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PROLOGO CON BOCCACCIO
NOVELLE O FAVOLE O PARABOLE O STORIE CHE DIR LE
VOGLIAMO
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Come in tante fiabe il signore
della novella non vuole sposarsi, sicuro che
sia comunque un cattivo affare. Ma quando i
suoi sudditi gli chiedono di lasciare dietro
di sé un erede che governi degnamente il
marchesato di Saluzzo, il nobile Gualtieri
sceglie la povera bella pastora Griselda.
E domandolla se ella
sempre, togliendola egli per moglie,
s’ingegnerebbe di compiacergli e di
niuna cosa che egli dicesse o facesse
non turbarsi, e se ella sarebbe
obediente e simili altre cose assai,
delle quali ella a tutte rispose del sí. (Leggi
Griselda online)
Dopo
novantanove novelle, o favole, o parabole,
o storie, che dir le vogliamo Boccaccio
ne racconta una alla quale gli studiosi
dedicano interi convegni. L'abbiamo scelta per
il nostro prologo perché l'obbedienza di
Griselda, che non protesta né si mostra
malinconica quando il marchese prima le porta
via i figli lasciandole credere che li
ucciderà, poi la ripudia, imponendole di
tornare nella sua povera casa con la dote che
gli ha portato, è incredibile come
l'apparizione di un uccello parlante. Così
Griselda risponde al marchese che alla fine la
rimanda a casa sua, nuda come ne è uscita:
Comandatemi che io
quella dota me ne porti che io ci recai,
alla qual cosa fare né a voi pagatore né
a me borsa bisognerá né somiere, per ciò
che di mente uscito non m’è che ignuda
m’aveste: e se voi giudicate onesto che
quel corpo nel quale io ho portati
figliuoli da voi generati, sia da tutti
veduto, io me n’andrò ignuda: ma io vi
priego, in premio della mia virginitá
che io ci recai e non ne la porto, che
almeno una sola camiscia sopra la dota
mia vi piaccia che io portarne possa. —
Gualtieri, che maggior voglia di
piagnere aveva che d’altro, stando pur
col viso duro, disse: — E tu una
camiscia ne porta. —
Dopo
che Griselda è tornata dal suo povero padre,
Gualtieri la manda a chiamare perché preparari
la festa per le nuove nozze. Gualtieri indica
la giovane sposa e chiede a Griselda che
gliene sembri:
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Signor mio, a me ne par
molto bene; e se cosí è savia come ella è
bella, che il credo, io non dubito punto
che voi non dobbiate con lei vivere il piú
consolato signor del mondo: ma quanto
posso vi priego che quelle punture, le
quali all’altra che vostra fu giá, déste,
non diate a questa, ché appena che io
creda che ella le potesse sostenere, sí
perché piú giovane è, e sí ancora perché
in dilicatezze è allevata, ove colei in
continue fatiche da piccolina era stata.
Finalmente
il marchese cessa la prova, e rivelando che la
nuova sposa è in realtà la loro figlia, e il
loro figlio è con lei, fa sedere Griselda al
posto che le spetta nell'esultanza di tutti.
Tante volte particolari di questa novella o
favola o parabola o storia che dir si voglia sono
stati dipinti, per arredare le camere nuziali,
perché le spose traessero ispirazione da
Griselda per il loro contegno col marito. Ma il
finale, felice quanto il finale delle fiabe,
comprende un'osservazione non proprio adatta a
istruire le giovani spose:
Gualtieri, tolto
Giannucolo dal suo lavorio, come suocero
il pose in istato che egli onoratamente e
con gran consolazione visse e finì la sua
vecchiezza. Ed egli appresso, maritata
altamente la sua figliuola, con Griselda,
onorandola sempre quanto piú si potea,
lungamente e consolato visse. Che si potrá
dir qui, se non che anche nelle povere
case piovono dal cielo de’ divini spiriti,
come nelle reali di quegli che sarien piú
degni di guardar porci che d’avere sopra
uomini signoria? Chi avrebbe altri che
Griselda potuto col viso non solamente
asciutto ma lieto sofferir le rigide e mai
piú non udite pruove da Gualtier fatte? Al
quale non sarebbe forse stato male
investito d’essersi abbattuto ad una che,
quando fuor di casa l’avesse in camiscia
cacciata, s’avesse sì ad uno altro fatto
scuotere il pilliccione, che riuscito ne
fosse una bella roba.
La
diffusione della novella in Europa, avvenuta
in gran parte grazie alla traduzione latina
del Petrarca, amico intimo di Boccaccio,
potrebbe essere stata determinante per la
genesi o almeno la diffusione di una fiaba, L'Augel
Belverde, che si trova già nella raccolta
cinquecentesca di Straparola, e che si
diffonde in tutta l'Europa, insieme alla fiaba
della contadina saggia, astuta e sagace, che
in qualche caso ha anche il nome della
protagonista boccacciana (Gherardo
Nerucci, Novella XV, Griselda).
Lasciando questo tema a una successiva
trattazione, torniamo a Griselda e diciamo che
oltre al fatto che la donna alla fine non
muore, c'è un'altra ragione per aprire con
Boccaccio il nostro Piccolo festival di
casi lirici. Nel Proemio leggiamo che il
libro è dedicato alle donne che soffrono per
amore, costrette a restare chiuse in casa
nascondendo in se stesse la potentissima
fiamma, senza potersi nemmeno distrarre come
gli uomini, che possono andare a caccia e a
pesca, cavalcare e fare i mercanti in giro per
Europa e non solo. Scrive quindi Boccaccio,
in soccorso
e rifugio di quelle che amano, per ciò
che all’altre è assai l’ago, il fuso e
l’arcolaio; io intendo di raccontare
cento novelle, o favole o parabole o
istorie che dire le vogliamo.
Novelle,
o favole o parabole o istorie: il grande
Boccaccio ci dice in poche parole che non c'è
distinzione netta fra le favole e le storie,
fra le novelle e le parabole, né, aggiungiamo
noi, fra queste e i melodrammi, che se non
fanno guarire dalle pene d'amore, aiutano a
passare il tempo e a sopportarle. Finché un
giorno le pene che sembravano fatali
impallidiscono e si dissolvono.
Marina Abramović vede le pene d'amore come una
costante nella vita femminile, che non dipende
più dall'isolamento entro le mura domestiche e
dall'autorità tirannica dei padri, dei
fratelli e dei figli maschi. Le
donne soffrono in eterno per amore e in
eterno muoiono in tanti modi. È un
tema che, a me come donna, sta molto a cuore
(Seven
Deaths of Maria Callas,
Damiani Editore, 2020). Ecco: il nostro
Piccolo Festival si interroga su questo
immenso tema, dalla novella trecentesca di
Boccaccio ai nostri giorni, usando con
delicatezza e fermezza la chiave della
psicoanalisi, che non serve a confermare la
potenza ermeneutica della nostra disciplina,
ma a suggerire nuove vie per la comprensione
delle opere d'arte.
Come se sette secoli non bastassero, andiamo
indietro di sette secoli prima di Cristo, per
rileggere Esiodo che racconta che le Muse lo
chiamarono invitandolo a seguirle lasciando la
stessa occupazione di Griselda, la cura delle
pecore: Se lo avesse fatto gli avrebbero
raccontato storie false che sembrano vere e,
quando volevano, vere storie. Al poeta il
compito di scriverle e cantarle, non di
distinguere le une dalle altre. E se le
autorità religiose o civili hanno sempre
preteso di farlo, Boccaccio nel Trecento ci
dice che non esiste una netta separazione fra
le une e le altre.
Noi come psicoanalisti ci occupiamo di un
terzo insieme di storie, oltre a quelle
considerate vere e a quelle finte che sembrano
vere, perché le storie in analisi sono storie
vere che sembrano false, che prima di Freud
nessuno aveva preso in considerazione. Le
storie liriche dei melodrammi, come le favole,
le parabole, e tutti i racconti, ci aiutano a
comprendere queste storie che i nostri
pazienti o analizzanti ci raccontano: i sogni
notturni, che nella stanza dell'analisi
trovano spazio, mentre nessun altro le
considera vere, nemmeno chi le ha sognate. Le
persone, le loro anime, soffrono in silenzio,
come le donne alle quali Boccaccio dedica il
Decameron.
Questi silenzi della sofferenza sono il luogo
del canto solitario, e l'arte del racconto e
della poesia sgorgano dall'ascolto commosso di
quel canto.
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Abbiamo s elto dicominciare con la centesima novella di
Boccaccio per quella doppia verità che ci lascia
chiudendo il Decameron. Griselda è una donna sublime,
simile a una santa, se non alla madonna, da considerare
nel Decameron, come Fiammetta nella vita di Boccaccio,
allo stesso livello della Beatrice dantesca e della
petrarchesca Laura. La sua umile origine e la sua
naturale nobiltà, la sua capacità di soffrire senza
appesantire il nobile sposo con la sua sofferenza ne
hanno fatto un modello da proporre alle giovani spose
con i cassoni dipinti per le camere nuziali.
Ma il narratore Dioneo, che ce la dona, col diritto
chiesto e ottenuto di chiudere ogni giornata dopo la
prima,. e quindi di chiudere il Decameron stesso, alter
ego del narratore scrittore, commenta che sarebbe stato
meglio se mentre tornava a casa del padre in camicia,
trovava chi le avrebbe scosso ben bene il
pelliccione e regalato un bel vestito.
L'ambivalenza non l'ha certo inventata Freud, ma ci ha
insegnato che eliminarla è un'impresa impossibile, o una
bonifica improbabile e pericolosa. A me pare che
Boccaccio ribadisca con la centesima novella la stessa
verità: Griselda è santa ma sarebbe un sollievo per lei
e per noi che ne leggiamo la storia se potesse liberarsi
dal peso della sua santità.
Lavorando quindi su Boccaccio e sul Piccolo Festival di
casi lirici in occasione del centenario della nascita di
Maria Callas, argomenti lontanti per tante ragioni,
leggo a un certo punto che l'esordio della grande Maria,
ad Atene, nel 1941, durante l'occupazione tedesca,
avvenne nell'operetta Boccaccio o il principe di
Palermo, ispirato alle novelle del Decameron.
Difficile non pensare alla coincidenza. Difficile non
pensare che la ricchezza delle donne secondo Boccaccio e
la ricchezza di Maria Callas non si chiamino, e
vedere quel che hanno in comune, nel silenzio e nella
parola, nel racconto e nel canto, è un'avventura
appassionante. Se non indica unastrada di salvezza, ci
insegna a riconoscere ed evitare vicoli ciechi.
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LA DONNA È MOBILE
BUTTERFLY
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CON ONOR MUORE CHI NON PUÒ SERBAR LA VITA CON ONORE
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Un bel
dì, vedremo
levarsi un fil di fumo
sull’estremo
confin del mare.
E poi la nave appare.
E poi la nave è bianca,
entra nel porto, romba il suo
saluto.
Vedi? È venuto!
Io non gli scendo incontro. Io no.
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Mi metto là
sul ciglio del colle e
aspetto,
aspetto
gran tempo e non mi pesa
la lunga attesa.
E… uscito dalla folla cittadina
un uomo, un picciol punto
s’avvia per la collina.
Chi sarà? Chi sarà?
E come sarà giunto
che dirà? Che dirà?
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Chiamerà
Butterfly dalla lontana.
io senza far
risposta
me ne starò nascosta
un po’ per celia, un po’ per non
morire
al primo incontro, ed egli
alquanto in pena
chiamerà, chiamerà:
«Piccina mogliettina
olezzo di verbena»
i nomi che mi dava al suo venire.
... |
Piccina mogliettina, olezzo
di verbena, cantava Pinkerton, ma
tornato in America ha dimenticato la sposa
giapponese, abbastanza da sposare
un'americana, mentre Butterfly non ha
dimenticato lui. Nell'interpretazione di
Marina Abramović, mentre il soprano canta Un
bel dì vedremo, la scena del ritorno e
della nuova partenza di Pinkerton è un
paesaggio devastato da un'esplosione
nucleare. Il collegamento fra la
devastazione della piccina mogliettina,
che credeva di essere legittimamente
sposata, tanto da lasciare la sua religione
per amore del marine, e la distruzione di
Hiroshima e Nagasaki è esplicito. Nella sua
entrata in scena al primo atto Pinkerton
intona anche l'inno dei marines, che solo
nel 1931 diventò l'Inno nazionale USA. Nella
performance Seven Deaths of Maria
Callas (Hara-kiri)
Abramović/Butterfly, coperta da una tuta
anti-radiazioni come Pinkerton e come il
bambino che ha con sé, gli mette in mano una
bandierina americana e lo manda dal padre,
che si allontana con lui dopo aver rivolto
uno sguardo alla piccina mogliettina. Lei si
toglie la tuta e cade morta per le
radiazioni. Nell'opera di Puccini Butterfly
fa hara-kiri con la lama di suo padre, torna
quindi alle sue origini rinunciando al
figlio, all'amato, alla vita stessa.
L'ultima battuta dell'opera è del tenore
Pinkerton che grida Butterfly!
Butterfly! mentre la piccina
mogliettina muore. Sopravviverà. Ma non
potrà dimenticare Madama Butterfly. Il
marine Pinkerton è molto meno amato della
sua piccola moglie giapponese, destino
comune ai tenori di queste opere rispetto ai
soprani, che il più delle volte danno il
loro nome all'opera che interpretano. Cosa
sarà questo sacrificio che è allo stesso
tempo un trionfo? Il soprano è un martire?
Di quale causa?
Quando abbraccia il bambino prima
dell'hara-kiri Butterfly lo chiama piccolo
iddio! / amore, amore mio, / fior di
giglio e di rosa. Ha perso lo sposo
amato per il quale è stata ripudiata da
tutti i suoi parenti, ha lasciato la sua
religione per
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sposare
quella del marito ed essere totalmente sua. Ma
al momento del massimo tradimento, quando il
tenente di vascello Pinkerton torna in
Giappone con la moglie americana e le fa
chiedere di lasciare che il loro bambino vada
con loro, Butterfly torna alla sua cultura:
l'hara-kiri con il tantō del padre, che si è
suicidato per mantenere l'onore. La piccina
mogliettina diversamente da Medea ha ancora un
padre al quale tornare, anche se la sola via
per ritrovarlo è la morte. Per questo Madama
Butterfly può salvare il suo germoglio, il
figlio, fior di giglio e di rosa. Sul
pugnale sta scritto: con onor muore chi
non può serbar la vita con onore.
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LA
DONNA È MOBILE
GILDA |
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VIVA IL RE
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La
donna è mobile
Qual piuma al
vento,
Muta d’accento
E di
pensiero.
Sempre un
amabile
Leggiadro
viso,
In pianto
o in riso
È
menzognero. |
È
sempre misero
Chi a lei s’affida,
Chi le confida
Mal cauto il core!
Pur mai non sentesi
Felice appieno
Chi su quel seno
Non liba amore! |
Gilda, sapendo che il padre Rigoletto
intende uccidere il suo amato Duca di
Mantova, entra letteralmente nel sacco al
suo posto. Il suo amato amante, che la
censura vietò a Verdi di mettere in scena
come re (come nella fonte del melodramma,
Le roi s'amuse di Victor Hugo,
1832) canta La donna è mobile, una
delle arie d'opera più famose nel mondo,
mentre Gilda si fa uccidere al posto suo.
Così cantando corteggia una nuova amante,
senza preoccuparsi della giovane che ha
ingannato e abbandonato. Rigoletto ha
cantato Cortigiani vil razza dannata,
categoria che era anche la sua fino a che
non hanno rapito l'amatissima figlia
Gilda, che per proteggere teneva nascosta.
La storia racconta che chi si assoggetta
al potere - Rigoletto fa il buffone di
corte - non riesce a difendere l'onore e
la purezza - rappresentati da Gilda, la
figlia segreta. La nostra ospite Silvia
Albertazzi racconterà come da bambina
sentisse lo zio cantare l'aria del duca di
Mantova e intendesse la donna è mobile
come la donna è un mobile,
probabilmente, pensava, una cassapanca.
Poi, la piuma al vento, muta
d'accento e di pensiero, per lei
significava che la donna aveva poco
spessore, come una piuma, e muta d'accento
e di pensiero, significava priva
di parola e di pensiero. Ho
conosciuto un'altra persona che intendeva
da bambina muta come aggettivo,
non come verbo. Fraindendimento ridicolo e
infantile? No, se ricordiamo un proverbio
veneto, che dice come dev'essere
comportarsi la brava donna:
che la tasa, che
la piasa, che la staga in casa.
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La
donna è mobile? È la donna
mobile? È mobile la donna?
Parafrasiamo Alice quando si addormenta
col capo in grembo alla sorella, e cade
nel Paese delle Meraviglie, dove
Lewis Carrol, nome de plume del matematico
Reverendo Dodgson, l'accompagna insieme a
noi. Cadendo senza potersi fermare, Alice
si chiede se la sua gatta Dinah potrebbe
acchiappare un pipistrello: “Do
cats eat bats? Do cats eat bats?" and
sometimes, "Do bats eat cats?"
(p. 6). I gatti mangiano i
pipistrelli? Mangiano i pipistrelli i
gatti? I pipistrelli mangiano i gatti?
Sulla negazione che vale come
affermazione Freud ha scritto un breve
saggio nel 1925, Die
Verneinung (La negazione),
qui ci limitiamo a osservare come
l'affermazione del Duca di Mantova sia
negata dalla sua azione, mentre la povera
Gilda, fermissima nel suo amore, si fa
uccidere per lui. Non meno ferma di
Butterfly rispetto al mobile Pinkerton, e
capace di morire per salvare il suo onore
o il suo amore. Freud pensa che il Superio
delle donne sia meno forte di quello
maschile, ma le donne detenute sono
un'esigua minoranza in Europa (il 4,2%
delle donne rispetto al totale della
popolazione carceraria in Italia, dato
del 2016). Non sarà che abbiamo
un'etica maggiore, e per questo il Superio
è ridotto? O siamo immorali perché non
abbiamo paura di scoprire la debolezza,
l'immoralità, l'incoerenza, degli uomini
che le attribuiscono alle donne?
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POVERE MALATE
MIMÌ
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Dopo la sua
celebre aria Che gelida manina, seguita
dall'altrettanto celebre aria del soprano Mi
chiamano Mimì, il tenore Rodolfo
raggiunge gli amici al Caffè Momus con Mimì a
braccetto. Così la presenta:
Eccoci qui
questa è Mimì,
gaia fioraia.
ll suo venir completa
la bella compagnia
perché son
io il poeta
essa la
poesia.
Affascinante
per la mano freddissima e il pallore dovuto al
mal sottile, Mimì però è sempre meno gaia, e
ormai troppo malata arriva al finale del
quarto atto, quando abbandona il suo
protettore, e si trascina a fatica per il
quartiere dei bohèmienne, dove, con l'aiuto di
Musetta, riesce a tornare nella casa dove
ritrova Rodolfo, che non ha mai spesso di
amarla:
Sono andati?
Fingevo di dormire
perché volli
con te sola restare.
Ho tante cose
che ti voglio dire,
o una sola, ma
grande come il mare,
come il mare
profonda ed infinita...
(mette le
braccia al collo di Rodolfo)
Sei il mio
amore e tutta la mia vita!
Così
muore, e Rodolfo si dispera, come Alfredo quando
Violetta spira fra le sue braccia, e se fosse
una persona e non un personaggio probabilmente
la ricorderebbe per tutta la vita, e quando
avesse una moglie pura come un angelo come la
giovane Germont, avrebbe nostalgia dell'amante
dei bei tempi di baldoria.
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E
se passasse dal melodramma alla canzonetta? La donna
amata, la poesia, se ne vanno fra colpi di tosse e vita
da bohemienne. Muore Mimì e se Rodolfo passasse dal
melodramma alla canzonetta potrebbe anche rinunciare
alla poesia, fare un degno matrimonio e magari
diventare... notaio? E in una
serata gelida, se il suo piccino ritrovasse una
pansé, ricorderebbe la poesia perduta insieme alla signorinella
pallida? Probabilmente gli
cadrebbe una lagrima... vedessi come nevica!
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POVERE MALATE
VIOLETTA
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È strano!… è strano!… in core
Scolpiti ho quegli accenti!…
Sarìa per me sventura un serio amore?
Che risolvi, o turbata anima mia?…
Null’uomo ancora t’accendeva… O gioia
Ch’io non conobbi, essere amata amando!…
E sdegnarla poss’io
Per l’aride follie del viver mio?…
Ah, fors’è lui che l’anima
Solinga ne’ tumulti
Godea sovente pingere
De’ suoi colori occulti!…
Lui che
modesto e vigile
All’egre soglie
ascese, |
E nuova febbre accese,
Destandomi all’amor!…
A quell’amor ch’è palpito
Dell’universo intero,
Misterioso, altero,
Croce e delizia al cor.
A me fanciulla, un candido
E trepido desire
Questi effigiò dolcissimo
Signor dell’avvenire,
Quando ne’
cieli il raggio
Di sua beltà vedea,
E tutta me
pascea
Di quel divino
error. |
Sentìa che amore è palpito
Dell’universo intero
Misterioso, altero,
Croce e delizia al cor.
(Resta
concentrata; scuotendosi)
Follie! follie!…
delirio vano è questo!…
Povera donna, sola
Abbandonata in questo
Popoloso deserto
Che appellano Parigi,
Che spero or più? Che far degg’io! Gioire,
Di
voluttà nei vortici perir!…
Gioir!…
|
Sempre
libera degg’io
Folleggiar di gioia in
gioia,
Vo’ che scorra il viver
mio
Pei sentieri del piacer.
Nasca
il giorno, o il giorno muoia,
Sempre lieta
ne’ ritrovi,
A diletti sempre nuovi
Dee volare il mio pensier.
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Da
bambina, quando mia madre mi raccontava la
trama della Traviata, poi da ragazzina, quando
sentivo l'opera alla televisione, sapevo che
non sarei stata pura siccome un angelo
come la sorellina di Alfredo Germont.
Ora, a settantuno anni, dopo quarant'anni di
lavoro e di formazione mai finita, da
psicoanalista, non so perché sentivo questo,
che è vero, ma so che almeno in un nucleo di
senso, che un collega junghiano potrebbe
considerare archetipico, la certezza di non
avere né il destino di Violetta né quello
della giovane angelica Germont, è nel cuore di
tante donne, non solo della mia generazione.
C'è una fiaba che si trova nel Cunto de li
cunti, la cui protagonista non cede
rispetto al proprio desiderio, che Basile
chiama Viola: traducendola in italiano l'ho
rinominata Violetta.
Un omaggio a Violetta Valery: perché almeno in
una fiaba non muoia tisica, non solo per aver
rinunciato al suo amato amante Alfredo, ma per
avergli fatto credere che non lo amava più.
Pronta a qualunque sacrifizio come
dice il padre di lui, per salvare l'onore
della famiglia Germont, martire del decadente
patriarcato fallocentrico come i martiri del
cristianesimo durante le antiche persecuzioni
romane.
La certezza di non avere il destino della traviata
Violetta né quello della giovane Germont pura
siccome un angelo implica una
ribellione senza fine al destino subito dalle
madri e assegnato alle figlie, radicato nella
donna fin dalle parti più arcaiche della mente
- anche del cervello? Ogni volta che si compra
una pianta di camelie può capitare che si
pensi alla Signora delle Camelie, Violetta
Valery.
Se questa ribelliione possa o non
possa avere un lieto fine, se sia utile a
qualcuno, per esempio ai/alle pazienti, se i
nostri figli e le figlie vogliano, sappiano e
possano resistere alla tentazione di
genuflettersi agli idoli della convenzione
senza morirne, non lo sappiamo. Ma possiamo
desiderarlo, sperarlo,
cercarlo. Ascoltando la voce di Maria
Callas, guardando Marina Abramović nella
performance dedicata alla diva e a tutte le
donne. Nelle nostre pazienti, nella nostra
stessa esperienza. |
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In concerto ad Amsterdam, 1973
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estensione vocale di Maria Callas
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1957
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Con Luchino Visconti al trucco alla
Scala, 1957
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Siccome
la signorina Germont, pura siccome un
angelo,
non potrà sposarsi a causa della relazione
del fratello con
una traviata, Germont padre chiede cantando a
Violetta di lasciare
Alfredo. Per farlo dovrà fargli credere che
non lo ama più.
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Germont padre se ne sta andando,
Violetta canta Amami Alfredo, mentre
ha già scritto la lettera che provocherà il
suo abbandono. |
Violetta nel terzo atto, povera e
mortalmente malata di
tisi canta Addio del passato bei
sogni ridenti. |
Germont padre e figlio accorrono al
capezzale di Violetta
e Alfredo le promette: Parigi o cara noi
lasceremo per andare in Provenza e
vivere uniti per sempre. Violetta duetta con
lui come se ci credesse e spira fra le sue
braccia. I due Germont, tristissimi e liberi
dai sensi di colpa e dagli impegni
imbarazzanti, tornano in Provenza dalla figlia
pura siccome un angelo. |
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RIBELLIONI FATALI
TOSCA
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Vissi
d'arte, vissi d'amore,
non feci mai male ad anima viva!
Con man furtiva
quante miserie conobbi, aiutai.
Sempre con fe' sincera,
la mia preghiera
ai santi tabernacoli salì.
Sempre con fe' sincera
diedi fiori agli altar.
Nell'ora
del dolore
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perché,
perché Signore,
perché
me ne rimuneri così?
Diedi gioielli
della Madonna al manto,
e diedi il canto
agli astri, al ciel, che ne ridean
più belli.
Nell'ora del dolore,
perché, perché Signore,
perché me ne rimuneri così?
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Nowhere did the
artist collide more poignantly
than in the role of the divina
Tosca. Confronted with the choice
of sleeping with the brutal chief
of police, Scarpia, or seeing her
lover die, she appeals to God.
Many saw this as her personal
testament.
(Antonio Pappano)
Mai l'artista coincide col
personaggio in modo più toccante che
qui, nel ruolo della divina Tosca.
Dovendo scegliere fra soddisfare la
richiesta di Scarpia, il butale capo
della polizia, e vedere la morte
dell'uomo che ama, si rivolge al
Signore. A molti è parso il suo
testamento. (Trad. nostra)
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Tosca è una cantante lirica, Lucia è una
principessa. Entrambe conoscono la passione, la loro
e quella degli uomini. Tosca prima ha un amante
pittore, come lei un artista, che si ribella
all'ordine papalino che governa Roma aderendo alla
carboneria, Lucia ha per amante il peggior nemico
del fratello e si sposano in segreto, come Giulietta
e Romeo. Uomini costretti ad agire nell'ombra, donne
che solo apparentemente si piegano all'autorità -
Tosca a quella di Scarpia, Lucia a quella del
fratello. Ma entrambe si ribellano all'ordine
uccidendo chi rende impossibile il loro amore, ed
entrambe muoiono. Tosca si getta nel vuoto dopo aver
scoperto che non è riuscita a salvare il suo amato,
Lucia muore di dolore dopo aver perso la ragione. Il
suo amato si uccide quando scopre che Lucia è morta.
Come nella tragedia degli amanti shakespeariani,
alla morte dell'amatg/a l'amante si uccide. E il
fascino di Tosca e di Lucia è tale che ogni donna
almeno per un momento desidera essere nei loro
panni, come ogni uomo desidera essere nei panni di
Cavaradossi e di Edgardo.
Scarpia
vanta il suo sadismo come il suo potere, credendo di
sottomettere la donna, ancor più desiderata se,
indipendente e forte come Tosca, gli manifesta il
suo odio e il suo disprezzo: Scarpia esulta per la
sua potenza, ingannando Tosca col farle credere che
Cavaradossi sarà fucilato a salve e potrà partire
con lei, mentre in realtà lo farà giustiziare.
Credendo di averla così in suo potere, Scarpia
l'abbraccia ma invece del possesso della donna trova
la perdita della vita, per mano di Tosca armata di
pugnale.
A questo punto è impossibile non osservare il
lamento esterrefatto di Scarpia, seguito dalle
parole di Tosca, che mostrano come emerga la natura
immaginaria dell'ordine fallocratico quando si
scontra con l'irriducibile potenza femminile.
Se da un lato il melodramma sembra celebrare la
donna come se la sua natura la portasse a scegliere
l'amore mentrre l'uomo sceglierebbe l'onore - quel
che scrive nell'Estetica Hegel -
confermando il valore della cultura patriarcale,
dall'altro lo sconferma. Con la morte del barone
Scarpia, capo della polizia papale, l'ordine
fallocentrico rivela la sua natura immaginaria, e la
donna esprime una potenza feroce proprio quando
l'uomo crede di averla ridotta in suo potere. Tosca
afferma la propria potenza quando ne colpisce a
morte il rappresentante. Mentre l'uomo crescendo
costruisce la sua forza al prezzo di ridurre la sua
fragilità, la donna vive fin da bambina sia sua
forza sia la sua debolezza. Queste le parole alla
fine del secondo atto:
SCARPIA: Muoio!
muoio!
TOSCA: E ucciso da una
donna!
[...]
E
avanti a lui tremava tutta Roma!
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-https://www.youtube.com/watch?v=TkgatM3-t4k
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RIBELLIONI FATALI
LUCIA DI LAMMERMOOR
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i miei sospiri
ardenti,
udrai
nel mar che mormora
l’eco
de’ miei lamenti...
Pensando
ch’io di gemiti
mi
pasco e di dolor,
spargi
un’amara lagrima
su
questo pegno allor!
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Edgardo: Verranno a
te sull’aure
i
miei sospiri ardenti,
udrai
nel mar che mormora
l’eco
de’ miei lamenti...
Pensando
ch’io di gemiti
mi
pasco e di dolor,
spargi
un’amara lagrima
su
questo pegno allor! |
Dopo essersi scambiati un anello nella scena
finale del primo atto Lucia ed Edgardo si
separano a causa della inimicizia fra le
loro famiglie, come Giulietta e Romeo. Come
Romeo il tenore Edgardo parte e il soprano
Lucia di Lammermoor come Giulietta resta ad
attenderlo. Mentre il destino si accanisce
contro gli sposi segreti di Shakespeare, il
baritono Enrico, fratello di Lucia,
intercetta le lettere che Edgardo le ha
scritto e le fa credere che stia per sposare
un'altra: così la convince ad accettare come
sposo un suo potente alleato. Durante il
matrimonio irrompe Edgardo e getta a terra
l'anello pegno d'amore; Lucia uccide lo
sposo indesiderato nella prima notte di
nozze ed entra in scena delirando e morendo.
Parenti irremediabilmente nemici, amanti
irrimediabilmente innamorati, che pure
esprimono un sentimento infinito come
Amleto, che non può sposare Ofelia perché è
preso dallo spettro paterno che esige
d'essere vendicato da lui. Amleto dice a
Ofelia:
Dubita che le stelle
siano fuoco,
dubita che il sole si
muova,
dubita che la Verità
sia mentitrice,
ma non dubitare mai
del mio amore.
Confusa dallo strano comportamento di
Amleto, Ofelia prende parte alla messa in
scena organizzata da suo padre e dal re
usurpatore per scoprire le intenzioni del
suo amato. Tosca dubita dell'amore di
Cavaradossi quando Scarpia ingannadola
suscita la sua gelosia. Lucia dubita
dell'amore di Edgardo
|
quando suo
fratello Enrico le fa credere che lui ami un'altra.
Ofelia muore suicida, Tosca e Lucia di Lammermoor
uccidono con un pugnale chi potrebbe possederle contro
la loro volontà. Per essere fedeli all'amato e unirsi
a lui solo, usando l'arma eliminano il rivale. Perdono
così la loro vita insieme a quella del loro amato.
Giulietta e Romeo, come tanti amanti che dalle storie
più antiche sono separati dal destino o dalle
famiglie, sono uniti solo nel sepolcro. I beduini in
età preislamica, veneravano nel deserto le tombe di
questi amanti, come i turisti ancora oggi affollano la
Casa di Giulietta a Verona.
[Lucia dopo aver ucciso lo sposo
imposto la prima notte di nozze]
Spargi d’amaro pianto
il mio terrestre velo,
mentre lassù nel cielo
io pregherò per te...
Al giunger tuo soltanto
fia bello il ciel per me!
[...]
Ah, ch’io spiri appresso a te!
[Muore]
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[Edgardo,
quando scopre che Lucia è morta]
Tu che a Dio spiegasti l’ali,
o bell’alma innamorata,
ti rivolgi a me placata,
teco ascenda il tuo fedel.
Ah! se l’ira dei mortali
fece a noi sì cruda guerra,
se divisi fummo in terra,
ne congiunga il Nume in ciel.
[Muore]
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Nei matrimoni celebrati in chiesa vengono spesso letti
alcuni versi dalla poesia d'amore che si trova
nell'Antico Testamento, il Cantico dei cantici,
intenso e sensuale come la poesia beduina fiorita
nella letteratura araba, che ha avuto un'influenza
determinante nella nascita della poesia europea.
La ribellione degli amanti contro l'ordine costituto,
familiare e sociale, è irresistibile, e se è vero che
solo la morte realizza questa liberazione, è
altrettanto vero che il fascino di questi ribelli dura
nel tempo. Cosa significa? È la vittoria di due esseri
umani che essendosi uniti nemmeno la convenzione e la
morte possono domare? O è la vittoria della
convenzione e della morte sugli amanti? Omnia
vincit amor, ha scritto Virgilio nelle
Bucoliche. O è la morte a vincere alla fine? E la
follia, non è una forma di ribellione fatale?
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Maria Callas ha cantato
Lucia al MET il 3 dicembre 1956, nella quinta
settimana della sua prima stagione nel teatro - dopo
averla aperta con Norma e averla continuata con
Tosca. “Callas ha chiamato Lucia dall'alto
trapezio delle sue acrobazie liriche e l'ha rimessa in
scena come figura potentissima ed enigmatica
dell'immaginario musicale di Donizzetti", come ha
scritto il critico Irving Kolodin. “Questo si dovrebbe
ricordare se capitasse di dimenticarlo: nella lunga
storia del MET nessuna cantante aveva mai interpretato
prima Lucia, Tosca e Norma in una sola stagione, e non
lo aveva mai fatto nemmeno in un'unica carriera.”
Riguardo alla scena della follia, ha scritto: “Callas
si è concentrata sull'interpretazione di ogni parola
con una semplicità e una potenza che hanno catturato
l'attenzione dell'intero pubblico... Tutto il teatro è
esploso nell'applauso” Operapedia
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CASTA DIVA
MEDEA
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Sei come una
pietra preziosa che viene violentemente
frantumata in mille schegge per poi essere
ricostruita di un materiale più duraturo
di quello della vita, cioè il materiale
della poesia.(Pier Paolo Pasolini)
Pasolini
è stato il solo a comprendere in Maria Callas la
ferita insanabile che la donna può subire
dall'uomo che ama, quando è oggetto della sua
distruttività dopo essere stata oggetto del suo
amore. Se è vero che Maria Callas ha
pensato a un'unione con Pasolini durante le
riprese del film Medea (1969), possiamo
immaginare che abbia creduto che la profonda
comprensione di Pasolini potesse darle
finalmente quel che aveva sempre desiderato:
essere amata e compresa come donna. Non sapeva
che la comprensione del regista era intrecciata
alla sua omosessualità.
Dalla storia d'amore fra Maria Callas e
Aristotele Onassis, iniziata nel 1959, sarebbe
nato un bambino, Omero, nato morto o morto poco
dopo la nascita. L'armatore greco lasciò Callas
nel 1968 per sposare la vedova del presidente J.
F. Kennedy.
Così Marina Abramović, sulla performance, già
citata, Sevent Deaths of Maria Callas: "In
molte scene, la figura dell’opera non muore da
sola, ma viene uccisa da un uomo. Per Maria
Callas, l’uomo che la uccide sul palcoscenico
dell’opera è sempre stato Aristoteles
Onassis". Per Onassis Maria Callas
potrebbe aver perduto il velo che proteggeva la
sua femminilità più segreta, quella che il mito
personifica con la vergine lunare Artemide,
rinunciando però a scatenare la sua vendetta,
come Artemide e come Medea, contro l'amato e la
rivale. Nel filmato del 1959 nel quale Callas
canta la preghiera alla dea lunare è possibile
vedere la donna che diversamente da Medea, come
Norma nell'opera di Bellini, sceglierà di non
uccidere i figli, ovvero di annullare con la sua
potenza indomabile l'ordine patriarcale al quale
si era assoggettata. La donna che permette
all'uomo di vedere la sua nudità si scopre a
lui, gli dedica tutto ciò che ha, subordinando
la sua maternità al desiderio di lui, accettando
che sia lui a legittimare i loro figli.
Tornando alla nostra primastoria, quando
Griselda chiede a Gualtieri una camicia in
compenso della verginità che ha perduto, camicia
che nei dipinti quattrocenteschi è appena
un velo sulla sua nudità, gli chiede di
riconoscere che c'è qualcosa che l'uomo non può
possedere. E Gualtieri non potrebbe aspirare a
un lieto fine se non le rispondesse E tu una
camiscia ne porta. Non basterebbero
queste parole, se pronunciandole non
distogliesse il viso per nascondere la sua
commozione
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Maria Callas è morta di
crepacuore, se vogliamo usare questa espressione
poco scientifica. Ma anche non ammettendo che la
malattia mortale di Maria Callas sia
indipendente dalla sua storia, non ci si sottrae
alla convinzione che quando il suo cuore abbia
smesso di battere è stato il finale della sua
vita tragica, simile a quella di tante eroine
liriche. La morte di Maria Callas, come quella
di tante eroine liriche, come la morte delle
protagoniste della tragedia greca, ci chiama
verso la sua figura come verso noi stesse. La
ascoltiamo, accogliamo l'offerta della sua
potenza, della sua bellezza, della sua pena,
della sua sconfitta, preziosa per ogni donna che
si sia sentita come lei sottomessa e indomabile,
enigmatica come la sfinge eppure chiara. Una
domanda senza risposta, se non parziale, elusiva
della complessità della domanda stessa: cos'è
l'essere umano? Quando Edipo, l'eroe tragico per
eccellenza, risponde, la sfinge si getta nel
vuoto, mentre il solutore di enigmi non sa che
sta correndo verso il proprio enigma: chi è
Edipo?
Maria Callas unisce nella sua figura la Grecia,
patria dei suoi genitori, dove ha esordito
nell'opera lirica, e dell'uomo che ha amato più
di ogni altro, gli Stati Uniti - il futuro
del passato, come li ha definiti Fernando
Pessoa - dove è nata e cresciuta, e l'Italia,
dove ha vissuto a lungo conoscendo tanto
successo. Maria Callas è un'artista, ed è anche
un'opera d'arte, forgiata dal tempo, per durare
nel tempo. Ma non è necessario, e nemmeno utile,
frantumarla in mille schegge, né deve essere
ricostruita: solo guardata, sentita, amata. La
dimensione popolare del melodramma, potente
quanto quella della fiaba, generi nati nel
Cinquecento ed egualmente fortunati, è
ininterrottamente intrecciata a quella colta:
così è dell'arte, di tutta l'arte. Maria Callas
ha bisogno di spazio, non di artefici. Di
alleate, non di demiurghi, di condividere cibo
per l'anima, non di subire classificazioni. Il
suo desiderio di essere amata come donna, la sua
affermazione che ogni donna per questo
rinuncerebbe a qualunque cosa, anche a essere la
più grande diva del suo tempo, va ascoltato come
la sua potenza sulla scena. Scegliere fra questa
potenza e il desiderio dell'amore di un uomo
significa illudersi che la domanda su quel che
vuole una donna abbia una risposta semplice.
Ci piace sognare che se lasciamo che la domanda
non si spenga, se sopportiamo l'incertezza che
apre in noi, la vita di Maria Callas come la
storia di tante eroine liriche segni la
ricomposizione di due ruoli tenuti accuratamente
separati fino al secolo passato: la sposa madre
e l'artista, la donna che accetta di farsi
circoscrivere dalle mura della famiglia e la
donna che vive nel mondo. Il melodramma italiano
col sacrificio e la potenza delle sue eroine
potrebbe avere questo significato? I tempi che
viviamo potrebbero esigere che Artemide non viva
solo nel dominio della natura, ma che si unisca
ad Afrodite? Non potrebbe parallelamente
ricomporsi la scissione fra Dioniso e Apollo?
Il disorientamento che viviamo, la depressione
che ci abbatte per l'inadeguatezza che
sperimentiamo di fronte a questo mutamento
epocale, potrebbe segnare una rivoluzione
culturale tanto grande da essere letteralmente
incomprensibile. Se la cultura umana, intesa
come Kultur, civiltà, ha potuto
costruirsi, fin dal paleolitico, sulla scissione
maschile e femminile, per consentire una
dinamica di rapporto abbastanza stabile fra i
due sessi, diverso all'interno e all'esterno
della famiglia, le sfide che il mondo intero
deve o dovrebbe affontare potrebbero richiedere
che la scissione si ricomponga. Opera
terribilmente difficile, potenzialmente tragica,
senza alcuna garanzia di lieto fine. Opera che
si impone senza possibilità di eluderla,
richiedendo la nostra piena dedizione e tutta la
nostra umiltà. Bisogna accettare il compito, e
questa accettazione è falsa se non comprende la
possibilità di riuscire come quella di fallire.
Ma se mettiamo da parte l'illusione di risolvere
- in un tempo lontano a piacere - tutti i nostri
problemi, non è sempre questo il compito che
culturalmente e individualmente dobbiamo
affrontare, vivere senza la certezza di
raggiungere la nostra meta, sia giorno dopo
giorno, sia nell'arco della nostra vita
p<rticolare?
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CASTA DIVA
NORMA
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Casta diva, che
inargenti
queste sacre antiche
piante,
a noi volgi il bel
sembiante
senza nube e senza
vel.
Tempra tu de’ cori
ardenti,
tempra ancor lo zelo
audace,
spargi in terra
quella pace
che regnar tu fai
nel ciel.
Casta
diva, è la dea vergine della luna, Artemide per
i greci, Diana per i latini, signora dei boschi,
cacciatrice. Vergine come Athena/Minerva ed
Estia/Vesta, circondata da ninfe che devono
mantenersi vergini, e nessun uomo, neanche per
caso, deve violare la nudità di Diana quando si
immerge nel bagno. La punizione è terribile:
Atteone, che l'ha vista per sbaglio,viene
trasformato in cinghiale; i suoi cani non lo
riconoscono e lo sbranano. Come può la somma
sacerdotessa del tempio della Casta Diva,
vergine dea lunare, quando ha un amante segreto,
un romano, straniero e nemico, dal quale ha
avuto due figli?
Una contraddizione che Maria Callas
esprime con la voce, il volto, il corpo nel
filmato linkato nella figura accanto, tratta dal
filmato stesso, Parigi, 1958.
Artemide, la dea che vive nei boschi e
rappresenta il femminile selvaggio, irrompe
sulla scena e sovverte l'ordine patriarcale
quando viene violata, sia uccidendo chi pur
involontariamente ha posato lo sguardo sul suo
corpo senza veli, sia perseguitando le ninfe del
suo seguito se hanno ceduto all'amore di un
uomo. La dea lunare pregata da Norma è la
divinità del femminile potente e separato dalla
civiltà patriarcale: l'uomo non ha potere su
questa creatura indomabile, a meno che non sia
lei stessa a metterlo a sua disposizione.
Qualcosa della donna resta fuori dall'ecumene,
dal patriarcato fallocentrico, che ha come dea
Artemide, Diana per i latini. Molte figure della
mitologia greca e medievale hanno una potenza
che possono mettere a disposizione del loro
amato, purché, illudendosi di esserne padrone,
non infranga il patto col quale ha preso questa
donna, di esserle fedele, come Pollione a Norma,
e di tenerla come sua sposa, come Giasone a
Medea. |
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LIETO
FINE SENZA MUSICA
TURANDOT
NB: Non si pronuncia
Turandò, alla francese, ma con la 't' finale sonora,
come è scritto, con l'accento sulla 'o', Turandot
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Nezami
Ganjavi XII secolo
Persia
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Turandot
(1710-1712)
Pétis de la Croix
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La
Turanda (1762)
Carlo Gozzi
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Turandot
di Schiller (1802)
Enigmi di Schiller e Goethe |
Libretto di Giuseppe Adami
e Renato Simoni |
Musiche
di Giacomo Puccini
Finale di F. Alfano 1926
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Prima
al
Teatro alla Scala
Milano 1926 |
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In dirittura finale, il personaggio
che pone enigmi, senza andare indietro fino alla
sfinge di Edipo, si trova in molte fiabe
popolari. Si tratta di una principessa che non
vuole sposarsi, e tiene lontani i pretendenti
costringendoli a rispondere ai suoi enigmi: se
non ne sono capaci viene loro tagliata la testa.
Col nome Turandot leggiamo la sua storia
pubblicata a Parigi nei Mille e un giorno.
Racconti persiani, pubblicati sull'onda
dell'immenso successo ottenuto dalle Mille e
una notte. Racconti arabi.
La storia di una principessa che sposerà solo
chi scioglierà i suoi enigmi è nel poema di
Nizami Sette effigi, dove sette
principesse, provenienti dai sette climi del
mondo passano la notte con il malinconico Bahram
e gli raccontano una storia. La storia del
martedì, nel padiglione rosso come Marte dice di
una principessa, figlia unica, che non intendeva
sposare se non un suo pari per sapienza, capace
quindi di superare gli ostacoli che aveva
disposto nel suo giardino e all'ingresso del suo
castello: chi tentava senza esserne capace
veniva decapitato dagli automi che non aveva
saputo affrontare. Il principe che ha superato
queste prove, deve quindi giocare nuovi enigmi
senza parole nel castello del sovrano, mentre la
principessa è velata da un paravento. Con gioia
annuncia che il principe ha superato la prova,
ed è ben felice di sposarlo.
Ma questa è storia della storia, necessaria per
comprendere come siamo arrivati alla pregnanza
dell'opera di Puccini, che contiene la romanza
del tenore che tutto il mondo ama, Vincerò...
Quel che conta per noi è il finale, diverso da
quello di Nizami.
Cominciamo con la prima versione, quella
francese di Pétis de la Croix. Quando Calaf
risponde a tutti gli indovinelli, nonostante sia
sia tolta il velo ponendo l'ultimo enigma,
Turandot nasconde le lacrime e vuole una
dilazione per porre altri enigmi. Mentre il re
suo padre non gliela concede, Calaf
gli chiede di poter rimettere in gioco la sua
vita: sarà lui a porre una domanda, e se
Turandot non saprà rispondere, dovrà
acconsentire a sposarlo. Le chiede quindi il suo
nome, e quando Turandot afferma di non saperlo
sul momento, ma lo saprà il giorno dopo, Kalaf
le concede la dilazione, e durante la notte
Adlelmulk, schiava di stirpe reale riesce a
carpirgli il nome segreto. Al mattino quando
Turandot lo dice a Calaf, è la volta del
principe di svenire, e di essere soccorso. Ma
quando
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rinviene la
principessa gli dice che ora il suo sentimento è
cambiato ed è pronta a sposarlo. La schiava principessa
confessa allora che sperava di fuggire con Calaf, e che
le ha rivelato il nome solo per vendicarsi: non avendo
ottenuto né amore né vendetta, non le resta che
uccidersi, e lo fa all'istante con un pugnale, davanti a
tutti. Onoranze funebri alla povera principessa. Poi,
nozze solenni e gaudio a corte e fra tutto il popolo.
Conquistata secondo il suo stesso patto, Turandot non
sopporta di essere vinta, e riceve dalla generosità di
Calaf una seconda occasione: capovolgendo il destino
diventa lei padrona di Calaf, e ora può darsi
liberamente a lui come sposa. Questo motivo della
libertà con cui la donna si dona allo sposo dopo essersi
sottratta ai propositi dominatori di lui, si trova in
una deliziosa piccola storia, nella quale Galvano, il
più bel cavaliere della Tavola Rotonda per salvare il
suo re sposa una brutta megera, Dame Ragnell. Ma la
prima notte di nozze il cavaliere scopre di aver accanto
la creatura più bella che abbia mai visto: allora lei
gli dice di scegliere, può averla bella durante la notte
o durante il giorno.
- Mia dolce signora, sia come
voi desiderate; io ripongo la scelta nelle vostre
mani. Il mio corpo e i miei beni, il mio cuore e
tutto il resto vi appartengono per disporne come
vorrete; lo affermo davanti a Dio
- Oh, grazie, cortese cavaliere! -
disse la dama. - Che tu sia benedetto fra tutti i
cavalieri del mondo, poiché ora sono libera
dall'incantesimo e voi mi avrete giorno e notte
bella come il sole. (Ivi, 114)
E quando re Artù
al mattino bussa alla porta della camera temendo che
Dame Ragnelle possa aver fatto del male a Galvano,
questi gli risponde che non ha nessuna intenzione di
lasciare la camera dove è felice con la più bella delle
femmine.
Il potere sull'altro, il fallo immaginario che ne è
espressione e crea e mantiene l'ordine gerarchico fra
persone, classi sociali, popoli, non è dell'uomo più che
della donna. L'uomo è formito del referente corporeo del
fallo, il pene, significato da tutti i suoi simboli, dei
quali il sovrano è sempre dotato, come lo scettro e la
spada. La donna riceve il pene e ne è fecondata:
attaverso il suo grembo si manifesta la potenza
fecondatrice maschile, insieme alla potenza femminile,
ospitare, nutrire, far crescere, dare alla luce una
nuova creatura, il figlio, la figlia. La potenza
fecondatrice maschile si manifesta solo combinata con la
potenza femminile: alla donna basta essere penetrata e
fecondata una volta perché si manifesti la sua potenza
di dare la vita, l'uomo ha bisogno di una donna che gli
sia tanto fedele da manifestare, insieme a questa
potenza femminile, quella dell'uomo. Certo, lasciare la
propria eredità, sia un regno, sia una capanna o anche
solo qualche attrezzo, è garanzia di continuità nel
tempo. Chissà se i nostri lontani antenati maschi si
prendevano cura dei loro discendenti, o se invece, come
la maggior parte dei mammiferi, esaurivano il loro estro
montando la femmina e fecondandola. In ogni caso per
essere certi di avere dei discendenti gli uomini hanno
bisogno di garantirsi la fedeltà della donna. Ma, come
sa bene il marchese Gualtieri, la certezza assoluta è
impossibile. Lo sa come lo sapeva il sultano delle Mille
e una notte, al quale Shahrazad raccontò storie per
mille e una volta. Per quanto l'uomo sia potente, per
quanto faccia e disponga per garantirsi la fedeltà e
l'affetto della propria sposa, resterà sempre qualcosa
nella donna che gli sfugge, perché ogni donna ha in
segreto ali d'angelo o di pipistrello o di farfalla,
coda di pesce o di serpente. A meno che, lasciandola
libera, rinunci a padroneggiarla: in quel caso la donna
esce dall'incantesimo che la teneva brutta, repellente
come Dame Ragnelle, impresentabile come la ranocchia
della fiaba romanesca, coperta da una pelle animale o
dello sporco del pollaio come Pelle d'Asino. La bellezza
della donna è un dono che la donna fa al suo amato, che
lo ottiene e lo mantiene se e solo se ha rinunciato a
possederla e a dominarla.
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OPERE CITATE
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Si omettono i riferimenti ai siti linkati,
accessibili con un click sul testo e/o sull'immagine
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Andersen
https://it.wikisource.org/wiki/Quaranta_novelle/Quel_che_fa_il_babbo_%C3%A8_sempre_ben_fatto
(vedi anche Tolstoj)
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Zanazzo, Giggi, Novelle, favole e
leggende romanesche, raccolte da G.Z.; Torino-Roma
1907
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Zimmer, Heinrich, Il re e il cadavere.
Storie della vittoria dell'anima sul male (The King
and the Corpse- Tales of the Soul's Conquest of the
Evil. 1948), Milano: Adelphi 1983; pp. 347
|
Per i numeri relativi alla messa in scena
indicati per alcune opere, vedi
http://blog.woopera.com/it/quali-sono-le-opere-piu-eseguite-al-mondo/
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