
convertit volucres in sua verba pias.
Ossa tegit tumulus, tumulus pro corpore magnus,
60  quo lapis exiguus par sibi crimen habet:
«Colligor ex ipso dominae placuisse sepulcro.
Ora fuere mihi plus ave docta loqui.»

1     È morto il pappagallo, l’uccello imitatore che veniva dall’India:
     partecipate numerosi, uccelli, al suo funerale,
     battetevi il petto con le ali, uccelli pii,
     graffiatevi le tenere guance con le unghie dure,
5     strappatevi, anziché i capelli, le piume irte,
     e invece della lunga tromba risuonino i vostri canti.
     Per il delitto che piangi, Filomela, del re di Ismaro,
     il tuo pianto si è già consumato negli anni; stornalo
     sulla morte infelice di questo uccello prezioso:
10     grande ma troppo antica causa di pianto è Iti.
     Voi tutti, che librate il volo nell’aria limpida,
     piangete, e tu più di tutti, amica tortora.
     La vostra vita fu piena di ogni concordia,
     fedeltà lunga e tenace rimase fino alla fine.
15     Quello che Pilade fu per Oreste argivo,
     la tortora, finché poté, fu per te, pappagallo.
     Ma a che serve la fedeltà, la bellezza del colore prezioso,
     la voce abilissima nel variare i toni,
     l’essere piaciuto, appena le fosti dato, alla mia donna?
20     Ora giaci morto, gloria infelice di tutti gli uccelli!
     Con le tue piume oscuravi il colore degli smeraldi
     e avevi il becco tinto di croco. Non ci fu uccello
     in terra che sapesse meglio imitare i suoni
     che riproducevi con la tua voce blesa, alla perfezione
25     Ti ha rapito l’invidia, non facevi guerra a nessuno,
     chiacchieravi ed amavi la quiete e la pace.
     Invece le quaglie vivono sempre in mezzo alle liti,
     e sarà per questo che spesso diventano vecchie.
     Ti saziavi con poco, e per il piacere della parola
30     il tuo becco non era libero per molti cibi:
     solo una noce e il papavero che induce il sonno,
     e semplice acqua ti scacciava la sete.
     Vive l’avvoltoio vorace e il nibbio che compie volute
     nell’aria e il gracchio che chiama la pioggia –
35     vive la cornacchia invisa a Minerva armata,
     e anzi a stento muore dopo nove generazioni.
     È morto il pappagallo, eco della voce umana,
     il pappagallo, dono arrivato dai confini del mondo.
     Le cose migliori per prime cadono in preda all’avida morte,
40     le peggiori compiono fino in fondo il loro ciclo,
     Tersite vide le tristi esequie di Protesilao,
     Ettore divenne cenere quando i fratelli vivevano ancora.
     Perché dire i pii voti fatti per te dalla mia donna
     paurosa, dispersi nel mare dalle burrasche di Noto?
45     Arrivò il settimo giorno, che non avrebbe avuto un successivo,
     e già la Parca ti stava accanto con la conocchia esaurita,
     e tuttavia le parole non ti si fermarono nel palato inerte:
     morendo la lingua disse: “Addio, Corinna”!
     Sotto il colle Elisio c’è un bosco di lecci neri,
50     e la terra umida verdeggia sempre di erbe perenni.
     Se si può prestar fede all’incertezza, è quello il luogo,
     si dice, degli uccelli pii, e ne sono cacciati gli uccelli
     di malaugurio; là vivono in larghi spazi i cigni innocenti,
     e la fenice che risorge, uccello unico sempre,
55     l’uccello di Giunone apre là le sue ali,
     e la dolce colomba bacia il compagno voglioso.
     Il pappagallo, accolto in questo bosco,
     chiama gli uccelli pii a sentire le sue parole:
     un tumulo copre le ossa, grande rispetto al suo piccolo corpo,
60     e una piccola lapide ha un’epigrafe anch’essa piccola:
     “Il sepolcro stesso mostra che piacqui alla mia padrona,
     ebbi una voce esperta a parlare più che non tocca a un uccello”.



OVIDIO. RIFERIMENTI E NOTE
metrica
Distici elegiaci


Fedra a Ippolito
Venit amor gravius
Per Venerem

in: Heroides, Voci dal mondo antico, http://www.poesialatina.it/_ns/Testi/Ovidii/Her04.htm; IV,  vv. 19-27;
c.s. vv. 167-176;
tr. it.: Mitologia e... dintorni http://www.miti3000.it/mito/biblio/ovidio/eroidi/quarto.htm;


Enone a Paride
Ipse ratus dignam
c.s. V, vv. 145-158, http://www.poesialatina.it/_ns/Testi/Ovidii/Her05.htm;
tr. it. nostra.


Ipsipile a Giasone
Dic age, si ventis
c.s. VI, vv. 141-164; http://www.poesialatina.it/_ns/Testi/Ovidii/Her06.htm;
tr. it.: Mitologia e... dintorni, https://www.miti3000.it/mito/biblio/ovidio/eroidi/sesto.htm.


Deianira a Ercole
Quem non mille ferae
c.s. IX, vv. 25-58; http://www.poesialatina.it/_ns/Testi/Ovidii/Her09.htm;
tr. it. c.s., https://www.miti3000.it/mito/biblio/ovidio/eroidi/nono.htm.


Arianna a Teseo
Tempus erat
c.s. X, vv. 7-24; http://www.poesialatina.it/_ns/Testi/Ovidii/Her10.htm;
tr. it. c.s., https://www.miti3000.it/mito/biblio/ovidio/eroidi/decimo.htm.


Canace a Macareo
His mea muneribus
c.s. XI, vv. 101-130; http://www.poesialatina.it/_ns/Testi/Ovidii/Her11.htm;
tr. it. c.s., https://www.miti3000.it/mito/biblio/ovidio/eroidi/undicesimo.htm;
Vedi, in questo sito, l'intera lettera di Canace, figlia di Eolo, al fratello Macareo:
http://www.alaaddin.it/_TESORO_FIABE/AF/AF_EE_i_Eroidi_Canace.html,

Saffo a Faone
Tu mihi cura
c.s. XV, http://www.poesialatina.it/_ns/Testi/Ovidii/Her15.htm; vv. 123-156;
tr. it: c.s. http://www.miti3000.it/mito/biblio/ovidio/eroidi/quindicesimo.htm.


Amores II, 6
Psittacus occidit

distici elegiaci
testo: http://www.poesialatina.it/_ns/Testi/Ovidii/Am2.htm;
tr. it. https://online.scuola.zanichelli.it/perutelliletteratura/files/2010/04/testi-it_ovidio_t6.pdf;































ultimo accesso a tutti i siti citati in questa pagina: 30 marzo 2024

a cura di Adalinda Gasparini e Claudia Chellini
Online dal 17 febbraio 2024

Ultima revisione 30 marzo 2024