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Regnavano un tempo nel prosperoso reame di
Serradifalco un re potente e una bella regina
che avevano un solo figlio, il giovane principe
Guerrino. Il re amava molto la caccia, nella quale
eccelleva per forza e abilità, e un giorno che si
trovava a una battuta con i suoi baroni e cavalieri
vide uscire da una fitto bosco un uomo selvatico
grande e grosso, brutto e mostruoso, che mostrava
una forza straordinaria, e tutti
rimasero a guardarlo pieni di meraviglia. Il re
chiamò accanto a sé i suoi due migliori cavalieri e
dopo un lungo combattimento riuscì a catturarlo, lo
legò e lo portò a palazzo, dove lo chiuse a chiave in
una stanza sicura, ordinando che non gli facessero
mancare nulla. Siccome il re teneva all'uomo selvatico più che a ogni altra cosa, diede le chiavi della sua prigione alla regina perché le custodisse, e non passava giorno senza che andasse a guardarlo con grande piacere. Dopo poco tempo il re ebbe di nuovo voglia di andare a caccia, e quando tutto fu pronto partì con i suoi baroni e cavalieri, non senza aver raccomandato alla regina quelle chiavi. Mentre il re era a caccia Guerrino sentì un gran desiderio di vedere l'uomo selvatico, e ci andò da solo con un arco e una freccia d'oro che amava molto. Accanto alla grata della prigione vide il mostro, e tenendo fra le mani la freccia finemente lavorata si mise a ragionare con lui come con un compagno. L'uomo selvatico parlando lo carezzava e gli faceva tanti complimenti, ma d'un tratto con una mossa improvvisa gli prese la freccia d'oro. Guerrino si mise a piangere a dirotto e fra le lacrime chiedeva all'uomo selvatico che gli rendesse la sua freccia, finché a un certo punto lui disse: "Se mi vuoi aprire e rendere la libertà ti renderò la tua freccia, altrimenti non la riavrai mai più". Il fanciullo allora gli rispose: "Ma come posso aprirti e liberarti, se non so come fare?"; e il mostro: "Se tu volessi davvero sciogliermi e farmi uscire da questa stretta prigione, io ti insegnerei subito il modo di farlo". "Ma come?", disse Guerrino, "dimmi in che modo!", e l'uomo selvatico gli insegnò: "Va' dalla regina tua madre, e se la troverai addormentata guarda attentamente sotto il guanciale sul quale posa il capo, e piano piano, perché non ti senta, rubale le chiavi della prigione, portale qui e aprimi: appena mi avrai aperto ti restituirò la freccia, e forse un giorno potrò ricompensarti ancora per la libertà che mi rendi". Guerrino, tutto desideroso della sua freccia d'oro, non stette tanto a pensarci, corse dalla madre che riposava tranquilla, le tolse piano piano le chiavi, e con quelle tornò dall'uomo selvatico, dicendogli: "Ecco le chiavi. Se io ti libero di qui, va' tanto lontano che di te non si senta più nemmeno l'odore, perché se mio padre, che è gran maestro di cacce, ti riprendesse, facilmente ti farebbe uccidere". "Non dubitare, bambino mio," disse l'uomo selvatico, "appena mi avrai aperto la prigione e sarò libero ti darò la freccia d'oro, e andrò tanto lontano che né tuo padre né chiunque altro mi troverà più". Guerrino impegnandosi con tutte le sue forze riuscì ad aprire la prigione, e l'uomo selvatico, dopo avergli reso la freccia e averlo ringraziato, se ne andò. Bisogna sapere che l'uomo selvatico era stato un giovane bellissimo, che non era riuscito a conquistare la fanciulla che amava, e per la disperazione del suo cuore era fuggito lontano da tutti ed era andato a vivere nei boschi tra gli animali selvaggi, nutrendosi di erbe e dissetandosi alle fonti insieme alle belve. Così dopo un po' di tempo il pelo del povero giovane era aumentato e si era fatto ispido, la pelle gli si era indurita, mentre la barba folta era cresciuta moltissimo e come i peli e i capelli era diventata verde come l'erba che mangiava, dandogli l'aspetto di un mostro. Intanto la regina svegliandosi mise le mani sotto il guanciale per prendere le chiavi che teneva sempre con sé, e non trovandole non capiva cosa fosse successo, rivoltò le lenzuola, le coperte, i materassi, ma inutilmente, poi correndo come impazzita alla prigione trovò la porta spalancata e non vide più l'uomo selvatico. Si sentì morire dal dolore, e correva per il palazzo da una stanza all'altra, domandando a tutti quelli che incontrava chi era stato quel temerario incosciente che aveva osato prendere le chiavi della prigione a sua insaputa. E quando Guerrino incontrò sua madre e la vide così infuriata, disse: "Madre mia, non dare a nessuno la colpa per l'apertura della prigione, se c'è qualcuno che deve essere punito, quello sono io, perché io da solo l'ho aperta". La regina allora si addolorò ancora di più, temendo che il re quando tornava dalla caccia sarebbe andato in collera al punto di uccidere Guerrino, perché le aveva raccomandato quelle chiavi come dandole in custodia il suo cuore. Così la regina, credendo di evitare un guaio, ne combinò uno molto più grande, perché senza aspettare neanche un momento chiamò due servitori fedelissimi, affidò loro suo figlio e dopo averli forniti di molte pietre preziose, gioielli, denari e cavalli bellissimi li fece partire, pregandoli di aver sempre cura del principe Guerrino. Dopo poco tornò il re dalla caccia, appena fu a palazzo andò alla prigione dell'uomo selvatico, vide la porta aperta e capì che era fuggito, e subito fu preso da una collera terribile e decise di uccidere chi lo aveva fatto scappare. Andò dalla regina che era seduta tutta triste nella sua camera, e le domandò chi era stato così sfacciato, arrogante e temerario da aprire la prigione e far fuggire il mostro. La regina con un filo di voce tremante gli rispose: "Calmati, mio signore, nostro figlio mi ha confessato di essere stato lui", poi gli raccontò tutto quello che aveva fatto Guerrino, e il re si arrabbiò molto. Allora la regina continuò dicendo che per paura che lo uccidesse lo aveva fatto partire per terre lontane accompagnato da due servitori fidati, ben forniti di gioielli e denari per le necessità del viaggio. Al povero re queste parole raddoppiarono il dolore, e per poco non cadde a terra e non impazzì per la disperazione, se non lo avessero fermato i suoi baroni e cavalieri in quel momento avrebbe ucciso la regina. Quando scese la sua collera e ritornò in sé il re disse: "Signora, come hai potuto mandare in paesi sconosciuti il nostro unico figlio? Credevi forse che tenessi più a un uomo selvatico che al sangue del mio sangue?", e senza aspettare risposta diede ordine ai suoi soldati che si schierassero in quattro drappelli e muovessero alla ricerca del principe verso tutti i punti cardinali. Ma fu inutile, perché Guerrino viaggiava in incognita con i suoi servi e nessuno poteva riconoscerlo. Così cavalcando coi suoi servitori, passando per valli, monti e fiumi, fermandosi un po' in un posto e un po' in un altro, Guerrino arrivò all'età di sedici anni, ed era diventato bello come una rosa di maggio. In quel tempo i suoi servitori ebbero un'idea diabolica: uccidere Guerrino e dividersi tutte le sue ricchezze. Ma non poterono attuare il loro piano, perché proprio allora passava di là un bellissimo giovane a cavallo di un superbo destriero bardato con finimenti preziosi, e chinato il capo con cortesia salutò Guerrino dicendo: "Gentile cavaliere, se non ti fa dispiacere, vorrei cavalcare insieme a te". Guerrino gli rispose: "Sei così gentile che non si può rifiutare la tua compagnia, ti ringrazio, e anzi sono io a chiederti il grande favore di cavalcare con noi. Siamo forestieri, non conosciamo le strade, e tu cortesemente ce le potrai insegnare, poi lungo la via potremo raccontarci le nostre storie, e il cammino ci sembrerà meno lungo". Bisogna sapere che questo cavaliere era l'uomo selvatico che Guerrino aveva liberato dalla prigione di suo padre. Dopo aver errato a lungo per boschi e luoghi strani, un giorno per caso aveva incontrato una fata bellissima, che soffriva di una malattia mortale. Avendolo visto così deforme e osservando la sua bruttezza, la fata aveva riso di lui così fragorosamente che gli era scoppiato quell'ascesso vicino al cuore che stava per ucciderla. Così la bella fata trovandosi sana e salva gli era stata grata e gli aveva detto: 'Uomo tanto deforme e sozzo, mi hai reso tu la vita che temevo di perdere, va', io voglio che tu diventi il più bello, il più gentile, il più saggio e il più affascinante giovane che si possa trovare, e voglio anche farti partecipe della mia virtù e della mia potenza magica, perché tu possa fare e disfare in un batter d'occhio ogni cosa secondo il tuo desiderio". E infine, facendolo montare su un superbo destriero fatato, gli aveva detto che poteva andare ovunque desiderasse. Cavalcando insieme, dopo un po' di tempo Guerrino e il giovane cavaliere giunsero alla potente città di Assoro, nella quale viveva un re che aveva due figlie, Fedora e Miranda, tanto belle e piene di grazia che tutti si incantavano a guardarle. Appena giunti ad Assoro, Guerrino col cavaliere sconosciuto e i due servitori presero alloggio nel miglior ostello della città; il cavaliere disse che voleva partire per visitare altri reami e salutò Guerrino ringraziandolo della compagnia, ma il principe ormai lo amava molto, e non volendo che partisse lo pregò con tanta dolcezza che lo convinse a restare. In quel tempo il reame di Assoro era infestato da due belve: un cavallo e una cavalla selvatici, tanto feroci che non solo distruggevano tutti i raccolti dei campi, ma uccidevano gli animali domestici e anche gli esseri umani. I terribili cavalli avevano sparso il terrore fra la popolazione, che preferiva partire lasciando le case e le terre del reame di Assoro. Non c'era nessuno che avesse la forza e il coraggio di affrontarli e di ucciderli, così il re vedeva il suo reame devastato e abbandonato, ma non sapeva come trovare un rimedio, e si disperava maledicendo la sua sfortuna. I due servi, che non avevano potuto attuare il loro piano malvagio lungo la via per l'arrivo del cavaliere sconosciuto, volevano impossessarsi dei gioielli e dei denari di Guerrino, ma avevano paura di essere scoperti, così cercando un modo per farlo morire pensarono di dire all'oste che Guerrino era un prode e valente cavaliere, che tante volte si era vantato di sapere come fare a uccidere il cavallo selvatico senza pericolo. "L'oste andrà a riferirlo al re," dissero, "e il re di Assoro non vuole altro che la morte dei due animali selvatici e il benessere del suo reame, così farà chiamare Guerrino e gli chiederà come intende fare, lui non saprà rispondere, sarà condannato a morte, e noi resteremo padroni delle sue ricchezze". Appena l'oste li sentì parlare del coraggio di Guerrino ne fu felice, corse dal suo re e dopo essersi inchinato gli disse: "Maestà, sappi che nel mio ostello c'è un cavaliere errante molto bello che si chiama Guerrino, e parlando con i suoi servitori ho saputo che il loro signore è prode, coraggioso e tanto valente con le armi in pugno che nessuno ha mai potuto batterlo, e questo Guerrino si è più volte vantato che con la sua forza e la sua potenza può domare il cavallo selvatico che devasta il tuo reame". Sentendo queste parole il re volle vedere Guerrino, e l'oste, servendolo fedelmente, andò subito a dirgli di andare dal re, perché voleva parlare con lui. Guerrino allora si presentò al re, e inchinandosi gli chiese per quale ragione lo aveva chiamato. Il re gli disse: "Guerrino, il motivo che mi ha spinto a farti venire qui è che io ho saputo che sei un valoroso cavaliere, non ce n'è un'altro come te in tutto il mondo, e che molte volte hai detto di avere tanta forza che senza danno per te o per altri sapresti catturare il cavallo che devasta miseramente il mio reame. Se il cuore ti basta per provarti in un'impresa gloriosa come questa e tornare vincitore, io ti prometto sulla mia testa di farti un tale dono che sarai felice per il resto della tua vita". Guerrino, sentendo la formidabile proposta del re, rimase molto meravigliato, e negò di aver mai detto le parole che gli erano state attribuite. Il re allora si rannuvolò, e molto arrabbiato disse: "Voglio, Guerrino, che tu tenti questa impresa, e sappi che se non obbedisci alla mia volontà ti condannerò a morte". Lasciato il re, Guerrino tornò all'ostello addolorato, e non osava dire la pena che gli stringeva il cuore, ma il cavaliere sconosciuto, vedendolo contrariamente al solito pieno di malinconia, gli chiese dolcemente per quale ragione era avvilito e mesto. E lui, volendogli bene come a un fratello, non potè far a meno di rispondergli, e raccontò tutto quello che gli era capitato col re. Allora il giovane sconosciuto gli disse: "Sta di buon animo e non dubitare, perché io ti insegnerò come fare e non morirai, tu sarai anzi vincitore e il re avrà quello che chiede. Ora tornerai dal re, gli chiederai che faccia venire un valente maestro maniscalco, al quale ordinerai quattro grandi ferri da cavallo, che siano massicci e tutt'intorno due dita abbondanti più grandi dei ferri normali, che siano ben crestati e che dietro abbiano due ramponi lunghi come un grande dito, appuntiti e taglienti. Appena li avrà finiti, farai ferrare con quelli il mio cavallo, che è fatato, e non dubitare di nulla". Guerrino, tornato dal re, fece come gli aveva detto il suo compagno, e il re, chiamato un ottimo maniscalco, gli ordinò di mettersi ai comandi di Guerrino. Il maestro andò nella sua bottega con lui, ma quando sentì cosa voleva rifiutò di farlo perché erano ferri che non si erano mai visti, e lo prese in giro come se fosse matto. Guerrino allora andò a lamentarsene dal re, che richiamò il maniscalco e gli ordinò nuovamente di obbedirgli, altrimenti avrebbe mandato lui a domare il cavallo selvatico. Così il maestro di cavalli forgiò subito i quattro ferri e li mise agli zoccoli del destriero fatato. Quando il cavallo fu ferrato e bardato come si deve, il giovane sconosciuto disse a Guerrino: "Monta sul mio cavallo, e va' sicuro; quando sentirai il nitrito del cavallo selvatico, smonta dal tuo destriero, togli sella e briglie e lascialo libero, poi sali su un albero alto e aspetta che si compia l'impresa": Guerrino, ben istruito dal suo amato compagno su ciò che doveva fare, lo salutò e partì contento. Per tutta la città di Assoro si era già sparsa la fama gloriosa di un giovane bello e pieno di grazia che tentava l'impresa di catturare il cavallo selvatico per portarlo al re, così tutti si affacciavano alle finestre per guardarlo mentre passava, e vedendolo così nobile, giovane e bello, ne avevano pietà e dicevano: "Oh, povero giovane, come cavalca spensierato verso la sua fine! certo è un gran peccato che sia destinato a morire miseramente!", e non riuscivano a trattenere lacrime di commozione. Ma Guerrino, intrepido e fiero, cavalcando allegramente giunse nel posto in cui stava il cavallo selvatico e sentendolo nitrire scese dal suo cavallo, gli tolse briglie e sella, e dopo averlo lasciato libero si arrampicò su una grande quercia e attese il terribile combattimento. Era appena salito sull'albero che arrivò il cavallo selvatico e affrontò il destriero fatato, così cominciarono il duello più feroce e sanguinario che si sia visto al mondo. Sembravano due leoni scatenati, schiumavano dalla bocca come irsuti cinghiali cacciati da cani rabbiosi, e dopo un combattimento in cui avevano mostrato pari valore, il destriero fatato tirò due calci al cavallo selvatico, lo colpì con lo zoccolo crestato alla mascella e gliela ruppe, facendogli perdere il vigore per attaccare e per difendersi. Guerrino vide, e tutto contento scese dalla quercia, prese un capestro che aveva con sé, lo legò e lo condusse nella città di Assoro tra la gioia della folla acclamante, portandolo al re come aveva promesso. Il re decretò festa e trionfo in tutta la città, ma ai due servitori aumentò la rabbia, perché non avevano raggiunto il loro scopo malvagio, e così fecero arrivare al re la notizia che Guerrino avrebbe agevolmente ucciso anche la cavalla, se ne avesse avuto voglia. Allora il re di Assoro fece come aveva fatto per il cavallo, e siccome Guerrino rifiutava di tentare questa impresa, davvero pericolosa, minacciò di farlo appendere per un piede, come ribelle della corona. Tornato al suo ostello Guerrino raccontò tutto al suo compagno, che sorridendo disse: "Fratello, non aver paura, ma va', trova il maniscalco e ordinagli altri quattro ferri grossi come i primi, con i ramponi ben affilati e taglienti; farai tutto come hai fatto col cavallo, e ne avrai gloria ancora più della prima volta". Dopo aver ordinato e ottenuto i quattro ferri appuntiti, Guerrino fece ferrare il forte cavallo fatato e partì per la grande impresa. Giunto nel posto in cui stava la cavalla selvatica, dopo averla sentita nitrire Guerrino smontò dal suo destriero, gli tolse briglie e sella e lo lasciò libero, poi come la prima volta salì su un albero. Subito vide arrivare la cavalla selvatica che attaccò il destriero con un morso terribile: il cavallo fatato a mala pena riuscì a scampare da questa ferocia, ma si riprese e con tutto il suo vigore tirò alla cavalla un calcio così forte che con uno dei ramponi le ruppe la gamba destra. Subito Guerrino scese dall'albero, la prese e la legò ben stretta, poi salì sul cavallo fatato, andò a palazzo tra ali di folla festante e la portò al re. Tutti andavano a vedere i feroci cavalli selvatici, ed erano felici perché il paese era finalmente libero. Guerrino era già tornato all'ostello, ed essendo stanco si era messo a riposare, ma un rumore confuso non lo faceva dormire, così si alzò da letto e sentì che c'era qualcosa di strano che batteva in un vaso di miele. Allora, aperto il vaso, Guerrino vide un calabrone che sbatteva le ali e non poteva volare: sentendo compassione prese quell'animalino e lo mise in libertà. Intanto il re che non aveva ancora ricompensato Guerrino per il doppio trionfo, pensando che era giusto provvedere subito lo mandò a chiamare, e gli disse: "Guerrino, vedi bene che per merito tuo il mio regno è liberato dai cavalli selvatici, e per queste imprese che hai compiuto per me intendo ricompensarti. Non trovando altro dono che sia abbastanza grande per te, ho deciso di darti la principessa Fedora in isposa. Ma sappi che ho due figlie: Fedora porta intrecciati con grazia i capelli che brillano come l'oro, l'altra si chiama Miranda e la sua chioma splende come finissimo argento. Se tu riuscirai a indovinare qual è tra loro Fedora dalle trecce d'oro, l'avrai in isposa con una ricchissima dote, se sbaglierai ti farò tagliare la testa". Guerrino, sentendo come il re lo ricompensava ferocemente, rimase stupefatto, e gli disse: "Maestà, è questo il guiderdone per le fatiche che ho sostenuto? Questo è il premio per il mio sudore? Mi fai questo gran dono perché ho liberato il tuo reame, che era devastato e quasi deserto? Ahimè, non meritavo questo, né questo si addice a un re potente come te. Ma siccome così ti piace, e io sono nelle tue mani, fa' quel che più ti aggrada". "Basta," disse il re, "puoi andare, ti do tempo fino al tramonto di domani per trovare la soluzione". Disperato Guerrino andò dal suo compagno e raccontò cosa gli aveva detto il re. Il cavaliere sconosciuto, senza dar troppo peso a quello che era successo, disse: "Guerrino, sta contento e non dubitare, che io ti aiuterò a trovare la soluzione. Ricordi che hai liberato un calabrone che era rimasto invischiato nel miele e lo hai fatto volare? E' grazie a lui che vincerai questa prova, perché domani andrà a palazzo e per tre volte volerà sussurrando intorno al viso della principessa dai capelli d'oro, e lei con la candida mano lo scaccerà. Vedendo per tre volte questo gesto tu capirai qual è la tua sposa". "Oh!" disse Guerrino al suo compagno, "quando verrà il giorno in cui potrò ricambiare il bene che mi hai fatto? Anche se vivessi mille anni, non potrei ricompensarti nemmeno in minima parte. Che tu riceva tutto il bene che meriti dal grande Benefattore!". Allora il cavaliere sconosciuto rispose: "Guerrino, fratello mio, tu non hai bisogno di ricompensarmi per quello che ho fatto. E' tempo che ti sveli chi sono. Tu mi hai salvato dalla morte, e anch'io ho voluto fare qualcosa per te: sappi che sono io l'uomo selvatico che liberasti con amore dalla prigione di tuo padre, e il mio nome è Rubino". E gli raccontò come la fata alla quale aveva salvato la vita lo aveva reso bellissimo e dotato di poteri magici, regalandogli anche il destriero fatato col quale Guerrino aveva catturato i cavalli selvatici. Il principe rimase stupefatto e senza dire una parola, col cuore colmo di dolcezza, lo abbracciò e lo baciò teneramente, proprio come un fratello. Poi, siccome stava per finire il tempo concesso per la prova, se ne andarono insieme a palazzo, e il re diede ordine che le sue amate figlie velate di veli bianchissimi venissero alla presenza di Guerrino. Era impossibile distinguere le principesse una dall'altra, ma il re chiese: "Quale di loro, Guerrino, è la sposa che ti ho destinato?". Il principe restava in silenzio riflettendo fra sé e sé e non rispondeva nulla, mentre il re, curioso di vedere come andava a finire, lo tormentava, dicendogli che il tempo fuggiva e che doveva decidersi. Ma Guerrino rispose: "Maestà, se è vero che il tempo fugge, è altrettanto vero che il tempo che mi hai concesso non è ancora finito, perché il sole non è ancora tramontato". Siccome era vero, il re e tutti gli altri aspettarono ancora, quand'ecco giunse il calabrone, che sussurrando descrisse un cerchio intorno al viso di Fedora. E lei, un po' spaventata, con la mano candida cercava di mandarlo via, e quando ebbe fatto questo gesto tre volte il calabrone se ne andò. Mentre Guerrino non si sentiva tanto sicuro, pur fidandosi delle parole del suo caro compagno Rubino, tramontò il sole, e il re disse: "Forza Guerrino, che fai? ormai il tuo tempo è finito: devi deciderti". Guerrino, dopo aver guardato con attenzione ora l'una, ora l'altra principessa, pose la mano sopra il capo di quella che gli aveva indicato il calabrone e disse: "Maestà, la vostra figlia dalle chiome d'oro è questa". Fedora si tolse i veli e fece vedere che davvero aveva i capelli biondi come l'oro. Allora il re, tra la gioia della corte e la felicità di tutto il popolo, benedisse le loro nozze, poi avendo conosciuto Rubino diede in isposa a lui Miranda dai capelli splendenti come l'argento. Guerrino allora rivelò che era figlio del re di Serradifalco, e il re di Assoro fu ancora più felice. Mandò messaggeri alla corte di Serradifalco per annunciare le nozze, e quando i genitori di Guerrino giunsero ad Assoro la loro gioia fu indicibile, perché ritrovavano il figlio che credevano perduto e non si saziavano di abbracciarlo e baciarlo. Furono celebrate nozze sontuose, con festeggiamenti che durarono giorni e giorni, poi Guerrino tornò con la sua sposa nel reame di Serradifalco, mentre Rubino e Miranda restarono eredi al trono di Assoro. E quando fu il momento le due coppie salirono al trono e regnarono a lungo felici, in pace e prosperità, lasciando dopo di loro molti bellissimi discendenti, maschi e femmine. |
Cicilia,
donne mie care, sí come a ciascheduna di voi puol
esser chiaro, è una isola perfetta ed ubertosa, e per
antichità tutte le altre avanza, ed in essa sono molte
città e castella, che molto piú di quello che ella
sarebbe, l’abbelliscono. Di questa isola ne’ passati
tempi era signore re Filippomaria, uomo saggio,
amorevole e singolare, e aveva per moglie una donna
molto gentile, graziosa e bella, e di lei ebbe un solo
figliuolo, Guerrino per nome chiamato. Il re di andare
alla caccia vie piú ch’ogni altro signore si
dilettava, perciò che era robusto e forte, e tal
essercizio molto li conveniva. Ora avenne che, ritrovandosi in caccia con diversi suoi baroni e cacciatori, vide uscire fuori del folto bosco un uomo salvatico assai grande e grosso e sí difforme e brutto che a tutti grandissima ammirazione rendeva, e di corporali forze ad alcuno non era inferiore. E messosi in ordine, il re con duo suoi baroni, e de’ migliori che ci avesse, animosamente l’affrontò e dopo lungo combattimento valorosamente lo vinse, e preso de sue mani e legato, al palazzo lo condusse, e trovata stanza a lui convenevole e sicura, dentro lo mise, e ben chiuso con fortissime chiavi ordinò che ben custodito e atteso fusse. E perché il re lo aveva sommamente caro, volse che le chiavi rimanessino in custodia della reina, né era giorno che il re per suo trastullo non l’andasse a vedere alla prigione. Non passando molti giorni che il re da capo si mise in punto per andare alla caccia, e apparecchiate quelle cose che in tal facenda fanno bisogno, con la nobile compagnia si partí, raccomandate però prima le chiavi della prigione alla reina. Mentre che il re era alla caccia, venne gran voglia a Guerrino, che giovanetto era, di vedere l’uomo salvatico, e andatosene solo con l’arco, di cui molto si diletava e con una saetta in mano alla ferriata della prigione dove abitava il mostro, lo vide e con esso lui incominciò domesticamente ragionare. E cosí ragionando, l’uomo salvatico, che l’accarezzava e losingava, destramente la saetta, che riccamente era lavorata, di mano li tolse. Onde il fanciullo cominciò dirottamente a piangere, né si poteva dalle lagrime astenere, chiedendogli che li dovesse dare la sua saetta. Ma l’uomo salvatico disse: - Se tu mi vuoi aprire e liberarmi di questa prigione, io ti restituirò il tuo strale, altrimenti non te lo renderò mai. A cui disse il fanciullo: - Deh, come vuoi tu ch’io t’apri e liberi, se io non ho il modo di liberarti? Allora disse il salvatico uomo: - Quando ti fusse in piacere di sciogliermi e liberarmi di questo angusto luogo, io bene t’insegnarei il modo che tosto liberare mi potresti. - Ma come? - rispose Guerrino - dammi il modo. A cui disse il salvatico uomo: - Va’ dalla reina tua madre e quando addormentata la vederai nel merigio, destramente guata sotto il guanciale, sopra il quale ella riposa, e chetamente, che ella non ti senta, furale le chiavi della prigione e reccale qui e aprimi, ché aperto che tu mi averai, subito ti restituirò il tuo strale. E di questo servizio a qualche tempo forse ti potrò remeritare. Guerrino bramoso di avere lo suo dorato strale, piú oltre come fanciullo non si pensò, ma senza indugio alcuno corse alla madre, e trovatala che dolcemente riposava, pianamente le tolse le chiavi e con quelle se ne ritornò al salvatico uomo e dissegli: - Ecco le chiavi. Se io quinci ti scioglio, va’ tanto lontano, che di te pur odor alcuno non si senta, perciò che se il padre mio, che è gran maestro di cacce, ti ritrovasse e prendesse, agevolmente uccider ti farebbe. - Non dubitar, figliuolo mio, - disse il salvatico uomo, — che tantosto che aperta arrai la prigione che disciolto mi veggia, io ti darò la tua saetta, e io me ne andrò sí lontano, che mai piú né da tuo padre, né d’altrui sarò accolto. Guerrino, che aveva le forze verili, tanto s’affaticò, che finalmente aperse la prigione, e l’uomo salvatico resoli la saetta e ringraziatolo molto, si partí. Era l’uomo salvatico uno bellissimo giovane, il quale per disperazione di non poter acquistare l’amore di colei che cotanto amava, lasciati gli amorosi pensieri e gli urbani solazzi, si era posto tra le boscarice belve, abitando l’ombrose selve e i folti boschi, mangiando l’erbe e bevendo l’acqua a guisa di bestia. Laonde il miserello aveva fatto il pelo grossissimo e la cotica durissima e la barba folta e molto lunga, e per li cibi d’erba, la barba, il pelo e i capelli erano sí verdi divenuti, che era cosa mostruosa a vederlo. Destata la reina e messa la mano sotto il guanciale per prender le chiavi che sempre a lato teneva, e non trovandole, molto si maravigliò e ravogliendo il letto sottosopra e nulla trovando, come pazza alla prigione se n’andò, e trovandola aperta e non vedendo l’uomo salvatico, da dolore si sentiva morire, e scorseggiando per lo palazzo or quinci or quindi, addimandava or a questo or a quello chi era stato quel sí temerario ed arrogante che gli aveva bastato l’animo di togliere le chiavi della prigione senza sua saputa. A cui nulla sapere tutti rispondevano. E contratosi Guerrino nella madre e vedendola tutta di furore accesa, disse: - Madre mia, non incolpate veruno dell’aperta prigione, perciò che s’alcuno merita punizione alcuna, io sono quello che debbo patire perché io sono stato l’apertore. La reina ciò udendo, molto maggiormente se ne dolse, temendo che ’l re, venendo dalla caccia, il figliuolo per sdegno non uccidesse, perciò che le chiavi a lei quanto la persona propria raccomandate aveva. Laonde la reina credendo schifare uno picciolo errore, in un altro assai maggiore incorse; perciò che senza metter indugio alcuno chiamò duo suoi fidelissimi serventi e il figliuolo, e dategli infinite gioie e danari assai e cavalli bellissimi, il mandò alla buona ventura, pregando cordialissimamente li serventi che il suo figliuolo raccomandato gli fusse. Appena che ’l figliuolo era dalla madre partito, che il re dalla caccia al palazzo aggiunse, e sceso giú del cavallo, subito se n’andò alla prigione per vedere l’uomo salvatico, e trovatala aperta e veduto che egli era fuggito, s’accese di tanto furore, che nell’animo suo al tutto propose di uccidere colui, che di cotal errore era stato cagione. E andatosene alla reina, che in camera mesta si stava, l’addimandò chi era stato colui sí sfacciato, sí arrogante e sí temerario, che gli abbia bastato il cuore d’aprir la prigione e dar causa che l’uomo salvatico fuggisse. La reina con tremante e debole voce rispose: - Non vi turbate, o re, ché Guerrino, com’egli confessato mi ha, di ciò n’è stato cagione -; e gli raccontò tanto quanto per Guerrino narrato le fu. Il che il re intendendo, molto si risentí. Poscia la reina soggiunse che per timore ch’egli il figliuolo non uccidesse, in lontane parti mandato l’aveva, e che era accompagnato da duo fedelissimi serventi carichi di gioie e di danari assai per le loro bisogna. Al re, intendendo questo, doglia sopra doglia crebbe e nulla quasi mancò che non cadesse in terra e non venisse pazzo, e se non fussero stati i corteggiani che lo ritenero, agevolmente alla dolorata moglie in quel punto la morte data arrebbe. Ritornato il povero re alquanto in sé e posto giú ogni sfrenato furore, disse alla reina: - O donna, che pensiero è stato il vostro in mandare in luoghi non conosciuti il commune figliuolo? credevate voi forse che io facessi piú conto d’uno uomo salvatico, che delle proprie carni? E senz’altra risposta aspettare, comandò che molti soldati subito montassero a cavallo e in quattro parti si dividessero, e con ogni diligenza cercassero si trovare lo potevano. Ma invano si affaticorono, percioché Guerrino con gli serventi andavasi nascoso, né d’alcuno si lasciava conoscere. Cavalcando adunque il buon Guerrino con gli serventi suoi e passando valli, monti e fiumi, e dimorando ora in un luogo e ora in uno altro, pervenne all’età di sedeci anni, e tanto era bello che pareva una matutina rosa. Non stette guari, che venne un diabolico pensiero agli serventi di uccidere Guerrino e prendere le gioie ed i danari e tra loro dividerli. Ma il pensiero gli andò buso, perciò che per divino giudizio non si potero mai convenir insieme. Avenne che per sua buona sorte passò allora un vago e leggiadro giovanetto, che era sopra d’un superbo cavallo e pomposamente ornato, e inchinato il capo diede un bel saluto a Guerrino dicendo: - O gentil cavaliere, quando non vi fosse a noia io con voi volentieri mi accompagnerei. A cui Guerrino rispose: - La gentilezza vostra non permette che io ricusi sí fatta compagnia, anzi io vi ringrazio, e vi chieggo di grazia speziale che voi vi dignate di venire con esso noi. Noi siamo forastieri, né sapiamo le strade, e voi per cortesia vostra ne le insegnarete, e cosí cavalcando, ragionaremo insieme alcuno nostro accidente occorso, ed il viaggio ci sarà men noioso. Questo giovanetto era il salvatico uomo che fu da Guerrino della prigione di re Filippomaria sciolto. Costui per vari paesi e luochi strani errando, fu per aventura veduto da una bellissima fata, ma inferma alquanto, la quale avendolo sí diforme e brutto considerato, rise della sua bruttura sí fieramente, che una postema vicina al cuore se le ruppe, che agevolmente affocata l’arebbe. E in quel punto da tal infirmitá, non altrimenti che se per l’adietro male avuto non avesse, libera e salva rimase. Laonde la bella fata in ricompensamento di tanto beneficio ricevuto, non volendo parer ingrata, disse: - Oh uomo ora sí diforme e sozzo e della mia desiderata sanitá cagione, va’ e per me sii fatto il piú bello, il piú gentile, il piú savio e grazioso giovane che trovar si possa, e di tutta quella auttoritá e potere che mi è dalla natura concesso io ti fo partecipe, potendo tu fare e disfare ogni cosa ad ogni tuo piacere -; e appresentatogli un superbo e fatato cavallo, lo licenziò che dovesse andare ovunque a grado li paresse. Cavalcando adunque Guerrino co ’l giovanetto e non conoscendolo, ancor che egli conoscesse lui, finalmente pervenne ad una fortissima città, Irlanda chiamata, la quale a quei tempi Zifroi re signoreggiava. Questo re Zifroi aveva due figliuole vaghe di aspetto e gentili di costumi, e di bellezza Venere avanzavano, l’una de’ quai Potenziana, l’altra Eleuteria si chiamava, ed erano sí amate dal re che per l’altrui occhi non vedeva se non per loro. Pervenuto adunque Guerrino alla città d’Irlanda col giovane isconosciuto e con gli serventi, prese l’alloggiamento di un oste, il piú faceto uomo che in Irlanda si trovasse, e da lui tutti furono onorevolmente trattati. Venuto il giorno sequente, il giovanetto isconosciuto finse di voler partire e andarsene in altre parti e prese commiato da Guerrino, ringraziandolo molto della buona compagnia avuta da lui. Ma Guerrino, che oramai gli aveva preso amore, in maniera alcuna non voleva che si partisse, e tanto l’accarezzò che di rimanere seco acconsentí.Trovavansi nel territorio irlandese duo feroci e paventosi animali, de’ quai l’uno era un cavallo salvatico e l’altro una cavalla similmente salvatica, ed erano di tanta ferocità e coraggio, che non pur le coltivate campagne affatto guastavano e dissipavano, ma parimenti tutti gli animali e le umane creature miseramente uccidevano. Ed era quel paese per la loro ferocità a tal condizione divenuto, che non si trovava uomo che ivi abitar volesse, anzi e’ propi paesani abbandonavano i poderi e le loro care abitazioni e se ne andavano in alieni paesi. E non vi era uomo alcuno sí potente e robusto, che raffrontarlo non che ucciderlo ardisse. Laonde il re vedendo il paese tutto nudo sí di vittovaria come di bestie e di creature umane, né sapendo a tal cosa trovar rimedio alcuno, si ramaricava molto, biastemando tuttavia la sua dura e malvagia fortuna. I duo serventi di Guerrino, che per strada non avevano potuto adempire il loro fiero proponimento per non potersi convenire insieme e per la venuta dell’incognito giovanetto, s’imaginorono di far morire Guerrino e rimaner signori delle gioie e danari e dissero tra loro: - Vogliamo noi vedere si potiamo in guisa alcuna dare la morte al nostro patrone? E non trovando modo né via che gli sodisfacesse, perciò che stavano in pericolo della vita loro se l’uccidevano, s’imaginorono di ragionar secretamente con l’oste e raccontargli come Guerrino suo patrone è uomo prode e valente, e piú volte con esso loro si aveva vantato di poter uccidere quel cavallo salvatico senza danno di alcuno. - E questa cosa agevolmente potrà venire alle orecchie del re, quale, bramoso della morte degli duo animali e della salute di tutto il suo territorio, farà venire a sé Guerrino e vorrà intendere il modo che si ha a tenere, ed egli non sapendo che fare né che dire, facilmente lo farà morire, e noi delle gioie e danari saremo possessori. E sí come deliberato avevano, cosí fecero. L’oste, inteso questo, fu il piú allegro ed il piú contento uomo che mai la natura creasse, e senza mettere intervallo di tempo corse al palazzo, e fatta la debita riverenza con le ginocchia in terra, secretamente gli disse: - Sacra corona, sapiate che nel mio ostello ora si trova un vago ed errante cavaliere, il quale per nome Guerrino si chiama, e confavolando io con gli serventi suoi di molte cose, mi dissero tra le altre come il loro patrone era uomo famoso in prodezza e valente con le arme in mano e che a’ giorni nostri non si trovava un altro che fusse pare a lui, e piú e piú volte si aveva vantato di essere sí potente e forte, che atterrebbe il cavallo salvatico che nel territorio vostro è di tanto danno cagione. Il che intendendo Zifroi re, immantinente comandò che a sé lo facesse venire. L’oste ubidientissimo al suo signore ritornò al suo ostello e disse a Guerrino che solo al re dovesse andare, perciò che egli seco desiderava parlare. Guerrino questo intendendo, alla presenza del re si appresentò, e fatagli la convenevole riverenza, gli addimandò qual era la causa che egli dimandato l’aveva. A cui Zifroi re disse: - Guerrino, la cagione che mi ha costretto farti qui venire è che io ho inteso che sei valoroso cavaliere, né hai un altro pare al mondo, e piú volte hai detto la tua fortezza esser tale, che senza offensione tua e di altrui domaresti il cavallo, che sí miserabilmente distrugge e dissipa il regno mio. Se ti dà il cuore di prendere tal gloriosa impresa, qual è questa, e vincerlo, io ti prometto sopra questa testa di farti un dono, che per tutto il tempo della vita tua rimarrai contento. Guerrino intesa l’alta proposta del re, molto si maravigliò, negando tuttavia aver mai dette cotali parole che gli erano imposte. Il re della risposta di Guerrino molto si turbò e adirato alquanto, disse: - Voglio, Guerrino, che al tutto prendi questa impresa, e se tu sarai contrario al voler mio, pensa di rimaner privo di vita. Partitosi Guerrino dal re e ritornato all’ostello, molto addolorato si stava, né ardiva la passione del cuor suo scoprire. Onde il giovane isconosciuto vedendolo contra il consueto suo sí malinconoso stare, dolcemente gli addimandò qual era la cagione che cosí mesto ed addolorato il vedeva. Ed egli per lo fratellevole amore che gli portava, non potendogli negare l’onesta e giusta dimanda, li raccontò ordinatamente ciò che gli era avenuto. Il che intendendo l’incognito giovane, disse: - Sta di buon animo né dubitar punto, perciò che io t’insegnarò tal strada che tu non perirai, anzi tu sarai vincitore, ed il re conseguirà il desiderio suo. Ritorna adunque al re e dilli che tu vuoi che ’l ti dia un valente maestro che ferra cavalli, e ordenagli quattro ferri da cavallo, i quali siano grossi e d’ognintorno maggiori de gli ferri comuni duo gran dita e ben crestati, e che abbino duo ramponi lunghi un gran dito da dietro, acuti e pungenti. E avuti li farai mettere ai piedi del mio cavallo che è fatato, e non dubitare di cosa alcuna. Ritornato Guerrino al re, gli disse ciò che il giovane gli aveva imposto. Il re fatto venire un ottimo maestro da cavalli, gli ordinò che tanto facesse quanto da Guerrino gli fia comandato. Andatosi il maestro alla sua stanza, Guerrino seco se n’andò, e gli ordinò nel modo antedetto i quattro ferri da cavallo. Il che intendendo il maestro, non gli volse fare, ma, sprezzatolo, trattòlo da pazzo, perciò che gli pareva una cosa nuova e non piú udita. Guerrino vedendo che ’l maestro lo deleggiava e non gli voleva ubidire, se n’andò al re e lamentòsi del maestro che servire non l’aveva voluto. Laonde il re fattolo chiamare, strettamente gli ordinò, e con pena della disgrazia sua, o che facesse ciò che gli era stà imposto o che egli andasse a far la impresa che Guerrino far doveva. Il maestro udendo che ’l comandamento del re stringeva, fece i ferri e messegli al cavallo secondo che gli era stà divisato. Ferrato adunque il cavallo e ben guarnito di ciò che fa mestieri, disse il giovane a Guerrino: - Monta sopra questo mio cavallo e vattene in pace, e quando udirai il nitrire del salvatico cavallo, scendi giú del tuo e traeli la sella, la briglia e lascialo in libertà, e tu sopra d’un eminente albero ascenderai, aspettando di quella impresa il fine. Guerrino ben ammaestrato dal suo diletto compagno di ciò che far doveva, tolta licenza, lietamente si partí. Era già sparsa per tutta la città d’Irlanda la gloriosa fama che un leggiadro e vago giovanetto aveva tolta l’impresa di prendere il salvatico cavallo e appresentarlo al re. Il perché uomini e donne correvano alle finestre per vederlo passare, e vedendolo sí bello, sí giovanetto e sí riguardevole, si movevano a pietà, e dicevano: - O poverello, come volontariamente alla morte corre, certo gli è un grave peccato che costui sí miseramente muoia -; e per compassione dalle lagrime non si potevano contenere. Ma Guerrino intrepido e virile allegramente se n’andava, e giunto al luogo dove il salvatico cavallo dimorava, e sentitolo nitrire, scese giú del suo e spogliatolo di sella, di briglia, e lasciatolo in libertà, salí sopra d’una forte querce e aspettò l’aspra e sanguinolente battaglia. Appena che Guerrino era asceso sopra l’albero che giunse il salvatico cavallo, e affrontò lo fatato destriere e ambe duo cominciorono il piú crudo duello che mai fusse veduto al mondo. Imperciò che parevano duo scatenati leoni e per la bocca gettavano la schiuma a guisa di setosi cinghiali da rabiosi cani cacciati, e dopo ch’ebbero valorosamente combattuto, finalmente il fatato destriere tirò un paio di calci al salvatico cavallo e giunselo in una mascella, e quella dal luogo gli mosse. Il perché perdé la scrima di poter piú guerreggiare, né piú difendersi. Il che vedendo Guerrino, tutto allegro rimase, e sceso giú della querce, prese un capestro, che seco reccato aveva, e legollo, e alla città cosí smassellato il condusse, e con grandissima allegrezza di tutto il popolo, sí come promesso aveva, al re lo presentò. Il re con tutta la città fece gran festa e trionfo. Ma a’ duo serventi crebbe doglia maggiore, perciò che non era adempito il malvagio proponimento suo. Laonde d’ira e di sdegno accesi, da capo fecero intendere a Zifroi re come Guerrino con agevolezza ucciderebbe anche la cavalla quando gli fusse a grado. Il che inteso dal re, egli fece quello istesso che del cavallo fatto aveva. E perciò che Guerrino ricusava di far tale impresa, che veramente pesava, il re il minacciò di farlo suspendere con un piede in su, come rubello della sua corona. E ritornato Guerrino all’ostello raccontò il tutto al suo compagno, il quale sorridendo disse: - Fratello, non ti paventare, ma va’ e trova il maestro da cavalli ed ordinali quattro altri ferri altrettanto maggiori de’ primi, che siano ben ramponati e pungenti e farai quel medesimo che del cavallo fatto hai, e con maggior onore del primo a dietro tornerai. Ordinati adunque i pungenti ferri e ferrato il forte fatato destriere, all’onorata impresa se ne gí. Giunto che fu Guerrino al luogo dove era la cavalla e sentitala nitrire, fece tanto quanto per l’adietro fatto aveva, e lasciato il fatato cavallo in libertà, la cavalla se gli fé all’incontro, e lo salí d’un terribile e paventoso morso, e fu di tal maniera, che il fatato cavallo appena si poté difendere. Ma pur sí vigorosamente si portò, che la cavalla finalmente da un calcio percosa, della gamba destra zoppa rimase. E Guerrino disceso di l’alta arbore, presela e strettamente legolla, e asceso sopra il suo cavallo, al palazzo con trionfo e con allegrezza di tutto il popolo se ne tornò e al re l’appresentò. E tutti per maraviglia correvano a vedere la cavalla attrata, la quale per la doglia grave la vita sua finí. E cosí tutto il paese da tal seccagine libero e ispedito rimase. Era già Guerrino ritornato all’ostello e per stanchezza erasi posto a riposare, e non potendo dormire per lo strepito inordinato che sentiva, levò su da posare, e sentí un non so che di strano che in un vaso di melle batteva, e uscire di quello non poteva. Laonde aperto da Guerrino il vaso, vide un gallavrone che l’ali batteva e levarsi non poteva, onde egli, mosso a pietà, prese quel animaletto e in libertà lo lasciò. Zifroi re non avendo ancora guidardonato Guerrino del doppio avuto trionfo, e parendogli gran villania se no ’l guidardonava, il mandò a chiamare, ed appresentatosi, gli disse: - Guerrino, tu vedi come per opera tua il mio regno è liberato, e però per tanto beneficio ricevuto rimunerarti intendo. E non trovando dono né beneficio che a tanto merito convenevole sia, ho determinato di darti una delle figliuole mie in moglie. Ma sapi che io ne ho due, delle quali l’una Potenziana si chiama e ha i cappelli con artificio leggiadro involti e come l’oro risplendono. L’altra Eleuteria si addimanda e ha le chiome che a guisa de finissimo argento rilucono. Laonde se tu indovinerai qual di loro sia quella dalle trezze d’oro, in moglie l’averai con grandissima dote, altrimenti il capo dal busto ti farò spiccare. Guerrino intesa la scevera proposta di Zifroi re, molto si maravigliò, e voltatosi a lui, disse: - Sacra corona, è questo ’l guidardone delle mie sostenute fatiche? è questo il premio de’ miei sudori? è questo il beneficio che mi rendete, avendo io liberato il vostro regno, che oramai era del tutto disolato e guasto? ahimè, ch’io non meritava questo. Né a un tanto re come siete voi tal cosa si conveniva. Ma poscia che cosí vi piace, e io sono nelle mani vostre, fate di me quello che piú vi aggrada. - Or va’ - disse il re, - e non piú tardare; e dotti termine per tutto dimane a risolverti di tal cosa. Partitosi Guerrino tutto rimaricato, al suo caro compagno se ne gí, e raccontòli ciò che detto gli aveva Zifroi re. Il compagno, di ciò facendo poca stima, disse: - Guerrino, sta di buon animo né dubitare, perciò che io ti libererò del tutto. Ricordati che ne’ giorni passati il gallavrone nel melle inviluppato liberasti e in libertà lo lasciasti. Ed egli sarà cagione della tua salute. Imperciò che dimane dopo il desinare al palazzo se n’andrà, e tre volte attorno il volto di quella dai capelli d’oro susurrando volerà, ed ella con la bianca mano lo scaccerà. E tu avendo veduto tre fiate simil atto, conoscerai certo quella esser colei che tua moglie fia. - Deh - disse Guerrino al suo compagno - quando verrà quel tempo che io possi appagarti di tanti benefici per me da te ricevuti? certo se io vivessi mille anni, non potrei d’una minima parte guidardonarti. Ma colui che è rimuneratore del tutto supplisca per me in quello che io sono manchevole. Allora rispose il compagno a Guerrino: - Guerrino, fratel mio, non fa bisogno che tu mi rendi guidardone delle sostenute fatiche, ma ben è ormai tempo che io me ti scopra e che tu conosca ch’io sono. E sí come me dalla morte mi campasti, cosí ancor io ho voluto di tanta ubligazione il merito renderti. Sapi che io sono l’uomo salvatico che sí amorevolmente dalla prigione del tuo padre liberasti, e per nome chiamomi Rubinetto. E raccontògli come la fata nell’esser sí leggiadro e bello ridotto l’aveva. Guerrino ciò intendendo, tutto stupefatto rimase, e per tenerezza di cuore quasi piangendo, l’abbracciò e basciò e per fratello il ricevette. E perciò che omai s’avicinava il tempo di risolversi con Zifroi re, amenduo al palazzo se n’andorono. E il re ordinò che Potenziana ed Eleuteria, sue dilette figliuole, tutte velate di bianchissimi veli venessero alla presenza di Guerrino, e cosí fu fatto. Venute adunque le figliuole e non potendosi conoscere l’una dall’altra, disse il re: - Qual di queste due vuoi tu Guerrino che io ti dia per moglie? Ma egli stando sopra di sé tutto sospeso, nulla rispondeva. Il re curioso di vedere il fine, molto lo infestava, dicendogli che ’l tempo fuggiva e che si risolvesse omai. Ma Guerrino rispose: - Sacratissimo re, se il tempo fugge, il termine di tutt’oggi che mi avete dato, non è ancor passato. Il che esser il vero tutti parimente confirmarono. Stando in questa lunga aspettazione il re, Guerrino e tutti gli altri, ecco sopragiunse il gallavrone, il qual sussurrando intorniò il chiaro viso di Potenziana dalle chiome d’oro. Ed ella come paventata con le mani il ribatteva indietro e avendolo piú di tre fiate ribbattuto, finalmente si partí. Stando cerca ciò Guerrino alquanto dubbioso, fidandosi pur tuttavia delle parole di Rubinetto suo diletto compagno, disse il re: - Or su, Guerrino, che fai? omai gli è tempo che s’impona fine e che tu ti risolva. Guerrino ben guardata e ben considerata l’una e l’altra poncella, puose la mano sopra il capo di Potenziana che il gallavrone gli aveva mostrata, e disse: - Sacra corona, questa è la figliuola vostra dalle chiome d’oro. E scopertasi la figliuola, fu chiaramente veduto che ella era quella, e in quel punto presenti tutti e’ circostanti e con molta sodisfazione di tutto il popolo, Zifroi re glie la diede in moglie, e indi non si partí che anche Rubinetto, suo fidato compagno, sposò l’altra sorella. Dopo Guerrino si manifestò che egli era figliuolo di Filippomaria re di Cicilia. Laonde Zifroi sentí maggior allegrezza, e furono fatte le nozze vie piú pompose e grandi. E fatto intendere tal matrimonio al padre ed alla madre di Guerrino, ne ebbero grandissima allegrezza e contento, perciò che il loro figliuolo esser perduto credevano. E ritornatosene in Cicilia con la cara moglie e con il diletto fratello e cognata, fu dal padre e dalla madre graziosamente veduto ed accarecciato, e lungo tempo visse in buona pace, lasciando dopo sé figliuoli bellissimi e del regno eredi. |
Sicily,
my dear ladies (as must be well known to all of
you), is an island very fertile and complete in
itself, and in antiquity surpassing all the others
of which we have knowledge, abounding in towns and
villages which render it still more beautiful. In
past times the lord of this island was a certain
king named Filippomaria, a man wise and amiable and
of rare virtue, who had to wife a courteous,
winsome, and lovely lady, the mother of his only
son, who was called Guerrino. The king took greater
de light in following the chase than any other man
in the country, and, for the reason that he was of a
strong and robust habit of body, this diversion was
well suited to him. |
![]() |
Mentre che il re era alla caccia, venne gran voglia a Guerrino, che giovanetto era, di vedere l’uomo salvatico, e andatosene solo con l’arco, di cui molto si diletava... |
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TRADUZIONE ITALIANA |
© Adalinda
Gasparini 1996,
da
Giovan Francesco Straparola (1554–1557) Le piacevoli
notti. Notte quinta, favola I. |
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TESTO |
Giovan Francesco
Straparola, Le
piacevoli notti. A cura di
Donato Pirovano. Roma: Salerno
Editrice, 2000. 2 Tomi. Notte
quinta, favola I. Tomo II, pp.
324-343. Vedi anche: Giovan Francesco Straparola, Le piacevoli notti, a cura Giuseppe Rua. Bari: Gius. Laterza & Figli Tipografi-Editori-Librai, 1927. Online: http://www.intratext.com/IXT/ITA2969/_INDEX.HTM; consultato il 19 aprile 2013. |
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TRADUZIONE INGLESE |
From The Facetious Nights of Giovanni
Francesco Straparola, Vol. II., translated into
English by H. G. Waters; privately printed in London
for the Bibliophile Society; 1901. Night the Fifth,
the First Fable. http://elfinspell.com/Strap2Night5Fable1.html;
ultimo accesso: 18/03/17. |
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ALTRE VERSIONI |
Vedi questa fiaba anche in VENETO. Fiabe
antiche e popolari d'Italia, testi originali con
traduzione a fronte a cura di Adalinda Gasparini e
Claudia Chellini. Forlì: Foschi Editore 2018. Pp.
34-71. https://www.libreriauniversitaria.it/veneto-fiabe-antiche-popolari-italia/libro/9788833200163;
consultato il 17 ottobre 2018. |
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IMMAGINE |
Strong Hans and Iron Hans,
autore
sconosciuto; tratto da http://jungchicago.org/store/index.php?route=product/product&product_id=385;
ultimo
accesso: 18
ottobre 2018. |
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NOTE | |
Guerrino era un prode e valente cavaliere, che tante volte si era vantato di sapere come fare a uccidere il cavallo selvatico senza pericolo... | Nel mito è già presente il motivo
del vanto, di poter affrontare con successo un compito
impossibile, ricorrente in molte fiabe. Il fatto che
il vanto sia espresso dal protagonista o che altri per
distruggerlo affermino che si è vantato, non fa
differenza ai fini della dinamica della fiaba: in ogni
caso il protagonista si trova ad affrontare un compito
impossibile, e assolvendolo diventa re a sua volta,
eliminando chi aveva cercato di provocare la sua
morte. Nel mito di Perseo, secondo una versione l'eroe si vanta col re Polidette di essere in grado di portargli la testa di Medusa, mentre in un'altra versione viene costretto a compiere questa impresa dallo stesso re, che in ogni caso spera che muoia nell'impresa impossibile, per avere Danae, madre dell'eroe, in suo potere. Vedi l'episodio nelle Metamorfosi di Ovidio (Libro IV). |