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GIOVANNI SERCAMBI

IL NOVELLIERE
1399-1400


DE INGENIO MULIERIS ADULTERA
  ADALINDA  GASPARINI       PSICOANALISI E FAVOLE


Fu in Napoli al tempo del vecchio re, cioè dello re Manfredi, uno cavalieri nomato Astulfo, il quale avendo una sua donna bellissima e gentile nomata madonna Lagrinta, la quale dopo molto stare col marito e di lui prendendo quel piacere che donna di marito prender si possa, in tanto che a ciascuno di lor parea essere in secondo paradiso, e cosi dimorando, divenne che più volte trovatasi la ditta donna a sollazzo a certi giardini con alquante donne e baroni, dopo molto sollazzare, come più volte è addivenuto, la ditta madonna Lagrinta s’infiammò d’amore d'uno scudieri assai della persona da poco a rispetto del marito, nominato Nieri, per lo quale amore, dopo molte danze e canti, preso ardimento la ditta donna di parlare a Nieri, sua intenzione narrandogli, l'amore ch'ella avea preso di lui, e dopo alle presenti parole Nieri acconsentìo a tuttociò che la ditta donna gli richiese. E dato l'ordine di trovarsi insieme quine, u' si presono piacere e diletto, per le quali cose l’uno e l’altro si teneano assai contenti. E perchè le cose non si puonno sì strette fare che a luce non vegnano, un giorno il ditto messer Astulfo oltra l'usato modo per alcuno accidente si partìo di corte, et a casa, dov'è la donna, tornando se ne andò. E non avendo la donna pensieri che il marito tornasse, lassati aperti usci e porte, essendo in nel letto con Nieri dandosi piacere, sopravvenne messer Astulfo, et in camera entrato, trovò la moglie con Nieri in nel letto, e tutto spaventato, vedendo la moglie avergli fallito, e' di dolore quasi tramortì. Nieri, che hae veduto messer Astulfo, subito gittatosi fuori del letto e quanto poteo dato a fuggire, messer Astulfo, come savio, disse: Donna, tu hai troppo fallito ad avermi vituperato et ora il fallo che fare vuoi sere' maggiore volendo fuggire; e pertanto ti dico che a me hai fatto quello che giammai contento non debbo essere, e però ti dico che giammai meco non dèi usare, fino che altro non sento di te che sia bastevole al fallo fatto. E così di casa partissi tutto malinconoso et a corte tornò, e di quine pensonne partirsi, nè mai alla sua donna tornare. Lo re Manfredi, che ’l vede si malinconoso, disse più volte che era la cagione che sì malinconoso stava. Messer Astulfo, fingendo, gli dicea or una cosa or un’altra, e del fallo della moglie niente dicea. E dimorati alquanti mesi in tal maniera, essendo un dì per malinconia posto a uno portico della sua camera del palazzo del re, e pensando sopra di quello che la donna sua fatto gli avea, venendogli alcuna volta pensieri d’ucciderla et alcuna volta di disperare se tanto dolore gli abbondava, e stando sopra tali pensieri, vide uno cattivello, che andava col culo in nel catino, accostarsi alla porta del palagio di madonna Fiammetta reina e moglie del re Manfredi, e collo scannello picchiava la porta di tal palagio. E dopo molto  picchiare, la reina venne alla porta, e quella aprìo, di che quello giovano, che in nel catino sedea, gittando lo scannello, percosse in nel petto della reina, dicendole villania, che tanto avea posto ad aprire. La reina, scusandosi che più tosto a lui non era potuta venire, colle braccia prese quello giovano et in casa lo tirò, e cavatogli lo catino, in quello spazzo si lassò caricare. E stato alquanto in tal maniera, racconciatogli il catino e datogli de’ confetti e beuto, lo rimisse fuori di casa. Messer Astulfo, che tutto ha veduto, cominciò a rallegrarsi, chè in fine a quel punto era stato molto malinconoso, dicendo: Ornai non mi vo’ disperare se la donna mia m’ha cambiato a uno scudieri, poiché io ho veduto la reina aver cambiato lo re in uno gaglioffo che va col culo in nel catino; e pensò pigliarsi vita e buon tempo, nè mai più di tal fallo malinconoso stare. E partitosi da quel luogo, se n’andò in corte, dove con piacere e sollazzo danzando e cantando cominciò, per la qual cosa lo re Manfredi, vedendo l'allegrezza che messer Astulfo di nuovo si prendea, considerata la malinconia che veduta gli avea, lo dimandò dicendogli come potea essere che da tanta malinconia, quanta era stata la sua tanto tempo, in sì piccola ora s’era mutata in tanta allegrezza, stringendolo che la cagione e ’l perchè gli dovesse narrare. Messer Astulfo, volendo celare, si fingea or d’una cosa or d’un’altra. Lo re, cognoscendo le scuse non essere sofficienti a tale atto, gli disse: Per certo, messer Astulfo, se non mi dite la verità, voi cadrete dell’amore che io vi porto, e sempre per poco mio amico vi terrò, se di tal fatto non m'aprite l'uscio della verità. Messer Astulfo, udendo tal parlare, fra sè medesimo dicea: Se io celo la cosa, io verrò in dispetto di colui che più che mai amo, e se appaleso il fatto, dirò la vergogna che la reina gli ha fatto e potrenne morire. E stando in tal pensieri, diliberò con un onesto modo narrare tutto, e preso licenzia di parlare, e chiesto perdono se contra di lui o de’ suoi cose dicesse, benché bene lo re gli disse: Di' arditamente, che tutto ciò che dirai da me perdonato serà, nè mai per tal ditto te ne serà fatto se non bene; messer Astulfo, avuto licenzia di parlare, disse: Messer lo re, poichè così desideraste, io vi dirò tutte le cagioni di parte in parte, ma perchè queste cose seranno di lunga materia, vi prego vi piaccia che altri che voi et io a tal pratica non debbia essere. Lo re contento si trasse in una camera, dove non volse che altri che lui e messer Astulfo fosse, e tutta brigata di fuori rimase. E serrata la camera, messer Astulfo cominciò a narrare il vituperio che la sua donna gli avea prima fatto, e che trovata l’avea in nel letto con Nieri scudieri, e che di tal fallo prese tanta malinconia, che più volte ho disposto di vendicarmi per non volere tanto vituperio vedermi innanti, e molti altri pensieri istrani mi sono venuti in nella mente, e quest’è la cagione che fine a qui hoe avuto malinconia. E stando io in tali pensieri in sul portico della mia camera del vostro palagio, vidi venire uno gaglioffo, il quale, perchè attratto è, va col culo in nel catino. E’ venne all’uscio del palagio di madonna reina e collo scannello più e più volte picchiò, e stando alquanto, vidi venire madonna reina et apre la porta. Lo gaglioffo, dicendole villania, le gittò quello scannello che in mano tenea per lo petto, dicendo: Quanto se' stata ad aprire! La reina, scusandosi che più tosto non era potuta venire, aperte le braccia, quello prese et in casa lo tirò, et in mia presenza, chè tutto io vedea, gli levò lo catino e di sopra sel misse e tale atto le vidi fare. E stato alquanto, arrecò alcune confezioni, e bevuto, gli racconciò il catino, e di fuori n’andò. E penso, poiché così liberamente venne con tener tali modi, che più tempo sia che tale mestieri colla reina fatto abbia, per la qual cosa stimando io in me medesmo a cui la reina v’ha cambiato, cominciai a pensare che maggiore cattività fusse quella della reina per un male, che quello che la donna mia m’na fatto, perocché la vostra persona vale centomila pari di colui, a chi la reina v’ha cambiato, et io non vaglio molto più che Nieri; e pertanto dispuosi a darmi piacere e più non prendere malinconia, e questa è la cagione che ora di nuovo mi sono rallegrato. Lo re, sentendo tale novella, disse: Per certo, se così è come dici, ti dico che hai ragione di stare allegro, et io di stare malinconoso, benché a me in nell’animo capire non può che la reina sia stata tanto matta, che a tale atto sia divenuta, e se fusse vero, mai allegrezza non debbo sentire. Messer Astulfo dice: Per certo ve ne accerto essere ver , ma ben vi dico che a me increscie che costretto m ’abbiate a dovervi narrare questo fatto. Lo re dice: Come avanti ti dissi, così ora ti raffermo, che se mai ti volsi bene, ora te ne vo' per un cento; ma ben ti vo’ pregare che di tal cosa mi facci certo, acciocchè io possa a' neri pensieri metter rimedio. Messer Astulfo disse: Io penso al certo farvelo vedere per modo, che certo ne sarete. E diliberò che quine, a quell’ora che la reina aprisse l’uscio, lo re fusse con lui in sul portico. Lo re disse che gli piacea; e partiti di camera, ciascuno se n'andò con quelle che avea colte. Messer Astulfo, stato alquanti dì nascosto, un giorno di festa vide venire quello gaglioffo. Subito andato per lo re, lo re venuto, vide colui che l’uscio collo scannello picchiava, e che la reina era alquanto dilungata dalla porta, non udendo sì presto, più e più volte colui picchiò; ultimamente la reina in una giubba venne, l’uscio aperse, lo gaglioffo con ira gittò lo scannello per darle nella faccia, e dato l’are’, se non che la reina schifò il colpo, dicendole: Puttana, che hai fatto a venire? Ella timorosamente in braccio lo prese e dentro lo misse, e fatto come messer Astulfo ditto avea in presenza del re, poi misselo fuori. Lo re, che tutto hae veduto, disse: Per certo, Astulfo, io sono diliberato non volere più vivere al mondo, e vo’ che tu et io ci partiamo di questo luogo et a persona non lo facciamo assapero, e pigliamo dell’argento assai per ispendere, e scognosciuti a piedi senz’altra compagnia ci partiamo, con intenzione di mai ritornare fine che qualche avventura non ci viene alle mani, che ci faccia certi del nostro ritorno. Messer Astulfo disse che volentieri si partire' dalla moglie, se a lui piacesse, e con lui andare’. Lo re, disposto a partirsi, senza altro dire, presi molti dinari, secretamente si partirono, e caminarono verso Toscana per là passare tempo. E giunti che funno in nel contado di Firenza, in una villa chiamata Peretola, dimandando del camino per andare in verso Pisa, fu loro contato che la via di Empoli era buono camino, e poi da Samminiato, e di quine, se a Lucca volessero essere, lo camino era per la Cerbaia, e da Lucca a Pisa ha dieci piccole miglia. Costoro, inteso lo camino, tosto si partiro da Peretola e vennero verso Samminiato, dove fu loro contato che Lucca era piccola terra et assai ben posta e piena di gran mercadanti e divota di molti santi. Lo re e il compagno, diliberati di venire a Lucca, passonno da santa Gonda a santa Croce, e poi lo Serchio, dirizzandosi verso la Cerbaia, et essendo del mese di luglio gran caldo, come funno giunti in un bel oraggio et ombrina, dove è una dilettevole acqua, si puoseno per lo caldo a riposo. E mentre in tale maniera stavano, videno verso Lucca per la Cerbaia venire uno, il quale in collo avea una gran cassa di molto peso, venendo assai agiatamente. E come fu presso al luogo dove ’l re e lo compagno erano a una arcata, di liberò lo re nascondersi lungi da quell’acqua , per vedere qual camino quell’uomo fare vorrà. E come diliberò misse in effetto, che lui e ’l compagno si partirono da quell’acqua et in un boschetto si missero in ascoso. Venuto colui colla cassa dov’era quello rezzo et quella bella acqua, avendo molto sudato, sì per lo caldo grande, sì per lo caminare, sì per lo peso grande, si misse quine a riposo, e posto giù leggermente la cassa, e trattosi dalla scarsella una chiave, aperse la cassa, e di quella uscio fuori una bellissima giovana d’età d’anni vinti, et allato a lui se la fe’ puonere a sedere, e tratto del pane e della carne et un fiasco di vino della ditta cassa, in santa carità cominciorono a mangiare. E come ebbeno mangiato, essendo in sulla nona, il ditto posando il capo in grembo a quella giovana, cominciò a dormire, et a sornacchiare forte. Lo re e ’l compagno, che tutto hanno veduto e vedono, diliberarono, sentendo sornacchiare colui, d’appalesarsi a quella giovana, chè gran bisogno aveano d’una sua pari, perocché, poi che partiti s’erano, con neuna s’erano accostati. E fattosi alquanto fuora del boschetto, e facendo amicchi alla giovana che a loro andasse, la giovana, come li vide, parendo a lei omini d’assai, piano piano sotto il capo al marito misse il fiasco e lei di sotto gli uscio, et andò al re et al compagno, dove fu la bene ricevuta, che dal re e dal compagno quattro volte fu contenta. La giovana, lieta di sì buona ventura che gli era venuta, loda Iddio e coloro che sì l’hanno fatta contenta. Lo re dimandò chi ella fusse e d’onde, e chi era colui che sopra le spalle in nella cassa la portava, e la cagione. La giovana dice: Io sono chiamata la Savia da Siena, e sono moglie di colui che là dorme, il quale ha nome Arnulfo senese, e la cagione perchè mi porta a questo modo si è per la gelosia che lui hae di me, che io non abbia a fare con altro omo che co’ lui. [E però] ha diliberato patire questa pena ogni volta che di fuori di Siena vada per alcune mercanzie, e quando siamo a Siena, sempre mi fa stare in una camera terrestra, in nella quale non ha uscio nè finestre, se non graticolate di ferro e molto alte, et in quella camera non si può [entrare] se non per una cateratta ch’è di sopra in nel solaro, in sul quale lui fa il suo mestieri di dìe e di notte. Quella apre e chiude là dentro con una chiave e viene a me, e quine si dorme fine a dì e questo modo tiene di continuo. Ma la natura m'ha dotata me e l’altre di Siena, che a tali rimedi  troviamo modo, che io hoe fatto [per] terra, dove io tegno il mio letto, una cava tanto addentro, che di fuori dalla casa riescie, e per quella ogni dì a mio diletto metto or uno or un altro, e talora vado a diportarmi con altri. E per questo modo mi do piacere e lasso il pensieri a Arnulfo mio marito e la malinconia, et io mi prendo sollazzo e diporto, non guardando a sua gelosia. Lo re, che ha udito il modo che ’l marito tiene di costei, et ha sentito che ella si fa chiamare la Savia, dice al compagno: Costei ci arà tanto insegnato, che con buona scienzia a casa potremo ritornare. E parendo tempo alla giovana dover al marito tornare, disse al re et al compagno, se le sue cose piacea loro, che di grazia ciascuno coglia una meluzza del suo giardino. Lo re, udendo sì piacevolmente profferire, colse una meluzza, et una ne colse il compagno, e per ricompensazione del buono servizio lo re gli donò un bellissimo anello di grande valuta. Lei, come ammaestrata, cognosce il gioiello, pensò costoro essere di grande stato, e accomandolli a Dio. Ritornò dove il marito giacea, e svegliatolo, facendo vista d’essere con lui stata, disse: Deh, quanto m’hai dato carico in sulle coscio! Lo marito, presala, in nella cassa messala, e chiusa la cassa colla chiave, in collo se la misse e caminò verso Siena. Lo re Manfredi, avendo tutto veduto e sentito, disse: Messer Astulfo, omai non è d’andare più tapinando per lo mondo, considerando che costei ci ha dato ammaestramento che la femmina guardare non si può che non fallisca, posto che alcuni belli tratti loro si tolta, nientedimeno a conclusione ultimamente fanno la loro volontà. E pertanto ti dico che a Napoli ritorniamo e con onesto modo le donne nostre castighiamo, nè mai malinconia di tal fatto prendiamo. E così disposti, a Napoli tornaro, dove ciascuno con bel modo la moglie castigòe.




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RIFERIMENTI E NOTE



Testo Novelle inedite di Giovanni Sercambi, tratte dal Codice trivulziano CXCIII per cura di Rodolfo Renier. Torino: Ermanno Loescher. Firenze Roma 1889. Dedicato a Alessandro D'Ancona. pp. 294-299

Online: Giovanni Sercambi, Il Novelliere. Testo restaurato. Bolzano 2017.
https://www.mori.bz.it/Rinascimento/Sercambi.pdf. Ultimo accesso 11 aprile 2024
La storia cornice delle Mille e una notte arabe
La circolazione della raccolta araba, che non aveva un finale e comprendeva circa duecento notti di racconti, aveva come antefatto la storia dei due re fratelli che scoprendo il tradimento delle loro spose vanno per il mondo per capire se è legittimo regnare avendo subito tale onta. Vedi il file dedicato alla cornice delle Mille e una notte ASAP. 
Ludovico Ariosto, Orlando furioso
Canto XXVIII
La storia dei due re traditi, che dopo aver vagato per il mondo per il dispiacere d'esser stati traditi dalle loro spose, che credevano fedeli, con uomini da meno di loro - la moglie di un nobile suddito con un suo servitore, la regina con un nano - occupa buona parte del XXVIII canto. È la storia che un oste racconta a Rodomonte malinconico per l'infedeltà della sua amata. Racconta del bellissimo Astolfo, re dei Longobardi, che pensando di essere l'uomo più bello del suo tempo seppe che il fratello d'un cavaliere romano della sua corte era più bello di lui. Allora volle che venisse a visitarlo per confrontarsi con lui. Il cavaliere, di nome Iocondo, dopo essersi separato dalla sposa che soffre tanto per questa sua partenza da dirgli che probabilmente al suo ritorno la troverà morta, si toglie un gioiello dal collo e lo dà a lui:

Dal collo un suo monile ella si sciolse,
ch'una crocetta avea ricca di gemme,
e di sante reliquie che raccolse
in molti luoghi un peregrin boemme;

Iocondo parte ma presto si accorge di aver dimenticato la crocetta sotto il cuscino e torna a prenderla. Trova la moglie addormentata, ma nel letto con lei c'è un giovane garzone. Disperato riparte senza cedere all'impulso di ucciderli entrambi, ma deperisce, tanto che quando giunge alla corte di Astolfo nessuno lo potrebbe considerare più bello del re. 

online dal 10 aprile
2024