ADALINDA GASPARINI              PSICOANALISI E FAVOLE

FIABE ITALIANE REGIONALI E ALLOGLOTTE



Il Re di Francia ’gli ebbe un figliolo, di nome Ferdinando, che di moglie nun volse saperne mai niente, e il su’ babbo badava a dirgli:
– Se si spegne la stirpe con te, chi l’averà dunque lo Stato? I’ son vecchio, vedi, e tra poco non ci sarò più. Gnamo, scegliti una moglie, sicché
i’ possa morire contento.
Ma Ferdinando a tutti questi discorsi faceva il sordo, sicché alla fine il babbo gli morì e lui era sempre giovanotto, e accosì lo incoronorno Re.
Lui però s’annoiava della corona a quel modo solingolo.
Un giorno che ti fa? Chiama i Ministri e tutta la Corte, e gli dice:
– I’ m’annoio a far da Re. Sicché dunque vi lasso lo Stato in nelle mane e custoditemelo voi insino al ritorno: i’ vo’ andare a spasso per il mondo.

E insenza indugio, lui monta sur una nave e se ne va via; e quando si trovò in alto mare, deccoti che nasce una gran tempesta con contrasti di venti che strabalzavano la nave e la facevan girare com’un mulino. Salta di qua, salta di là, da ultimo picchiano sur uno scoglio e giù, la nave sprofonda e tutti affogano, meno Ferdinando, che a gran fatica col navicare si salvò e viense a proda a un’isola deserta. Successe un’oscurissima notte, nuotai alla ventura, finché esauritesi le mie forze, disperai di salvarmi; quando, rinforzatosi il vento, un’onda più alta d’una montagna mi gettò su d’una spiaggia. Il giorno dopo, mi avvidi di trovarmi in una piccola isola disabitata.
Era lì Ferdinando in quell’isola, tutto molle d’acqua di mare a mezzo allocchito dalla pena durata; ma doppo rinviolì a poco alla volta, e in quel mentre anco in cielo rimbeltempiva e il sole si vedeva risplendere; sicché Ferdinando si cavò i panni d’addosso e gli mettiede a rasciuttare, e quando furno rasciutti si rivestì daccapo e principiò a camminar per l’isola, e a cercare se caso mai ci abitassi qualche persona viva.
Non vedde per allora nissuno, e soltanto in sulla spiaggia c’era un bel frutto fronzoluto, che pareva propio una maraviglia; e Ferdinando badava a guardarlo: quando abbassati a un tratto gli occhi in verso il mare, apparì lontan lontano un barchettino, che vieniva via più lesto d’una saetta. Lui ’nsospettito, lesto s’arrampica su per il frutto e si rimpiatta per bene dientro al fogliame, nun sapendo se in quel barchettino ci fussano de’ galantomini, oppuramente degli assassini. Quando il barchettino arrivò in sulla spiaggia, scesan giù da quello un vecchio di sessant’anni almanco, un ragazzo di dodici e assiem con loro dodici stiavi mori; con seco avevano dimolte ceste piene di robbe da mangiare e da bere, e un materassino con delle coperte e altri attrazzi per un quartieri ammobigliato. Presan tutto e s’avviorno in verso il frutto addov’era Ferdinando niscosto, e lì a piè del ceppo i Mori si mettiedano a scavare un po’ di terra, insino a che scoprirno una lapida di pietra e la tirorno su; poi fatto ugni cosa, il vecchio calò il ragazzo dientro la buca e con lui tutta la robba portata, e da ultimo gli disse:
– Addio, sai? Sta’ allegro e a rivedersi a presto.
Chiusan la lapida, con della terra la ricopersano, e il vecchio e i Mori rimonti in nel barchettino telorno via, sicché in un mumento nun si vedde più nissuno ’n mare.
Mi accorsi allora che il giovane non era con loro, e perciò conchiusi esser lui rimasto nel sotterraneo, e ne restai maravigliato. Il vecchio e gli schiavi s’imbarcarono, e il bastimento, sciolte le vele, riprese la via del continente.
Nel mentre ch’io rimetteva a Dio la cura di disporre della mia sorte secondo la sua volontà, scopersi un piccolo bastimento che veniva a gonfie vele verso l’isola. Salii sopra un albero foltissimo, da dove potea, non visto, osservare ogni cosa. Il bastimento venne a situarsi in un piccolo seno; sbarcarono dieci schiavi, portanti una pala ed altri strumenti adatti a svolgere la terra.
Camminarono verso il mezzo dell’isola ove li vidi arrestarsi e smuover per qualche tempo il terreno; dai loro atti mi parve che sollevassero una botola. Tornarono poscia al bastimento, sbarcarono molte specie di provvigioni ed ognuno se ne fece un carico, che portò dove avevano smossa prima la terra, e vi discesero: ond’io compresi esservi un sotterraneo. Li vidi un’altra volta andare al vascello ed uscirne con un vecchio, che conduceva seco un giovane bellissimo di quattordici o quindici anni. Tutti discesero ov’era levata la botola, e quando furono risaliti, abbassata e ricopertala di terra, si diressero verso il naviglio.
A male brighe sparito il barchettino, Ferdinando scese giù dall’albero e gli viense una gran curiosità di cognoscere, perché mai quel ragazzo l’avessan sotterro lì vivo; con le mane, dunque, principiò a razzolare la terra, e anco lui trovò la lapida, la prendette per la campanella e doppo due o tre strattoni gli rinuscì d’aprirla.
Quel ragazzo di dientro quando buttò gli occhi su Ferdinando si mettiede a urlare:
– Nun m’ammazzate! nun m’ammazzate!
Dice Ferdinando:
– Nun aver paura, ché nun son mica un assassino – e gli raccontò in che maniera lui fuss’in quell’isola; e poi aggiugné:
– Se tu vo’ ch’i’ ti tienga compagnia, i’ scenderò anch’io costì dientro e tu mi dira’ chi siei e chi son quelli che qui t’hanno condutto.
Arrisponde il ragazzo:
– A me nun mi par vero di avere un po’ di compagnia. Scendi pure, ma fa’ piano per nun isdrucciolare.
Dunque Ferdinando si calò pian piano in fondo a quella buca, e c’era una bella cammera tutta accomida con quella robba del barchettino, e di mangiare ugni ben di Dio; c’era anco un cammino con il su’ foco e un bagno con dell’acqua. Doppo guardato dappertutto, dice Ferdinando:
– Gnamo, raccontami un po’ chi siei e perché t’hanno rinserro quaggiù.
Si messan tutt’e dua a siedere in sul letto, e il ragazzo disse:
– Tu ha’ da sapere ch’i’ sono il figliolo unico del Re d’Egitto. Quel vecchio che mi menò qui ’gli era appunto il mi’ babbo, e que’ Mori son gli stiavi di casa nostra che ci servono. Dunque, quand’i’ nascetti, il babbo mandò a chiamare una Strolaga famosa del paese di noi, perché lei mi strolagassi; e lei disse, che averei possuto avere dimolta fortuna, ma che, finiti i mi’ dodici anni, dientro quaranta giorni dovevo essere ammazzato dal figliolo del Re di Francia. Imperò la disgrazia nun sarebbe accaduta, a patto che in que’ medesimi quaranta giorni me ne stassi niscosto per bene fora della vista del mondo. Ecco perché il babbo volse serrarmi quaggiù in questa buca, e finiti i quaranta giorni, lui viene a ripigliarmi e mi rimenerà al palazzo reale in Egitto.

Quando lo vidi tanto lungi da non essere scoperto dall’equipaggio, scesi dall’albero e andai difilato al luogo dove avea veduto smuovere la terra. La smossi io pure, finché trovata una pietra, l’alzai e vidi che copriva l’entrata d’una scala pure di pietra; scesi, e mi trovai al basso in una grande stanza, ove un giovine stava seduto con un ventaglio in mano.
Questi fu sorpreso nel vedermi, ma, per rassicurarlo,gli dissi entrando:
— Chiunque siate, o signore, non temete di nulla.Un Re figliuolo di Re come io sono, non è capace di farvi la menoma ingiuria.
Il giovane si rassicurò a tali parole, e pregommi con volto ridente a sedermi vicino a lui; poscia mi disse:
— Principe, v’intratterrò di cose che vi faranno meraviglia, tanto sono singolari. Mio padre da lungo tempo era ammogliato senza avere figliuoli, quando fu avvertito in sogno che avrebbe avuto un figlio, la cui vita non sarebbe di lunga durata, il che gli procurò molta pena. Alcuni giorni dopo, mia madre annunziogli d’essere incinta, e il tempo in cui credeva aver concepito corrispondeva col giorno del sogno: essa si sgravò di me e si fece nella famiglia gran tripudio. Mio padre, che aveva esattamente osservato il momento della mia nascita, consultò gli astrologhi i quali gli dissero: « Vostro figlio vivrà senza accidenti fino all’età di quindici anni: ma allora, correrà rischio di perder la vita. A quel tempo, aggiunsero, la statua equestre di bronzo, ch’è sulla cima della montagna di calamita, sarà rovesciata nel mare dal Principe Agib, figlio del Re di Cassib, e gli astri annunziano che cinquanta giorni dopo vostro figlio dovrà essere ucciso da quello stesso Principe». Siccome questa predizione si accordava col sogno di mio padre, ei ne fu veramente commosso e addolorato. Non lasciò pertanto di prender molta cura della mia educazione fino a quest’anno, ch’è il quindicesimo di mia età. Ha saputo ieri che il cavaliere di bronzo è stato gittato in mare dal Principe nominatovi. Sulla predizione degli astrologhi ha cercato il mezzo d’ingannare il mio oroscopo e conservarmi la vita. Da molto tempo ha preso la cura di far costruire questa dimora per tenermi nascosto durante cinquanta giorni, allorché saprebbe rovesciata la statua. Perciò come ha saputo esserlo stata da dieci giorni, venne subito a nascondermi qui, promettendomi che nel quarantesimo verrebbe a riprendermi.

In nel sentire questo discorso Ferdinando s’isgomentò a bono: lui ’nfatti ’gli era pur troppo il figliolo del Re di Francia; ma nunistante stiede zitto e al ragazzo nun gliel’appalesò per nun ispaurirlo, e fra sé pensava intanto di starsene ’n sulle sue, perché la disgrazia annunziata dalla Strolaga nun avess’a succedere per su’ propria volontà. Mentre il giovinetto mi parlava in tal guisa, io mi burlava fra me e me degli astrologhi cui avean predetto ch’io gli toglierei la vita, e mi sentii sì lontano dal verificare la predizione, che gli dissi con trasporto:
— Caro signore, confidate nella bontà di Dio, e non temete di nulla. Son lieto, dopo aver naufragato, di trovarmi felicemente qui per difendervi da chiunque volesse attentare a’ vostri giorni.
Con tal discorso lo rassicurai. Mi astenni per paura di spaventarlo, di dirgli ch’io era il temuto Agib, ed ebbi cura di non dargliene alcun sospetto.
Mangiammo insieme delle sue provvigioni, perché egli ne aveva tante da sopravvanzargliene alla fine de’ quaranta giorni, quand’anche avesse avuti più ospiti di me. Dopo la cena continuammo ad intrattenerci qualche tempo, e poscia ci riposammo. Infine sotto quel sotterraneo passammo trentanove giorni col più gran piacere del mondo.
Così passorno insenza imbrogli trentanove giorni, e a tutt’e dua, ognuno per la su’ parte, gli pareva oramai d’essere fora de’ pericoli; quando in sulla sera del quarantesimo giorno dice il ragazzo:
– Domani viene ’l babbo a pigliarmi. S’ha da fare un bagno e pulirsi, perché lui ci trovi a modo, e io ti presenterò a lui come il mi’ compagno che è stato con meco a spassarmi.
Dice Ferdinando:
– Sì, sì, facciamo il bagno, e te ci nentrerai per il primo.
Scaldano l’acqua nella tinozza e il ragazzo ci si attuffa dientro, e ’n quel mentre che ’gli era lì, dice:
– Ferdinando, i’ ho sete. Che mi faresti una limonata?
– Subbito, – arrisponde Ferdinando, e piglia un coltello per affettare il limone.
I limoni gli avean messi su d’uno scaffale sopra la tinozza, e però Ferdinando ascese su d’uno sgabello per arrivargli e tieneva il coltello in mano. A un tratto gli sbucchia un piedi e casca di tonfo addosso al ragazzo e col ferro gli trapassa la gola.
Figuratevi lo spavento e il dolore di Ferdinando! Cavò dal bagno quello sciagurato, si provò a medicargli la piaga. Ma che! Verciava sangue a vergaferro, sicché a levata di sole il ragazzo era bell’e morto, che nun ci fu rimedio.
Giunse il quarantesimo, e la mattina, il giovine svegliandosi, mi disse con trasporto di gioia:
— Principe, eccomi oggi al quarantesimo giorno, e grazie a Dio e alla vostra buona compagnia non sono ancor morto. Mio padre non mancherà di mostrarvi la sua riconoscenza, e di fornirvi tutti i mezzi necessari per ritornar nel vostro regno: ma intanto — egli soggiunse — vi supplico di voler riscaldare un poco d’acqua per lavarmi tutto il corpo in un bagno portatile; mi voglio ripulire e cangiar d’abito, per meglio ricevere mio padre.
Io posi l’acqua sul fuoco, e quando fu tiepida ne riempii il bagno portatile; il giovine vi si pose dentro, lo lavai e lo asciugai io stesso. Indi uscito, si coricò nel suo letto e lo copersi colla sua coltre.

Poiché fu riposato ed ebbe dormito qualche tempo, mi disse:
— Principe, compiacetevi di portarmi un melone.
Dei molti meloni che ci restavano scelsi il migliore e lo posi in un piatto; e siccome non trovava un coltello per tagliarlo, domandai al giovane se sapesse dove fossero.
— Ve n’è uno — mi rispose — su questa cornice al di sopra della mia testa.
Infatti lo vidi; mi affrettai talmente per prenderlo, che quando l’ebbi in mano, il mio piede s’inviluppò in modo tale nelle coltri ch’io caddi sventuratamente sul giovane, immergendogli il coltello nel cuore, ond’ei spirò all’istante. A tale spettacolo mandai un grido di dolore. Poscia alzando le mani e la testa al Cielo, esclamai:
— Signore, vi domando perdono, e se sono colpevole della morte di questo giovine non mi lasciate vivere più a lungo!
Nulladimeno, riflettendo non esser le mie lacrime capaci di far rivivere il giovine, e che sarei stato sorpreso da suo padre, uscii dal sotterraneo.

Ferdinando allora doppo la disgrazia successa, che fu un destino, sortì fora dalla lapida, e lontan lontano eccoti che vedde il solito barchettino nel mare, che vieniva via insenza rembolare: lui lesto risale sul frutto e ci si rimpiatta per bene. Il barchettino arrivò alla spiaggia e smontano il vecchio co’ su’ dodici Mori; ma in nell’accorgersi della lapida spalancata il vecchio s’insospettì. Chiama e richiama, e nissuno gli arrispose; sicché scende in nella buca, e, poero padre! ti vede il figliolo morto con quella coltellata a traverso la gola. Urli e pianti che nun finivan mai, nun ne mancorno: ma finalmente, presano il morto, lo rinvoltorno con de’ panni e, messolo in nel barchettino, tutti piagnendo se ne andiedano via.
Vi era vicino al sotterraneo un grand’albero, le cui fronde foltissime mi parvero adatte a nascondermi; mi vi situai in modo da non poter essere scoperto, ed aspettai gli eventi.
Sbarcarono il vecchio e gli schiavi, e tosto si avanzarono verso il sotterraneo: alzarono la pietra e discesero. Chiamano il giovane per nome, ma non risponde; si raddoppia il loro timore: lo cercano e lo trovano finalmente sul letto col coltello in mezzo al cuore, non avendo io avuto il coraggio di cavarglielo.
A tal vista ruppero in grida di dolore; il vecchio cadde svenuto; gli schiavi, per fargli prender aria, lo portano a piè dell’albero su cui mi trovavo.

Ferdinando, affritto anco lui per il male che aveva fatto insenza la su’ volontà, quando il barchettino nun si scorgeva più, scese dal frutto per cercare se c’era un modo di nuscire da quell’isola disgraziata. Dunque si mettiede a girarla, e di lì a un po’ deccotelo in una macchia folta su per un colle, e verso il tramonto del sole s’avvede che un raggio sbacchiava dientro la porta d’un gran palazzo e la faceva tutta luccicare com’uno specchio. Dopo la partenza del vecchio, degli schiavi e del naviglio, io restai solo. Passava la notte nel sotterraneo che non era stato coperto, ed il giorno camminava intorno all’isola. Dopo un mese di simile vita allorquando avvertii che il mare diminuiva considerevolmente, non rimanendo più tra il continente e me se non un picciol tratto d’acqua, tosto lo attraversai e scorsi in lontananza un gran fuoco.
Ferdinando seguita a montare e arriva a un prato, addove nel mezzo steva quel palazzo; lui ci va e picchia forte, ma nissuno rispondeva. Aspetta, aspetta, tutt’a un tratto sente uno stropiccio di piedi; si volta e vede sette signoroni che vienivano su su zitti zitti, e quando gli furno vicini s’accorse che a ognuno di loro gli mancava un occhio. Dice, doppo la debita riverenza:
– Signori, son un povero naufragato ’n mare: vorre’ un po’ di ricovero.Di chi è questo palazzo? C’è egli modo d’albergarci per almanco una notte?
Un di que’ sette gli arrispose:
- Il palazzo è la nostra abitazione, ma nun ci pole stare nissun altro, perché nun ci sono che sette strapuntini per dormire, sette sgabelli per siedere, e il mangiare e bere è appunto per sette persone.
Dice Ferdinando:
– Come loro veggono, i’ sono nel caso di sapermi accomidare a ugni cosa. Mi faccian, via, la carità d’albergarmi.
E quello de’ sette signori che aveva parlato, gli disse allora:
– Se t’adatti, nentra pure. Ma però a un patto, che qualunque cosa che tu vegga, bada bene di nun domandar di nulla.
Senonché coll’approssimarmi, il mio errore si dissipò: invece d’un fuoco era un castello di rame rosso. Mi assisi vicino a quell’edifizio. Tosto vidi dieci giovani i quali parea venissero dal passeggio; erano tutti ciechi dall’occhio destro ed accompagnavano un uomo d’alta statura. Mi si accostarono, manifestando il contento che provavano nel vedermi, e domandandomi qual motivo mi avesse ivi condotto.
Si sedettero, ed io narrai ciò che m’era avvenuto dacché era uscito dal mio regno fin allora. Quand’ebbi terminato il mio discorso, quei giovani signori mi pregarono d’entrare con essi nel Castello, ed io accettai la loro offerta.
Attraversammo un’infinità di sale, di anticamere e di gabinetti elegantemente mobigliati, e giungemmo in un gran salotto.
— Camerata, sedetevi qui in mezzo su questo tappeto non informandovi di ciò che ci riguarda né tampoco della cagione per cui siamo tutti ciechi dell’occhio dritto: contentatevi di vedere, e non spingete più oltre la vostra curiosità.
Con questo accordo rientrano nel palazzo, e quando fu ora di cena i sette signoroni diedano un zinzino delle loro pietanze a Ferdinando, che siedeva a coccoloni per le terre, nun c’essendo addove mettersi; loro doppo s’accostarno attorno ’l foco, e tutti que’ sette ciechi pigliavan la cenere a brancate e se la buttavano ’n capo, urlando:
– Per la nostra sciaura! per la nostra sciaura!
Ferdinando nun potiede stare alle mosse con quello spettacolo e domandò:
– Oh! perché fate voi codesto lavoro?
Ma uno de’ ciechi, tutto ’ncattivito, arrispose:
– Curiosaccio! nun ti s’è egli detto, che tu nun domandi di nulla?
Il vecchio si alzò ed uscì, ritornando colla cena per tutti.
La mia storia era loro sembrata tanto straordinaria, che me la fecero ripetere al finir della cena, onde diede luogo ad una conversazione lunghissima. Poscia il vecchio si alzò, ed entrato in un gabinetto recò in testa dieci bacini l’uno dopo l’altro, tutti coperti di stoffa turchina,e ne pose uno con una fiaccola avanti ciascuno di quei giovani. Essi scoprirono il loro rispettivo bacino, nei quali vi era della cenere, del carbone polverizzato, e del nero
fumo. Mescolarono tutte quelle sostanze e cominciarono a fregarsi e macchiarsi il viso, da far orrore a vederli.
Dopo essersi tinti così, si posero a piangere ed a battersi la testa ed il petto gridando incessantemente:
— Ecco il frutto del nostro ozio e della nostra sregolatezza!
Il giorno appresso e l’altro ancora fecero lo stesso. Infine io non potei resistere alla mia curiosità, e li pregai seriamente di appagarla.
Uno di loro mi rispose per tutti gli altri:
— Se volete provare il nostro destino crudele, ditelo, e vi daremo la soddisfazione che domanderete.


Poi andorno a letto, e Ferdinando lo messano su delle foglie secche in uno stanzino.
A giorno, doppo che tutti eran levati e che culizionorno alla meglio, i sette signoroni scesano con Ferdinando a passeggiare nel selvatico.
Dice allora Ferdinando:
– Ditemi, per piacere, nun c’è egli modo di nuscire da quest’isola?
Quel solito gli arrispose:
– È difficile; ma pure, se tu ha’ dimolto coraggio, ti ci poteresti anco provare.
E Ferdinando:
– Eh! del coraggio i’ n’ho da vendere. Insegnatemi come si fa, e vo’ vedrete.
– Ecco come si fa: – gli disse quel signore: – bisogna che tu ti rinvolti in una pelle di fiera e che tu ti metta sdraiato in quel vallone. A una
cert’ora viene, un aquilone, ma grande, e a mala pena lei vede il fagotto, lo piglia e lo straporta di là dal mare. Ma bada, c’è il risico della vita.
Dice Ferdinando:
– Per ritornare a casa mia, lo credo! ne arrisicherei no una, ma anco dua delle vite. I’ farò come vo’ mi dite.
Io risposi esser preparato ad ogni avvenimento. Mi disse ancora che quando io avessi perduto l’occhio non doveva più sperare di rimanere con essi, supposto ch’io nutrissi simile pensiero, perché il loro numero era compiuto.
I dieci signori, vedendomi irremovibile nella mia risoluzione, presero un montone e lo scannarono; dopo avegli tolta la pelle, mi presentarono il coltello di cui s’erano serviti, dicendomi:
— Prendete questo coltello, vi servirà. Noi vi cuciremo in questa pelle, indi un uccello di enorme grandezza chiamato Roc apparirà nell’aria e prendendovi per un montone piomberà su di voi vi alzerà e vi poserà sulla cima d’una montagna; allora mediante il coltello sbarazzatevi del vostro involucro, camminate finché non siate giunto ad un Castello tutto coperto di lamine d’oro di grossi smeraldi e di altre pietre preziose. Presentatevi alla porta ch’è sempre aperta, ed entrate. Noi siamo stati tutti in quel Castello; non vi diciamo nulla di ciò che abbiamo veduto, né di quel che ci è intervenuto, perché lo saprete da voi.
Ecco dunque che Ferdinando si rinvolge dientro una pelle di bestia ben cucita e sdraioni aspetta l’uccello di rapina; e di lì a un po’ alla su’ ora comparse da lontano, e tanto era strasmisurato che pareva un ciuco; e a pena l’aquilone vedde la pelle rinfagottata, lui e’ la credé un animale. Fa una falcata, l’acciuffa e se la porta via per l’aria: passa il mare, passa le spiagge, passa i monti, e arrivo a un vallone fondo, l’uccellaccio cala giù e posa in terra Ferdinando e con le grinfie strappa la pelle con l’idea di mangiarlo; bensì quando vedde l’omo vivo lo lassò stare, riprese il volo e sparì. Dopo tal discorso m’inviluppai nella pelle di montone, e m’impadronii del coltello; quei giovani si presero la pena di cucirmivi dentro, mi lasciarono sul largo, e si ritirarono nel loro salone.
Il Roc, di cui mi avevano parlato, piombò su di me, mi prese fra gli artigli come un montone, e mi trasportò sulla sommità della montagna.

Ferdinando allora si rizza e comincia a guardare in che logo lui era, abbeneché fusse mezzo sbalordito per lo strapazzo avuto; e dapprima nentra in una selva; poi, seguitando a salire, si trova in grandi praterie; poi vienivano delle vigne tutte cariche di grappoli maturi d’ugni sorta, e frutteti con alberi gremi di pere, di mele, d’aranci e che so io; alla fine arriva a de’ giardini, addove nun ci mancava nulla da desiderare, fiori, piante, vasche d’acqua, e ’n mezzo a que’ giardini ci si vedeva un palazzone maraviglioso. Quando mi sentii a terra, feci uso del coltello, e mi sbarazzai della pelle, correndo diffilato al castello. L’uscio ne era aperto; entrai in una corte quadrata e vastissima avente intorno porte di legno di sandalo e di aloè, ed una d’oro.
Ferdinando va diviato alla porta e picchia, e deccoti a aprire dua bellissime ragazze; anzi, al chiasso ne corsano dell’altre, sicché arrivorno per insino a quaranta.
– Ben vienuto! Ben vienuto! Nentra, nentra, che c’è da rinfrescarsi.
A quell’accoglienza Ferdinando rimase quasimente ringrullito, e gli pareva propio d’essere in un mondo novo. Va dunque assieme con le ragazze
e loro lo menano in sala, e lì gli portano sorbetti e biscottini, e robbe bone da mangiare e da bere, e un mazzo di sigari per fummare a su’ piacimento;
e tutte lo servivano a un modo, che era una festa. Satollato che lui fu e riavuto, le ragazze condussan Ferdinando al passeggio in ne’ giardini, e
quando poi viense la notte ritornorno a casa in branco, ché la cena si trovava imbandita, con vini d’ugni qualità e nun ci mancava nulla.
Scorsi di fronte una porta aperta, per la quale entrai in un gran salone, dove erano sedute quaranta donzelle di una bellezza così perfetta da vincere l’immaginazione. Tostoché mi videro, si alzarono tutte insieme, e senza aspettare i miei complimenti mi dissero con grandi dimostrazioni di gioia:
— Bravo, signore, siate il benvenuto Dopo molta resistenza da parte mia mi sforzarono a sedermi in un posto un po’ più elevato del loro, e siccome io dimostrai di averne rincrescimento, esse mi dissero:
— Questo è il vostro posto; da questo momento voi siete il nostro signore, il nostro padrone, il nostro giudice: e noi siamo vostre schiave, pronte a ricevere i vostri comandi.
Una portò dell’acqua calda e mi lavò i piedi; un’altra mi versò dell’acqua odorifera sulle mani: le altre portarono tutto quanto era necessario per farmi mutar vestito, mi apprestarono una colazione magnifica.
Io bevvi e mangiai, poscia feci un esteso racconto delle mie avventure a quelle belle donnine. Quando ebbi terminato di raccontare la mia storia alle quaranta donne, alcune di loro, sedute più a me dappresso, restarono per intrattenermi, mentre le altre si alzarono per andare in cerca di lumi; ne portarono tanti da uguagliare meravigliosamente la chiarezza del giorno.
Altre donne apparecchiarono una tavola di frutta secche, di confetti e di bevande; altre ne guarnirono un’altra di molte specie di vini e liquori, ed altre infine comparvero con istrumenti musicali. Quando fu preparato m’invitarono a prender posto.

A una cert’ora disse quella che pareva la caporiona:
– Gli è tempo d’andare a letto. Qui delle cirimonie nun se ne fanno, Ferdinando. Se tu vo’, sciegliti pure quala più ti garba di noialtre e menala a dormire con teco.
Ferdinando nun intese a sordo; stese la mana a quella che lui aveva più vicina e la portò ’n camera; e, a farla corta, in quaranta notti dormì con tutte e quaranta le ragazze, e se mai se la godiede in quel tempo, i’ nun starò nemmanco a raccontarlo.

Dopo la cena, i concerti ed il ballo, una delle donne mi disse:
— Voi siete stanco per il cammino fatto oggi; è tempo di riposarvi. Il vostro appartamento è preparato: ma prima di ritirarvi scegliete fra noi una che vi serva.
Bisognò cedere alle loro istanze; presentai la mano alla donna che parlava per le altre: ella mi porse la sua e mi condusse in un magnifico appartamento. Così passò quella notte. Non aveva al mattino dopo appena terminato di vestirmi, quando le altre trentanove donne vennero nel mio appartamento, tutte adornate diversamente del giorno innanzi. Esse mi condussero al bagno ov’esse medesime, mio malgrado, mi rendettero tutti i servigi di cui avevo bisogno: e quando ne uscii, mi fecero prendere un altro abito assai più magnifico del primo.
Passammo il giorno quasi sempre a tavola: e quando fu venuta l’ora del riposo mi pregarono di far lo stesso dell’antecedente giorno. Infine, passai un intero anno in quel modo.


Vienuto il quarantesimo giorno, doppo culizione, disse la caporiona:
– Ferdinando, no’ s’ha per uso di fare tutt’assieme e da noi sole un viaggio di cento giorni ugni quarantina; sicché no’ ti si lassa padrone spotico del palazzo, e bada di guardarcelo bene insino a tanto che si torna. Decco, quest’è un mazzo di cento chiavi e aprono cento quartieri: girali pure tutti, visitali a uno a uno e divertiti, ché da vedere c’è dimolte cose.
Poi, detti gli addii, Ferdinando accompagnò le ragazze alla porta del palazzo e quelle partirno; ma arrive in fondo a’ giardini, una ne tornò addietro con in mano una chiavina d’argento, e disse a Ferdinando:
– Ci s’era scorde di consegnarti anco questa chiavina. Bada però di nun aprire con questa nissuna porta, perché se tu apri la porta di questa chiavina, tu ti poteressi pentire tardi della tu’ curiosità. Statti dunque in sugli avvisi, se ti preme il ben vivere.
– Che, che! Nun dubitate di nulla, – scrama Ferdinando; e la ragazza raggiunse le su’ compagne, e tutte a poco a poco nun si veddan più in que’ loghi.
Alla fine dell’anno le quaranta donne entrarono nel mio appartamento colle guancie bagnate di pianto. Vennero ad abbracciarmi teneramente l’una dopo l’altra, e mi dissero:
— Addio, caro Principe, addio! Bisogna abbandonarvi.
Le loro lacrime m’intenerirono: ed io le pregai a dirmi la cagione del loro dolore, e della separazione di cui mi parlavano.
— Ahi! — disposero — qual altra cagione sarebbe capace di affliggerci, se non quella di separarci da voi?
Forse non vi rivedremo mai più! Se intanto voi volete, ed avete perciò potere abbastanza su voi, non sarebbe
impossibile di ricongiungerci.
— Donne — ripresi — non comprendo nulla di ciò che dite; vi prego di parlarmi più chiaro.
— Ebbene, — disse una di loro — per soddisfarvi vi diremo che siamo tutte Principesse, figliuole di Re. Viviamo qui insieme colla letizia che avete veduto: ma alla fine d’ogni anno siamo obligate di allontanarci per quaranta giorni, onde soddisfare a certi doveri indispensabili, che non ci è permesso rivelare; dopo ritorniamo in questo castello. L’anno finì ieri: bisogna oggi lasciarvi: è questa la cagione della nostra afflizione. Prima diuscire vi lasceremo le chiavi d’ogni cosa. Ma per nostro bene e per nostro comune interesse vi raccomandiamo di non aprire la porta d’oro: se l’aprirete non vi vedremo mai più!
Il discorso di quelle vaghe Principesse mi diede molta pena.


Dunque Ferdinando restato padrone spotico del palazzo, ugni giorno ’gli andeva a visitarne uno de’ quartieri e passava il su’ tempo spassandosi con tutte quelle maraviglie che c’erano dientro; vienuta poi la mattina del centunesimo giorno lo chiappò la tentazione del curioso: "Ma questa chiavina d’argento che porta mai aprirà? Oh! che vi pol esser serrato in questo logo proibito da far paura a me?"
Con di tali pensieri Ferdinando gironzolava a caso per il palazzo, quando, per su’ disgrazia, diede del naso a un posto che nun aveva prima visto in nel cortile, e lì c’era una porticina tutta d’argento. Scrama:
– Bada, veh! Eppure la chiavina ’gli è di quest’usciolo. Provo, o nun provo? – e intanto mette la chiavina in nel buco della toppa; gira e il serrarne si spalanca.
I nostri addii furono tenerissimi, io le abbracciai una dopo l’altra; esse partirono ed io restai solo nel Castello. Fui vivamente afflitto della loro partenza e quantunque la loro lontananza non dovesse essere che di quaranta giorni mi parve di dover passare un secolo senza di esse.
Io mi riprometteva di non dimenticare l’avvertimento importante, di non aprir cioè la porta d’oro; ma siccome, salvo quell’eccezione, mi era permesso di soddisfare la mia curiosità, presi, secondo l’ordine in cui eran messe, la prima chiave delle altre porte. Apersi la prima ed entrai in un giardino fruttifero, al quale credo nessun altro al mondo possa paragonarsi: e penso che quello il quale ci vien promesso dopomorte dalla nostra religione, non possa sorpassarlo.
La simmetria, l’eleganza, la disposizione ammirabile degli alberi, l’abbondanza e la diversità dei frutti di mille specie sconosciute, la loro freschezza, la loro bellezza, tutto rapiva la mia vista. Uscii coll’animo pieno di quelle meraviglie, chiusi la porta ed apersi quella che veniva dopo. Invece d’uno di frutti ne trovai uno di fiori, che non era men singolare nel suo genere.
Io non mi arresterò a farvi la narrazione di tutte le cose rare che vidi ne’ giorni seguenti; ma vi dirò soltanto che non mi bastarono meno di trentanove giorni per aprire le novantanove porte ed ammirar tutto ciò che si offerse alla mia vista.
Lì per lì Ferdinando stiede in sul peritoso di aver fatto male, ma oramai la porticina era bell’e aperta, sicché lui nentra dientro e vede una stalla con un cavallino baio, che pareva tutt’allegro della visita. Ferdinando s’accosta, accarezza l’animale in sulla groppa, e l’animale bono; in quel mentre volta l’occhio e sur un trespolo s’accorge che ci steva una briglia, una sella e un frustino; subbito dice fra sé:
– Oh! che guasto sarà egli s’i’ monto a cavallo e vo’ a riscontrare le mi’ ragazze, che devon orora ricapitar qui?
Detto fatto; lui sella il cavallino, gli passa la briglia al collo, piglia il frustino e su d’un salto.
Giunto già al quarantasettesimo giorno dopo la partenza delle principesse se avessi potuto quel giorno conservare su me il debito potere sarei oggi il più felice di tutti gli uomini, invece di esserne il più sventurato: ma per una debolezza di cui non cesserò mai di pentirmi, soccombetti alla tentazione del demonio, aprii la porta fatale, trovai un vasto luogo a vòlta; molti candellieri d’oro massiccio, aventi lumi accesi che mandavano un odore d’aloè e d’ambra grigia, servivano di luce: fra un numero molto grande di oggetti che attiravano la mia curiosità scopersi un cavallo nero. Mi ci appressai per considerarlo, e trovai che aveva una sella ed una briglia d’oro massiccio. Lo presi per la briglia e lo trassi fuori.
 Ma a male brighe accomido, deccoti un gran fracasso; si spalanca d’un tratto un finestrone propio nel muro, la bestia tira fori du’ ale strasmisurate, e via per l’aria a volo con Ferdinando addosso. Tutto ’mpaurito, Ferdinando s’attieneva con le mane alla criniera dell’animale; e quello passa i monti, passa le spiagge, passa il mare, e vienuto finalmente all’isola deserta medesima indove Ferdinando ’gli era naufragato, lo porta addirittura al palazzo de’ sette signoroni mezzo ciechi, e lì, tonfete! Dà uno scossone, lo strabalza di sella e in nel voltarsi per andarsene con una codata gli cava netto un occhio.
Agli urli di Ferdinando corsano i sette signoroni, e quando lo veddano a quel mo’ concio, un di loro gli disse:
– Ora tu po’ nentrare liberamente. C’è lo strapuntino, c’è lo sgabello, e da mangiare e da bere anco per te. La sera te pure ti scalderai al cammino e buttandoti la cenere in sul capo, ti converrà come noi dire: "Per la nostra sciaura! Per la nostra sciaura!"


Montai su, e volli farlo camminare: ma siccome non si muoveva, lo percossi con uno scudiscio che avevo preso nella magnifica scuderia. Appena intese il colpo si pose a nitrire con orribile strepito; poi spiegando due ali, di cui non mi era accorto, si levò nell’aria. Ripreso indi il suo volo verso terra si pose sul torrazzo d’un castello, ove senza darmi tempo di metter piede a terra, mi scosse così violentemente, che mi fece cadere indietro, e coll’estremità della sua coda mi cavò l’occhio dritto.
Ecco in qual modo son divenuto cieco. Il cavallo riprese il suo volo e disparve. Camminai sul terrazzo colla mano all’occhio, che molto mi doleva, e disceso mi trovai in un salone che dai dieci sofà ch’erano in giro, fecemi conoscere che era il Castello donde ero stato tratto dal Roc.
I dieci giovani ciechi non erano nel salone; ond’io li aspettai finché poco tempo dopo giunsero col vecchio.
Questa ’gli è la pena de’ curiosi, che nun sanno tiener di conto del bene acquistato. Agli urli di Ferdinando corsano i sette signoroni, e quando lo veddano a quel mo’ concio, un di loro gli disse:
– Ora tu po’ nentrare liberamente. C’è lo strapuntino, c’è lo sgabello, e da mangiare e da bere anco per te. La sera te pure ti scalderai al cammino e buttandoti la cenere in sul capo, ti converrà come noi dire: "Per la nostra sciaura! Per la nostra sciaura!" Questa ’gli è la pena de’ curiosi, che nun sanno tiener di conto del bene acquistato.

Essi m’insegnarono la via che doveva tenere e mi separai da loro.
Ecco in qual modo son divenuto cieco. Il cavallo riprese il suo volo e disparve.
Camminai sul terrazzo colla mano all’occhio, che molto mi doleva, e disceso mi trovai in un salone che dai dieci sofà ch’erano in giro, fecemi conoscere che era il Castello donde ero stato tratto dal Roc.
I dieci giovani ciechi non erano nel salone; ond’io li aspettai finché poco tempo dopo giunsero col vecchio.
Essi m’insegnarono la via che doveva tenere e mi separai da loro.




RIFERIMENTI E NOTE
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IL FIGLIOLO DEL RE DI FRANCIA Gherardo Nerucci, Sessanta novelle popolari montalesi (Circondario di Pistoia); Firenze: Successori Le Monnier, 1880. Ristampa anastatica con introduzione e note di Roberto Fedi; Milano: Biblioteca Universale Rizzoli 1977. Novella IX (Raccontata da Giovanni Becheroni contadino), pp. 73-80..
Testo online: https://archive.org/details/sessantanovelle00nerugoog/page/72/mode/2up?view=theater; consultato il 15 aprile 2024.
Sulla mancanza in questa storia della cornice presente nella stessa storia delle Mille e una notte, vedi in questa pagina: Fiabe con e senza cornice.


GHERARDO NERUCCI

Discendente da una nobile famiglia pistoiese, Gherardo Nerucci fu patriota, partecipando ai moti del 1848 (combattente a Curtatone e Montanara), e alla sollevazione contro Canapone, il Granduca Leopoldo II. Avvocato, insegnante, uomo di grande cultura, fu in contatto con i maggiori studiosi del suo tempo, ma non ebbe molti riconoscimenti ufficiali.
Fondò a Montale Pistoiese nel 1862 una Scuola Notturna Rurale Privata, e contribuì attivamente al dibattito sulla scuola pubblica, nel 1871 sposò una londinese, con la quale sarebbe vissuto fino alla morte nella sua villa di Montale.
La sua raccolta di novelle è fra le più piacevoli di quelle che nel fervore culturale di quegli anni si andavano stampando in Italia, nei dialetti di tutte le regioni, studiati da filologi e glottologi di fama europea.
Il metodo scrupoloso di studiosi che mantenevano una fedeltà assoluta al dettato popolare stava un po’ stretto al Nerucci, che dando alle stampe la sua opera si permise qualche licenza, avvertendo con un detto popolare che La novella nun è bella se sopra non ci si rappella.
Italo Calvino lo avrebbe ricordato lavorando alle sue Fiabe italiane: delle quali vengono proprio dalla novelle di Montale:

 In tutto questo mi facevo forte del proverbio toscano caro al Nerucci, “La novella nun è bella se sopra non ci si rappella”, la novella vale per quel che su essa tesse e ritesse ogni volta chi la racconta, per quel tanto di nuovo che si aggiunge passando di bocca in bocca. (Fiabe Italiane [1956], Introduzione; edizioni varie)

 Il lavoro appassionato con cui si dedicò alla raccolta delle fiabe montalesi potrebbe averlo aiutato a sopportare la morte dei due figli, ancora bambini. Non di rado la vita dei narratori di fiabe è segnata da un lutto irreparabile: le fiabe possono anche sospendere un dolore, e far scorrere un tempo altrimenti irrigidito.
Per una foto malinconica di Gherardo Nerucci e altro, vedi anche: http://it.wikipedia.org/wiki/Gherardo_Nerucci
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STORIA DEL TERZO MONOCOLO
"Storia del terzo monocolo - calender", Le mille e una notte: novelle arabe. Milano: Bietti 1934. Pp. 157-171.

Sulla mancanza in questa storia della cornice presente nella stessa storia delle Mille e una notte, vedi in questa pagina: Fiabe con e senza cornice.

La prima traduzione italiana elle Mille e una notte (1722)
Novelle arabe divise in mille e una notte. Tradotte in francese e dal francese nel volgare italiano. In Venezia: per Sebastiano Coleti 1722 [tomo duodecimo, ed ultimo; https://books.google.it/books?id=7MRIe24B59QC&pg=PA197&source=gbs_toc_r&hl=it&pli=1#v=onepage&q&f=false] ultimo accesso: 16 aprile 2024


IMMAGINE


Edmund Dulac, Illustrator, Sinbad the Sailor & Other Stories from the Arabian Nights; Hodder & Stoughton, 1914. Online, Internet Archive: https://archive.org/details/sinbadsailorothe00dula/mode/2up; ultimo accesso 16 aprile 2024.
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NOTE

Fiabe con e senza cornice
La motivazione alla partenza e ai viaggi per mare del principe che racconta in prima persona questa storia alle tre dame di Baghdad, al facchino, al califfo, al suo visir, al suo boia, e ai primi due principi rimasti orbi da un occhio è lontana dalla fiaba toscana, il cui avvio è quello classico del principe che rifiuta le nozze. La prima parte della storia del terzo monocolo è omessa non avendo corrispettivo nella fiaba toscana. La storia delle tre dame di Baghdad è una cornice portante all'interno della raccolta delle Mille e una notte, che a sua volta ha come cornice la vicenda della narratrice Shahrazad che con i suoi racconti sospende la sentenza capitale decretata dal sultano per eliminare le donne prima che possano tradire.
Rimandiamo a questo proposito la pagina sugli Antefatti e sulla Storia Cornice delle Mille e una notte: http://www.alaaddin.it/_TESORO_FIABE/AF/AF_Milleunanotte_Cornice.html. Online dal 16 aprile 2024.


Apparì lontan lontano un barchettino, che vieniva via più lesto d’una saetta... (Il figliolo del Re di Francia)


Scopersi un piccolo bastimento che veniva a gonfie vele verso l’isola. (Storia del terzo monocolo)

Si sono scelte Le mille e una notte tradotte in italiano nel 1934 perché sono abbastanza fedeli alle Mille et une nuits di Antoine Galland, ci consentono quindi meglio di altre traduzioni una comparazione fra la novella raccolta da Gherardo Nerucci e narrata da Giovanni Becheroni contadino e la storia del terzo principe cieco da un occhio, parte della "Storia delle Tre dame", presente fin dai manoscritti trecenteschi della raccolta araba e in tutte le principali traduzioni.
La somiglianza è tale che il contadino Giovanni Becheroni poteva conoscerla piuttosto bene.
Facilmente rilevabile comunque è il passaggio dalla colta favolistica araba alla fiaba popolare toscana. Si tratta di uno degli innumerevoli scambi fra tradizione colta e popolare. Interessante la scomparsa di ogni riferimento a una storia cornice, inadatta alla narrazione popolare e orale. Anche in testi colti la storia cornice, o l'antefatto che la precede, diventa una fiaba a se stante, più o meno rimaneggiata dall'autore colto. Vedi, a questo proposito, in questo sito, dal Novelliere di Giovanni Sercambi De ingenio mulieris adultera: Sercambi_Cornice-Notti (alaaddin.it). Nel file qualche riferimento allo stesso antefatto nell'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto.









 © Adalinda Gasparini
Online dal 27 giugno 2021
Ultima revisione 16 aprile 2024