Il Re di Francia ’gli ebbe un figliolo, di
nome Ferdinando, che di moglie nun volse saperne mai
niente, e il su’ babbo badava a dirgli: – Se si spegne la stirpe con te, chi l’averà dunque lo Stato? I’ son vecchio, vedi, e tra poco non ci sarò più. Gnamo, scegliti una moglie, sicché i’ possa morire contento. Ma Ferdinando a tutti questi discorsi faceva il sordo, sicché alla fine il babbo gli morì e lui era sempre giovanotto, e accosì lo incoronorno Re. Lui però s’annoiava della corona a quel modo solingolo. Un giorno che ti fa? Chiama i Ministri e tutta la Corte, e gli dice: – I’ m’annoio a far da Re. Sicché dunque vi lasso lo Stato in nelle mane e custoditemelo voi insino al ritorno: i’ vo’ andare a spasso per il mondo. |
[La motivazione alla partenza e ai
viaggi per mare del principe che racconta in prima
persona alle tre dame di Baghdad, al facchino, al
califfo, al suo visir, al suo boia, e ai primi due
principi rimasti orbi da un occhio è lontana dalla
fiaba toscana, il cui avvio è quello classico del
principe che rifiuta le nozze. Anche se un'analogia
fra il desiderio di viaggiare e la mancanza di
desiderio di esercitare il proprio potere per guidare
e far prosperare il popolo comunque esiste. Una lunga
prima parte della storia del terzo monocolo è omessa
non avendo corrispettivo nella fiaba toscana] |
E insenza indugio, lui monta sur una nave e se ne va via; e quando si trovò in alto mare, deccoti che nasce una gran tempesta con contrasti di venti che strabalzavano la nave e la facevan girare com’un mulino. Salta di qua, salta di là, da ultimo picchiano sur uno scoglio e giù, la nave sprofonda e tutti affogano, meno Ferdinando, che a gran fatica col navicare si salvò e viense a proda a un’isola deserta. | Successe un’oscurissima
notte, nuotai alla ventura, finché esauritesi le mie
forze, disperai di salvarmi; quando, rinforzatosi il
vento, un’onda più alta d’una montagna mi gettò su
d’una spiaggia. Il giorno dopo, mi avvidi di trovarmi
in una piccola isola disabitata. |
Era lì Ferdinando in quell’isola, tutto molle d’acqua di mare a mezzo allocchito dalla pena durata; ma doppo rinviolì a poco alla volta, e in quel mentre anco in cielo rimbeltempiva e il sole si vedeva risplendere; sicché Ferdinando si cavò i panni d’addosso e gli mettiede a rasciuttare, e quando furno rasciutti si rivestì daccapo e principiò a camminar per l’isola, e a cercare se caso mai ci abitassi qualche persona viva. | |
Non vedde per allora
nissuno, e soltanto in sulla spiaggia c’era un bel
frutto fronzoluto, che pareva propio una maraviglia; e
Ferdinando badava a guardarlo: quando abbassati a un
tratto gli occhi in verso il mare, apparì lontan
lontano un barchettino, che vieniva via più lesto
d’una saetta. Lui ’nsospettito, lesto s’arrampica su
per il frutto e si rimpiatta per bene dientro al
fogliame, nun sapendo se in quel barchettino ci
fussano de’ galantomini, oppuramente degli assassini.
Quando il barchettino arrivò in sulla spiaggia, scesan
giù da quello un vecchio di sessant’anni almanco, un
ragazzo di dodici e assiem con loro dodici stiavi
mori; con seco avevano dimolte ceste piene di robbe da
mangiare e da bere, e un materassino con delle coperte
e altri attrazzi per un quartieri ammobigliato. Presan
tutto e s’avviorno in verso il frutto addov’era
Ferdinando niscosto, e lì a piè del ceppo i Mori si
mettiedano a scavare un po’ di terra, insino a che
scoprirno una lapida di pietra e la tirorno su; poi
fatto ugni cosa, il vecchio calò il ragazzo dientro la
buca e con lui tutta la robba portata, e da ultimo gli
disse: – Addio, sai? Sta’ allegro e a rivedersi a presto. Chiusan la lapida, con della terra la ricopersano, e il vecchio e i Mori rimonti in nel barchettino telorno via, sicché in un mumento nun si vedde più nissuno ’n mare. Mi accorsi allora che il giovane non era con loro, e perciò conchiusi esser lui rimasto nel sotterraneo, e ne restai maravigliato. Il vecchio e gli schiavi s’imbarcarono, e il bastimento, sciolte le vele, riprese la via del continente. |
Nel mentre ch’io
rimetteva a Dio la cura di disporre della mia sorte
secondo la sua volontà, scopersi un piccolo bastimento
che veniva a gonfie vele verso l’isola. Salii sopra un
albero foltissimo, da dove potea, non visto, osservare
ogni cosa. Il bastimento venne a situarsi in un
piccolo seno; sbarcarono dieci schiavi, portanti una
pala ed altri strumenti adatti a svolgere la terra. Camminarono verso il mezzo dell’isola ove li vidi arrestarsi e smuover per qualche tempo il terreno; dai loro atti mi parve che sollevassero una botola. Tornarono poscia al bastimento, sbarcarono molte specie di provvigioni ed ognuno se ne fece un carico, che portò dove avevano smossa prima la terra, e vi discesero: ond’io compresi esservi un sotterraneo. Li vidi un’altra volta andare al vascello ed uscirne con un vecchio, che conduceva seco un giovane bellissimo di quattordici o quindici anni. Tutti discesero ov’era levata la botola, e quando furono risaliti, abbassata e ricopertala di terra, si diressero verso il naviglio. |
A male brighe
sparito il barchettino, Ferdinando scese giù
dall’albero e gli viense una gran curiosità di
cognoscere, perché mai quel ragazzo l’avessan sotterro
lì vivo; con le mane, dunque, principiò a razzolare la
terra, e anco lui trovò la lapida, la prendette per la
campanella e doppo due o tre strattoni gli rinuscì
d’aprirla. Quel ragazzo di dientro quando buttò gli occhi su Ferdinando si mettiede a urlare: – Nun m’ammazzate! nun m’ammazzate! Dice Ferdinando: – Nun aver paura, ché nun son mica un assassino – e gli raccontò in che maniera lui fuss’in quell’isola; e poi aggiugné: – Se tu vo’ ch’i’ ti tienga compagnia, i’ scenderò anch’io costì dientro e tu mi dira’ chi siei e chi son quelli che qui t’hanno condutto. Arrisponde il ragazzo: – A me nun mi par vero di avere un po’ di compagnia. Scendi pure, ma fa’ piano per nun isdrucciolare. Dunque Ferdinando si calò pian piano in fondo a quella buca, e c’era una bella cammera tutta accomida con quella robba del barchettino, e di mangiare ugni ben di Dio; c’era anco un cammino con il su’ foco e un bagno con dell’acqua. Doppo guardato dappertutto, dice Ferdinando: – Gnamo, raccontami un po’ chi siei e perché t’hanno rinserro quaggiù. Si messan tutt’e dua a siedere in sul letto, e il ragazzo disse: – Tu ha’ da sapere ch’i’ sono il figliolo unico del Re d’Egitto. Quel vecchio che mi menò qui ’gli era appunto il mi’ babbo, e que’ Mori son gli stiavi di casa nostra che ci servono. Dunque, quand’i’ nascetti, il babbo mandò a chiamare una Strolaga famosa del paese di noi, perché lei mi strolagassi; e lei disse, che averei possuto avere dimolta fortuna, ma che, finiti i mi’ dodici anni, dientro quaranta giorni dovevo essere ammazzato dal figliolo del Re di Francia. Imperò la disgrazia nun sarebbe accaduta, a patto che in que’ medesimi quaranta giorni me ne stassi niscosto per bene fora della vista del mondo. Ecco perché il babbo volse serrarmi quaggiù in questa buca, e finiti i quaranta giorni, lui viene a ripigliarmi e mi rimenerà al palazzo reale in Egitto. |
Quando lo vidi tanto
lungi da non essere scoperto dall’equipaggio, scesi
dall’albero e andai difilato al luogo dove avea veduto
smuovere la terra. La smossi io pure, finché trovata
una pietra, l’alzai e vidi che copriva l’entrata d’una
scala pure di pietra; scesi, e mi trovai al basso in
una grande stanza, ove un giovine stava seduto con un
ventaglio in mano. Questi fu sorpreso nel vedermi, ma, per rassicurarlo,gli dissi entrando: — Chiunque siate, o signore, non temete di nulla.Un Re figliuolo di Re come io sono, non è capace di farvi la menoma ingiuria. Il giovane si rassicurò a tali parole, e pregommi con volto ridente a sedermi vicino a lui; poscia mi disse: — Principe, v’intratterrò di cose che vi faranno meraviglia, tanto sono singolari. Mio padre da lungo tempo era ammogliato senza avere figliuoli, quando fu avvertito in sogno che avrebbe avuto un figlio, la cui vita non sarebbe di lunga durata, il che gli procurò molta pena. Alcuni giorni dopo, mia madre annunziogli d’essere incinta, e il tempo in cui credeva aver concepito corrispondeva col giorno del sogno: essa si sgravò di me e si fece nella famiglia gran tripudio. Mio padre, che aveva esattamente osservato il momento della mia nascita, consultò gli astrologhi i quali gli dissero: « Vostro figlio vivrà senza accidenti fino all’età di quindici anni: ma allora, correrà rischio di perder la vita. A quel tempo, aggiunsero, la statua equestre di bronzo, ch’è sulla cima della montagna di calamita, sarà rovesciata nel mare dal Principe Agib, figlio del Re di Cassib, e gli astri annunziano che cinquanta giorni dopo vostro figlio dovrà essere ucciso da quello stesso Principe». Siccome questa predizione si accordava col sogno di mio padre, ei ne fu veramente commosso e addolorato. Non lasciò pertanto di prender molta cura della mia educazione fino a quest’anno, ch’è il quindicesimo di mia età. Ha saputo ieri che il cavaliere di bronzo è stato gittato in mare dal Principe nominatovi. Sulla predizione degli astrologhi ha cercato il mezzo d’ingannare il mio oroscopo e conservarmi la vita. Da molto tempo ha preso la cura di far costruire questa dimora per tenermi nascosto durante cinquanta giorni, allorché saprebbe rovesciata la statua. Perciò come ha saputo esserlo stata da dieci giorni, venne subito a nascondermi qui, promettendomi che nel quarantesimo verrebbe a riprendermi. |
In nel sentire questo discorso Ferdinando s’isgomentò a bono: lui ’nfatti ’gli era pur troppo il figliolo del Re di Francia; ma nunistante stiede zitto e al ragazzo nun gliel’appalesò per nun ispaurirlo, e fra sé pensava intanto di starsene ’n sulle sue, perché la disgrazia annunziata dalla Strolaga nun avess’a succedere per su’ propria volontà. | Mentre il giovinetto mi
parlava in tal guisa, io mi burlava fra me e me degli
astrologhi cui avean predetto ch’io gli toglierei la
vita, e mi sentii sì lontano dal verificare la
predizione, che gli dissi con trasporto: — Caro signore, confidate nella bontà di Dio, e non temete di nulla. Son lieto, dopo aver naufragato, di trovarmi felicemente qui per difendervi da chiunque volesse attentare a’ vostri giorni. Con tal discorso lo rassicurai. Mi astenni per paura di spaventarlo, di dirgli ch’io era il temuto Agib, ed ebbi cura di non dargliene alcun sospetto. Mangiammo insieme delle sue provvigioni, perché egli ne aveva tante da sopravvanzargliene alla fine de’ quaranta giorni, quand’anche avesse avuti più ospiti di me. Dopo la cena continuammo ad intrattenerci qualche tempo, e poscia ci riposammo. Infine sotto quel sotterraneo passammo trentanove giorni col più gran piacere del mondo. |
Così passorno insenza
imbrogli trentanove giorni, e a tutt’e dua, ognuno per
la su’ parte, gli pareva oramai d’essere fora de’
pericoli; quando in sulla sera del quarantesimo giorno
dice il ragazzo: – Domani viene ’l babbo a pigliarmi. S’ha da fare un bagno e pulirsi, perché lui ci trovi a modo, e io ti presenterò a lui come il mi’ compagno che è stato con meco a spassarmi. Dice Ferdinando: – Sì, sì, facciamo il bagno, e te ci nentrerai per il primo. Scaldano l’acqua nella tinozza e il ragazzo ci si attuffa dientro, e ’n quel mentre che ’gli era lì, dice: – Ferdinando, i’ ho sete. Che mi faresti una limonata? – Subbito, – arrisponde Ferdinando, e piglia un coltello per affettare il limone. I limoni gli avean messi su d’uno scaffale sopra la tinozza, e però Ferdinando ascese su d’uno sgabello per arrivargli e tieneva il coltello in mano. A un tratto gli sbucchia un piedi e casca di tonfo addosso al ragazzo e col ferro gli trapassa la gola. Figuratevi lo spavento e il dolore di Ferdinando! Cavò dal bagno quello sciagurato, si provò a medicargli la piaga. Ma che! Verciava sangue a vergaferro, sicché a levata di sole il ragazzo era bell’e morto, che nun ci fu rimedio. |
Giunse il
quarantesimo, e la mattina, il giovine svegliandosi,
mi disse con trasporto di gioia: — Principe, eccomi oggi al quarantesimo giorno, e grazie a Dio e alla vostra buona compagnia non sono ancor morto. Mio padre non mancherà di mostrarvi la sua riconoscenza, e di fornirvi tutti i mezzi necessari per ritornar nel vostro regno: ma intanto — egli soggiunse — vi supplico di voler riscaldare un poco d’acqua per lavarmi tutto il corpo in un bagno portatile; mi voglio ripulire e cangiar d’abito, per meglio ricevere mio padre. Io posi l’acqua sul fuoco, e quando fu tiepida ne riempii il bagno portatile; il giovine vi si pose dentro, lo lavai e lo asciugai io stesso. Indi uscito, si coricò nel suo letto e lo copersi colla sua coltre. Poiché fu riposato ed ebbe dormito qualche tempo, mi disse: — Principe, compiacetevi di portarmi un melone. Dei molti meloni che ci restavano scelsi il migliore e lo posi in un piatto; e siccome non trovava un coltello per tagliarlo, domandai al giovane se sapesse dove fossero. — Ve n’è uno — mi rispose — su questa cornice al di sopra della mia testa. Infatti lo vidi; mi affrettai talmente per prenderlo, che quando l’ebbi in mano, il mio piede s’inviluppò in modo tale nelle coltri ch’io caddi sventuratamente sul giovane, immergendogli il coltello nel cuore, ond’ei spirò all’istante. A tale spettacolo mandai un grido di dolore. Poscia alzando le mani e la testa al Cielo, esclamai: — Signore, vi domando perdono, e se sono colpevole della morte di questo giovine non mi lasciate vivere più a lungo! Nulladimeno, riflettendo non esser le mie lacrime capaci di far rivivere il giovine, e che sarei stato sorpreso da suo padre, uscii dal sotterraneo. |
Ferdinando
allora doppo la disgrazia successa, che fu un
destino, sortì fora dalla lapida, e lontan lontano
eccoti che vedde il solito barchettino nel mare, che
vieniva via insenza rembolare: lui lesto risale sul
frutto e ci si rimpiatta per bene. Il barchettino
arrivò alla spiaggia e smontano il vecchio co’ su’
dodici Mori; ma in nell’accorgersi della lapida
spalancata il vecchio s’insospettì. Chiama e
richiama, e nissuno gli arrispose; sicché scende in
nella buca, e, poero padre! ti vede il figliolo
morto con quella coltellata a traverso la gola. Urli
e pianti che nun finivan mai, nun ne mancorno: ma
finalmente, presano il morto, lo rinvoltorno con de’
panni e, messolo in nel barchettino, tutti piagnendo
se ne andiedano via. |
Vi era vicino al
sotterraneo un grand’albero, le cui fronde foltissime
mi parvero adatte a nascondermi; mi vi situai in modo
da non poter essere scoperto, ed aspettai gli eventi. Sbarcarono il vecchio e gli schiavi, e tosto si avanzarono verso il sotterraneo: alzarono la pietra e discesero. Chiamano il giovane per nome, ma non risponde; si raddoppia il loro timore: lo cercano e lo trovano finalmente sul letto col coltello in mezzo al cuore, non avendo io avuto il coraggio di cavarglielo. A tal vista ruppero in grida di dolore; il vecchio cadde svenuto; gli schiavi, per fargli prender aria, lo portano a piè dell’albero su cui mi trovavo. |
Ferdinando, affritto anco lui per il male che aveva fatto insenza la su’ volontà, quando il barchettino nun si scorgeva più, scese dal frutto per cercare se c’era un modo di nuscire da quell’isola disgraziata. Dunque si mettiede a girarla, e di lì a un po’ deccotelo in una macchia folta su per un colle, e verso il tramonto del sole s’avvede che un raggio sbacchiava dientro la porta d’un gran palazzo e la faceva tutta luccicare com’uno specchio. | Dopo la partenza del vecchio, degli schiavi e del naviglio, io restai solo. Passava la notte nel sotterraneo che non era stato coperto, ed il giorno camminava intorno all’isola. Dopo un mese di simile vita allorquando avvertii che il mare diminuiva considerevolmente, non rimanendo più tra il continente e me se non un picciol tratto d’acqua, tosto lo attraversai e scorsi in lontananza un gran fuoco. |
Ferdinando seguita a
montare e arriva a un prato, addove nel mezzo steva
quel palazzo; lui ci va e picchia forte, ma nissuno
rispondeva. Aspetta, aspetta, tutt’a un tratto sente
uno stropiccio di piedi; si volta e vede sette
signoroni che vienivano su su zitti zitti, e quando
gli furno vicini s’accorse che a ognuno di loro gli
mancava un occhio. Dice, doppo la debita riverenza: – Signori, son un povero naufragato ’n mare: vorre’ un po’ di ricovero.Di chi è questo palazzo? C’è egli modo d’albergarci per almanco una notte? Un di que’ sette gli arrispose: - Il palazzo è la nostra abitazione, ma nun ci pole stare nissun altro, perché nun ci sono che sette strapuntini per dormire, sette sgabelli per siedere, e il mangiare e bere è appunto per sette persone. Dice Ferdinando: – Come loro veggono, i’ sono nel caso di sapermi accomidare a ugni cosa. Mi faccian, via, la carità d’albergarmi. E quello de’ sette signori che aveva parlato, gli disse allora: – Se t’adatti, nentra pure. Ma però a un patto, che qualunque cosa che tu vegga, bada bene di nun domandar di nulla. |
Senonché
coll’approssimarmi, il mio errore si dissipò: invece
d’un fuoco era un castello di rame rosso. Mi assisi
vicino a quell’edifizio. Tosto vidi dieci giovani i
quali parea venissero dal passeggio; erano tutti
ciechi dall’occhio destro ed accompagnavano un uomo
d’alta statura. Mi si accostarono, manifestando il
contento che provavano nel vedermi, e domandandomi
qual motivo mi avesse ivi condotto. Si sedettero, ed io narrai ciò che m’era avvenuto dacché era uscito dal mio regno fin allora. Quand’ebbi terminato il mio discorso, quei giovani signori mi pregarono d’entrare con essi nel Castello, ed io accettai la loro offerta. Attraversammo un’infinità di sale, di anticamere e di gabinetti elegantemente mobigliati, e giungemmo in un gran salotto. — Camerata, sedetevi qui in mezzo su questo tappeto non informandovi di ciò che ci riguarda né tampoco della cagione per cui siamo tutti ciechi dell’occhio dritto: contentatevi di vedere, e non spingete più oltre la vostra curiosità. |
Con questo accordo
rientrano nel palazzo, e quando fu ora di cena i sette
signoroni diedano un zinzino delle loro pietanze a
Ferdinando, che siedeva a coccoloni per le terre, nun
c’essendo addove mettersi; loro doppo s’accostarno
attorno ’l foco, e tutti que’ sette ciechi pigliavan
la cenere a brancate e se la buttavano ’n capo,
urlando: – Per la nostra sciaura! per la nostra sciaura! Ferdinando nun potiede stare alle mosse con quello spettacolo e domandò: – Oh! perché fate voi codesto lavoro? Ma uno de’ ciechi, tutto ’ncattivito, arrispose: – Curiosaccio! nun ti s’è egli detto, che tu nun domandi di nulla? |
Il vecchio si alzò ed
uscì, ritornando colla cena per tutti. La mia storia era loro sembrata tanto straordinaria, che me la fecero ripetere al finir della cena, onde diede luogo ad una conversazione lunghissima. Poscia il vecchio si alzò, ed entrato in un gabinetto recò in testa dieci bacini l’uno dopo l’altro, tutti coperti di stoffa turchina,e ne pose uno con una fiaccola avanti ciascuno di quei giovani. Essi scoprirono il loro rispettivo bacino, nei quali vi era della cenere, del carbone polverizzato, e del nero fumo. Mescolarono tutte quelle sostanze e cominciarono a fregarsi e macchiarsi il viso, da far orrore a vederli. Dopo essersi tinti così, si posero a piangere ed a battersi la testa ed il petto gridando incessantemente: — Ecco il frutto del nostro ozio e della nostra sregolatezza! Il giorno appresso e l’altro ancora fecero lo stesso. Infine io non potei resistere alla mia curiosità, e li pregai seriamente di appagarla. Uno di loro mi rispose per tutti gli altri: — Se volete provare il nostro destino crudele, ditelo, e vi daremo la soddisfazione che domanderete. |
Poi andorno a letto, e
Ferdinando lo messano su delle foglie secche in uno
stanzino. A giorno, doppo che tutti eran levati e che culizionorno alla meglio, i sette signoroni scesano con Ferdinando a passeggiare nel selvatico. Dice allora Ferdinando: – Ditemi, per piacere, nun c’è egli modo di nuscire da quest’isola? Quel solito gli arrispose: – È difficile; ma pure, se tu ha’ dimolto coraggio, ti ci poteresti anco provare. E Ferdinando: – Eh! del coraggio i’ n’ho da vendere. Insegnatemi come si fa, e vo’ vedrete. – Ecco come si fa: – gli disse quel signore: – bisogna che tu ti rinvolti in una pelle di fiera e che tu ti metta sdraiato in quel vallone. A una cert’ora viene, un aquilone, ma grande, e a mala pena lei vede il fagotto, lo piglia e lo straporta di là dal mare. Ma bada, c’è il risico della vita. Dice Ferdinando: – Per ritornare a casa mia, lo credo! ne arrisicherei no una, ma anco dua delle vite. I’ farò come vo’ mi dite. |
Io risposi esser
preparato ad ogni avvenimento. Mi disse ancora che
quando io avessi perduto l’occhio non doveva più
sperare di rimanere con essi, supposto ch’io nutrissi
simile pensiero, perché il loro numero era compiuto. I dieci signori, vedendomi irremovibile nella mia risoluzione, presero un montone e lo scannarono; dopo avegli tolta la pelle, mi presentarono il coltello di cui s’erano serviti, dicendomi: — Prendete questo coltello, vi servirà. Noi vi cuciremo in questa pelle, indi un uccello di enorme grandezza chiamato Roc apparirà nell’aria e prendendovi per un montone piomberà su di voi vi alzerà e vi poserà sulla cima d’una montagna; allora mediante il coltello sbarazzatevi del vostro involucro, camminate finché non siate giunto ad un Castello tutto coperto di lamine d’oro di grossi smeraldi e di altre pietre preziose. Presentatevi alla porta ch’è sempre aperta, ed entrate. Noi siamo stati tutti in quel Castello; non vi diciamo nulla di ciò che abbiamo veduto, né di quel che ci è intervenuto, perché lo saprete da voi. |
Ecco dunque che Ferdinando si rinvolge dientro una pelle di bestia ben cucita e sdraioni aspetta l’uccello di rapina; e di lì a un po’ alla su’ ora comparse da lontano, e tanto era strasmisurato che pareva un ciuco; e a pena l’aquilone vedde la pelle rinfagottata, lui e’ la credé un animale. Fa una falcata, l’acciuffa e se la porta via per l’aria: passa il mare, passa le spiagge, passa i monti, e arrivo a un vallone fondo, l’uccellaccio cala giù e posa in terra Ferdinando e con le grinfie strappa la pelle con l’idea di mangiarlo; bensì quando vedde l’omo vivo lo lassò stare, riprese il volo e sparì. | Dopo tal discorso
m’inviluppai nella pelle di montone, e m’impadronii
del coltello; quei giovani si presero la pena di
cucirmivi dentro, mi lasciarono sul largo, e si
ritirarono nel loro salone. Il Roc, di cui mi avevano parlato, piombò su di me, mi prese fra gli artigli come un montone, e mi trasportò sulla sommità della montagna. |
Ferdinando allora si rizza e comincia a guardare in che logo lui era, abbeneché fusse mezzo sbalordito per lo strapazzo avuto; e dapprima nentra in una selva; poi, seguitando a salire, si trova in grandi praterie; poi vienivano delle vigne tutte cariche di grappoli maturi d’ugni sorta, e frutteti con alberi gremi di pere, di mele, d’aranci e che so io; alla fine arriva a de’ giardini, addove nun ci mancava nulla da desiderare, fiori, piante, vasche d’acqua, e ’n mezzo a que’ giardini ci si vedeva un palazzone maraviglioso. | Quando mi sentii a terra,
feci uso del coltello, e mi sbarazzai della pelle,
correndo diffilato al castello. L’uscio ne era aperto;
entrai in una corte quadrata e vastissima avente
intorno porte di legno di sandalo e di aloè, ed una
d’oro. |
Ferdinando va diviato
alla porta e picchia, e deccoti a aprire dua
bellissime ragazze; anzi, al chiasso ne corsano
dell’altre, sicché arrivorno per insino a quaranta. – Ben vienuto! Ben vienuto! Nentra, nentra, che c’è da rinfrescarsi. A quell’accoglienza Ferdinando rimase quasimente ringrullito, e gli pareva propio d’essere in un mondo novo. Va dunque assieme con le ragazze e loro lo menano in sala, e lì gli portano sorbetti e biscottini, e robbe bone da mangiare e da bere, e un mazzo di sigari per fummare a su’ piacimento; e tutte lo servivano a un modo, che era una festa. Satollato che lui fu e riavuto, le ragazze condussan Ferdinando al passeggio in ne’ giardini, e quando poi viense la notte ritornorno a casa in branco, ché la cena si trovava imbandita, con vini d’ugni qualità e nun ci mancava nulla. |
Scorsi di fronte una
porta aperta, per la quale entrai in un gran salone,
dove erano sedute quaranta donzelle di una bellezza
così perfetta da vincere l’immaginazione. Tostoché mi
videro, si alzarono tutte insieme, e senza aspettare i
miei complimenti mi dissero con grandi dimostrazioni
di gioia: — Bravo, signore, siate il benvenuto Dopo molta resistenza da parte mia mi sforzarono a sedermi in un posto un po’ più elevato del loro, e siccome io dimostrai di averne rincrescimento, esse mi dissero: — Questo è il vostro posto; da questo momento voi siete il nostro signore, il nostro padrone, il nostro giudice: e noi siamo vostre schiave, pronte a ricevere i vostri comandi. Una portò dell’acqua calda e mi lavò i piedi; un’altra mi versò dell’acqua odorifera sulle mani: le altre portarono tutto quanto era necessario per farmi mutar vestito, mi apprestarono una colazione magnifica. Io bevvi e mangiai, poscia feci un esteso racconto delle mie avventure a quelle belle donnine. Quando ebbi terminato di raccontare la mia storia alle quaranta donne, alcune di loro, sedute più a me dappresso, restarono per intrattenermi, mentre le altre si alzarono per andare in cerca di lumi; ne portarono tanti da uguagliare meravigliosamente la chiarezza del giorno. Altre donne apparecchiarono una tavola di frutta secche, di confetti e di bevande; altre ne guarnirono un’altra di molte specie di vini e liquori, ed altre infine comparvero con istrumenti musicali. Quando fu preparato m’invitarono a prender posto. |
A una cert’ora disse
quella che pareva la caporiona: – Gli è tempo d’andare a letto. Qui delle cirimonie nun se ne fanno, Ferdinando. Se tu vo’, sciegliti pure quala più ti garba di noialtre e menala a dormire con teco. Ferdinando nun intese a sordo; stese la mana a quella che lui aveva più vicina e la portò ’n camera; e, a farla corta, in quaranta notti dormì con tutte e quaranta le ragazze, e se mai se la godiede in quel tempo, i’ nun starò nemmanco a raccontarlo. |
Dopo la cena, i concerti
ed il ballo, una delle donne mi disse: — Voi siete stanco per il cammino fatto oggi; è tempo di riposarvi. Il vostro appartamento è preparato: ma prima di ritirarvi scegliete fra noi una che vi serva. Bisognò cedere alle loro istanze; presentai la mano alla donna che parlava per le altre: ella mi porse la sua e mi condusse in un magnifico appartamento. Così passò quella notte. Non aveva al mattino dopo appena terminato di vestirmi, quando le altre trentanove donne vennero nel mio appartamento, tutte adornate diversamente del giorno innanzi. Esse mi condussero al bagno ov’esse medesime, mio malgrado, mi rendettero tutti i servigi di cui avevo bisogno: e quando ne uscii, mi fecero prendere un altro abito assai più magnifico del primo. Passammo il giorno quasi sempre a tavola: e quando fu venuta l’ora del riposo mi pregarono di far lo stesso dell’antecedente giorno. Infine, passai un intero anno in quel modo. |
Vienuto il quarantesimo
giorno, doppo culizione, disse la caporiona: – Ferdinando, no’ s’ha per uso di fare tutt’assieme e da noi sole un viaggio di cento giorni ugni quarantina; sicché no’ ti si lassa padrone spotico del palazzo, e bada di guardarcelo bene insino a tanto che si torna. Decco, quest’è un mazzo di cento chiavi e aprono cento quartieri: girali pure tutti, visitali a uno a uno e divertiti, ché da vedere c’è dimolte cose. Poi, detti gli addii, Ferdinando accompagnò le ragazze alla porta del palazzo e quelle partirno; ma arrive in fondo a’ giardini, una ne tornò addietro con in mano una chiavina d’argento, e disse a Ferdinando: – Ci s’era scorde di consegnarti anco questa chiavina. Bada però di nun aprire con questa nissuna porta, perché se tu apri la porta di questa chiavina, tu ti poteressi pentire tardi della tu’ curiosità. Statti dunque in sugli avvisi, se ti preme il ben vivere. – Che, che! Nun dubitate di nulla, – scrama Ferdinando; e la ragazza raggiunse le su’ compagne, e tutte a poco a poco nun si veddan più in que’ loghi. |
Alla fine dell’anno le
quaranta donne entrarono nel mio appartamento colle
guancie bagnate di pianto. Vennero ad abbracciarmi
teneramente l’una dopo l’altra, e mi dissero: — Addio, caro Principe, addio! Bisogna abbandonarvi. Le loro lacrime m’intenerirono: ed io le pregai a dirmi la cagione del loro dolore, e della separazione di cui mi parlavano. — Ahi! — disposero — qual altra cagione sarebbe capace di affliggerci, se non quella di separarci da voi? Forse non vi rivedremo mai più! Se intanto voi volete, ed avete perciò potere abbastanza su voi, non sarebbe impossibile di ricongiungerci. — Donne — ripresi — non comprendo nulla di ciò che dite; vi prego di parlarmi più chiaro. — Ebbene, — disse una di loro — per soddisfarvi vi diremo che siamo tutte Principesse, figliuole di Re. Viviamo qui insieme colla letizia che avete veduto: ma alla fine d’ogni anno siamo obligate di allontanarci per quaranta giorni, onde soddisfare a certi doveri indispensabili, che non ci è permesso rivelare; dopo ritorniamo in questo castello. L’anno finì ieri: bisogna oggi lasciarvi: è questa la cagione della nostra afflizione. Prima diuscire vi lasceremo le chiavi d’ogni cosa. Ma per nostro bene e per nostro comune interesse vi raccomandiamo di non aprire la porta d’oro: se l’aprirete non vi vedremo mai più! Il discorso di quelle vaghe Principesse mi diede molta pena. |
Dunque Ferdinando restato
padrone spotico del palazzo, ugni giorno ’gli andeva a
visitarne uno de’ quartieri e passava il su’ tempo
spassandosi con tutte quelle maraviglie che c’erano
dientro; vienuta poi la mattina del centunesimo giorno
lo chiappò la tentazione del curioso: "Ma questa
chiavina d’argento che porta mai aprirà? Oh! che vi
pol esser serrato in questo logo proibito da far paura
a me?" Con di tali pensieri Ferdinando gironzolava a caso per il palazzo, quando, per su’ disgrazia, diede del naso a un posto che nun aveva prima visto in nel cortile, e lì c’era una porticina tutta d’argento. Scrama: – Bada, veh! Eppure la chiavina ’gli è di quest’usciolo. Provo, o nun provo? – e intanto mette la chiavina in nel buco della toppa; gira e il serrarne si spalanca. |
I nostri addii furono
tenerissimi, io le abbracciai una dopo l’altra; esse
partirono ed io restai solo nel Castello. Fui
vivamente afflitto della loro partenza e quantunque la
loro lontananza non dovesse essere che di quaranta
giorni mi parve di dover passare un secolo senza di
esse. Io mi riprometteva di non dimenticare l’avvertimento importante, di non aprir cioè la porta d’oro; ma siccome, salvo quell’eccezione, mi era permesso di soddisfare la mia curiosità, presi, secondo l’ordine in cui eran messe, la prima chiave delle altre porte. Apersi la prima ed entrai in un giardino fruttifero, al quale credo nessun altro al mondo possa paragonarsi: e penso che quello il quale ci vien promesso dopomorte dalla nostra religione, non possa sorpassarlo. La simmetria, l’eleganza, la disposizione ammirabile degli alberi, l’abbondanza e la diversità dei frutti di mille specie sconosciute, la loro freschezza, la loro bellezza, tutto rapiva la mia vista. Uscii coll’animo pieno di quelle meraviglie, chiusi la porta ed apersi quella che veniva dopo. Invece d’uno di frutti ne trovai uno di fiori, che non era men singolare nel suo genere. Io non mi arresterò a farvi la narrazione di tutte le cose rare che vidi ne’ giorni seguenti; ma vi dirò soltanto che non mi bastarono meno di trentanove giorni per aprire le novantanove porte ed ammirar tutto ciò che si offerse alla mia vista. |
Lì per lì Ferdinando
stiede in sul peritoso di aver fatto male, ma oramai
la porticina era bell’e aperta, sicché lui nentra
dientro e vede una stalla con un cavallino baio, che
pareva tutt’allegro della visita. Ferdinando
s’accosta, accarezza l’animale in sulla groppa, e
l’animale bono; in quel mentre volta l’occhio e sur un
trespolo s’accorge che ci steva una briglia, una sella
e un frustino; subbito dice fra sé: – Oh! che guasto sarà egli s’i’ monto a cavallo e vo’ a riscontrare le mi’ ragazze, che devon orora ricapitar qui? |
Giunto già al
quarantasettesimo giorno dopo la partenza delle
principesse se avessi potuto quel giorno conservare su
me il debito potere sarei oggi il più felice di tutti
gli uomini, invece di esserne il più sventurato: ma
per una debolezza di cui non cesserò mai di pentirmi,
soccombetti alla tentazione del demonio, aprii la
porta fatale, trovai un vasto luogo a vòlta; molti
candellieri d’oro massiccio, aventi lumi accesi che
mandavano un odore d’aloè e d’ambra grigia, servivano
di luce: fra un numero molto grande di oggetti che
attiravano la mia curiosità scopersi un cavallo nero.
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Detto fatto; lui sella il cavallino, gli passa la briglia al collo, piglia il frustino e su d’un salto. Ma a male brighe accomido, deccoti un gran fracasso; si spalanca d’un tratto un finestrone propio nel muro, la bestia tira fori du’ ale strasmisurate, e via per l’aria a volo con Ferdinando addosso. Tutto ’mpaurito, Ferdinando s’attieneva con le mane alla criniera dell’animale; e quello passa i monti, passa le spiagge, passa il mare, e vienuto finalmente all’isola deserta medesima indove Ferdinando ’gli era naufragato, lo porta addirittura al palazzo de’ sette signoroni mezzo ciechi, e lì, tonfete! Dà uno scossone, lo strabalza di sella e in nel voltarsi per andarsene con una codata gli cava netto un occhio. | Mi ci appressai per
considerarlo, e trovai che aveva una sella ed una
briglia d’oro massiccio. Lo presi per la briglia e lo
trassi fuori. Montai su, e volli farlo camminare: ma
siccome non si muoveva, lo percossi con uno scudiscio
che avevo preso nella magnifica scuderia. Appena
intese il colpo si pose a nitrire con orribile
strepito; poi spiegando due ali, di cui non mi era
accorto, si levò nell’aria. Ripreso indi il suo volo
verso terra si pose sul torrazzo d’un castello, ove
senza darmi tempo di metter piede a terra, mi scosse
così violentemente, che mi fece cadere indietro, e
coll’estremità della sua coda mi cavò l’occhio dritto. |
Agli urli di Ferdinando
corsano i sette signoroni, e quando lo veddano a quel
mo’ concio, un di loro gli disse: – Ora tu po’ nentrare liberamente. C’è lo strapuntino, c’è lo sgabello, e da mangiare e da bere anco per te. La sera te pure ti scalderai al cammino e buttandoti la cenere in sul capo, ti converrà come noi dire: "Per la nostra sciaura! Per la nostra sciaura!" Questa ’gli è la pena de’ curiosi, che nun sanno tiener di conto del bene acquistato. |
Ecco in qual modo son
divenuto cieco. Il cavallo riprese il suo volo e
disparve. Camminai sul terrazzo colla mano all’occhio, che molto mi doleva, e disceso mi trovai in un salone che dai dieci sofà ch’erano in giro, fecemi conoscere che era il Castello donde ero stato tratto dal Roc. I dieci giovani ciechi non erano nel salone; ond’io li aspettai finché poco tempo dopo giunsero col vecchio. Essi m’insegnarono la via che doveva tenere e mi separai da loro. |
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IL FIGLIOLO
DEL RE DI FRANCIA |
Gherardo
Nerucci, Sessanta novelle
popolari montalesi (Circondario
di Pistoia); Firenze: Successori Le Monnier,
1880. Ristampa anastatica con introduzione
e note di Roberto Fedi; Milano: Biblioteca
Universale Rizzoli 1977. Novella IX (Raccontata
da Giovanni Becheroni contadino), pp. 70-76. Versione online: https://www.liberliber.it/mediateca/libri/n/nerucci/sessanta_novelle_popolari _montalesi/pdf/sessan_p.pdf; pp. 74-81 |
STORIA DEL TERZO MONOCOLO |
"Storia del terzo monocolo - calender", Le
mille e una notte : novelle arabe. Milano: Bietti
1934. Pp. 157-171 https://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/mille_e_una_notte/le_mille_e_una_notte_novelle_arabe/pdf/le_mille_e_una_notte.pdf; ultimo accesso: 26 maggio 2021 Novelle arabe divise in mille e una notte. Tradotte in francese e dal francese nel volgare italiano. In Venezia: per Sebastiano Coleti 1722 [tomo duodecimo, ed ultimo; https://books.google.it/books?id=7MRIe24B59QC&pg=PA197&source=gbs_toc_r&hl=it&pli=1#v=onepage&q&f=false] ultimo accesso: 26 maggio 2021 |
GHERARDO NERUCCI |
Discendente da una nobile famiglia
pistoiese, Gherardo Nerucci fu patriota, partecipando
ai moti del 1848 (combattente a Curtatone e
Montanara), e alla sollevazione contro Canapone, il
Granduca Leopoldo II. Avvocato, insegnante, uomo di
grande cultura, fu in contatto con i maggiori studiosi
del suo tempo, ma non ebbe molti riconoscimenti
ufficiali. |
___________________________________________ NOTA |
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Apparì
lontan lontano un barchettino, che vieniva via più
lesto d’una saetta... (Il figliolo del Re
di Francia) Scopersi un piccolo bastimento che veniva a gonfie vele verso l’isola. (Storia del terzo monocolo) |
Si sono scelte Le
mille e una notte tradotte in italiano nel 1934
per la loro disponibilità online; sono abbastanza fedeli
alle Mille et une nuits di Antoine Galland da
consentire una interessante comparazione fra la novella
narrata da Giovanni Becheroni contadino e la storia del
terzo principe cieco da un occhio, parte della "Storia
delle Tre dame", presente fin dai manoscritti
trecenteschi della raccolta araba, presente in tutte le
principali traduzioni. La somiglianza è tale che il contadino Giovanni Becheroni poteva conoscerla piuttosto bene. Facilmente rilevabile comunque è il passaggio dalla colta favolistica araba alla fiaba popolare toscana. Si tratta di uno degli innumerevoli scambi fra tradizione colta e popolare. |