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PUBLIO OVIDIO NASONE
43 A.C. - 18 D.C.

PERSEO E MEDUSA

METAMORPHOSES

LIBER IV, vv. 604-803                            LIBER V, vv. 177-268

    ADALINDA GASPARINI PSICOANALISI E FAVOLE


Durante il volo di Perseo a cavallo di Pegaso cadono dalla Gorgona gocce di sangue sulla sabbia libica: da queste hanno origine i serpenti che infestano il deserto
METAMORFOSI DI ATLANTE NEL MONTE OMONIMO

Perseo chiede ospitalità ad Atlante, il figlio di Giapeto gliela nega e tenta di sconfiggerlo; Perseo gli mostra la Gorgona e lo trasforma nel monte omonimo.
PERSEO LIBERA ANDROMEDA E UCCIDE IL DRAGO

L'eroe ha chiesto ai suoi genitori in sposa Andromeda se riuscirà a salvarla dal drago
METAMORFOSI DELLE ALGHE IN CORALLI

Dalle alghe che Perseo pone sul capo di Medusa hanno origine i coralli
PERSEO RACCONTA LA SUA IMPRESA

Pregato di farlo, al banchetto nuziale Perseo racconta come ha ricevuto oggetti magici dagli dei, e come usando uno specchio abbia colpito Medusa senza incontrare il suo sguardo pietrificante
PERSEO RACCONTA LA MALEDIZIONE DI MEDUSA

Atena trasformò in serpenti i meravigliosi capelli di Medusa perché Poseidon l'aveva violentata nel tempio consacrato ad Atena stessa.
PERSEO PIETRIFICA I SUOI NEMICI

Perseo usa la Gorgona come arma per difendersi dai nemici che sono al suo banchetto di nozze 
ORIGINE DI PEGASO E DELLA SUA FONTE

Atena ammira in compagnia delle Muse la bellezza della fonte fatta sgorgare da Pegaso con un colpo di zoccolo
RIFERIMENTI
NOTE
IMMAGINI


ORIGINE DEI SERPENTI LIBICI DAL SANGUE DI MEDUSA
LIBER IV LIBRO IV
Sed tamen ambobus versae solacia formae
605 magna nepos dederat, quem debellata colebat
India, quem positis celebrabat Achaia templis;
solus Abantiades ab origine cretus eadem
Acrisius superest, qui moenibus arceat urbis
Argolicae contraque deum ferat arma genusque
non putet esse Iovis: neque enim Iovis esse putabat
Persea, quem pluvio Danae conceperat auro.
mox tamen Acrisium (tanta est praesentia veri)
tam violasse deum quam non agnosse nepotem
paenitet: inpositus iam caelo est alter, at alter
615 viperei referens spolium memorabile monstri
aera carpebat tenerum stridentibus alis,
cumque super Libycas victor penderet harenas,
Gorgonei capitis guttae cecidere cruentae;
quas humus exceptas varios animavit in angues,
620 unde frequens illa est infestaque terra colubris.
Ma per la metamorfosi consolazione grande venne a entrambi
da Bacco, il loro nipote, venerato nell'India
convertita, onorato nell'Acaia con l'erezione di templi.
Nato dalla stessa stirpe, solo Acrisio, il figlio di Abante,
era rimasto a bandire il dio dalle mura di Argo,
la sua città, e a fargli guerra, non ritenendolo figlio
di Giove, come schiatta di Giove non riteneva
Perseo, che Dànae aveva concepito da una pioggia d'oro.
Ma presto lo stesso Acrisio, tanta è la forza della verità,
si pentì sia di avere offeso Bacco, sia d'aver misconosciuto
il nipote: assunto in cielo il primo, l'altro stava portando in patria,
solcando l'aria rarefatta con un fruscio d'ali,
a memoria indelebile, le spoglie di un mostro cinto di serpi:
e mentre trionfante si librava sulle sabbie di Libia,
dalla testa della Gòrgone caddero alcune gocce di sangue,
che, assorbite dal suolo, diedero vita alle specie dei serpenti:
per questo quella regione è infestata da un'infinità di rettili.


METAMORFOSI DI ATLANTE
LIBER IV LIBRO IV
Inde per inmensum ventis discordibus actus
nunc huc, nunc illuc exemplo nubis aquosae
fertur et ex alto seductas aethere longe
despectat terras totumque supervolat orbem.
ter gelidas Arctos, ter Cancri bracchia vidit,
saepe sub occasus, saepe est ablatus in ortus,
iamque cadente die, veritus se credere nocti,
constitit Hesperio, regnis Atlantis, in orbe
exiguamque petit requiem, dum Lucifer ignes
evocet Aurorae, currus Aurora diurnos.
Hic hominum cunctos ingenti corpore praestans
Iapetionides Atlas fuit: ultima tellus
rege sub hoc et pontus erat, qui Solis anhelis
aequora subdit equis et fessos excipit axes.
mille greges illi totidemque armenta per herbas
errabant, et humum vicinia nulla premebat;
arboreae frondes auro radiante nitentes
ex auro ramos, ex auro poma tegebant.
'hospes' ait Perseus illi, 'seu gloria tangit
te generis magni, generis mihi Iuppiter auctor;
sive es mirator rerum, mirabere nostras;
hospitium requiemque peto.' memor ille vetustae
sortis erat; Themis hanc dederat Parnasia sortem:
'tempus, Atlas, veniet, tua quo spoliabitur auro
arbor, et hunc praedae titulum Iove natus habebit.'
id metuens solidis pomaria clauserat Atlas
moenibus et vasto dederat servanda draconi
arcebatque suis externos finibus omnes.
huic quoque 'vade procul, ne longe gloria rerum,
quam mentiris' ait, 'longe tibi Iuppiter absit!'
vimque minis addit manibusque expellere temptat
cunctantem et placidis miscentem fortia dictis.
viribus inferior (quis enim par esset Atlantis
viribus?) 'at, quoniam parvi tibi gratia nostra est,
accipe munus!' ait laevaque a parte Medusae
ipse retro versus squalentia protulit ora.
quantus erat, mons factus Atlas: nam barba comaeque
in silvas abeunt, iuga sunt umerique manusque,
quod caput ante fuit, summo est in monte cacumen,
ossa lapis fiunt; tum partes altus in omnes
crevit in inmensum (sic, di, statuistis) et omne
cum tot sideribus caelum requievit in illo.

Aveva il figlio di Ippota rinchiuso i venti nel loro perpetuo
carcere e ormai alto nel cielo brillava Lucifero di luce,
spronando tutti al lavoro. Perseo riprese le sue ali
legandole ai lati dei piedi, cinse la spada ricurva
e muovendo i calzari alati solcò l'aria trasparente.
Tre volte vide le Orse gelide, tre volte le chele del Cancro,
trascinato un tempo a ponente, l'altro dove sorge il sole.
E già tramontava il giorno: temendo d'abbandonarsi alla notte,
si fermò nel territorio di Esperia, nel regno di Atlante,
per concedersi un po' di riposo finché Lucifero
non svegliasse i bagliori di Aurora e Aurora il carro del giorno.
Questo Atlante, figlio di Giàpeto, era di statura enorme,
più di qualsiasi uomo: regnava sul lembo estremo
della terra e del mare, dove le onde accolgono
i cavalli ansanti e il cocchio affaticato del Sole.
Migliaia di greggi aveva e altrettanti armenti che vagavano
Nei prati, e nessun vicino premeva ai suoi confini.
Sugli alberi fronde smaglianti per lo sfavillio
dell'oro coprivano rami d'oro, frutti d'oro.
"Straniero," gli disse Perseo, "se hai in lode la gloria
di una grande stirpe, io sono della stirpe di Giove;
se ammiri le grandi gesta, le mie ammirerai.
Chiedo ospitalità per riposarmi." Ma presente aveva Atlante
la profezia che sul Parnaso gli aveva un giorno predetto Temi:
"Tempo, Atlante, verrà, che i tuoi alberi saranno spogliati
dell'oro, e sarà un figlio di Giove a gloriarsi della preda".
Per timore di ciò aveva cintato i suoi frutteti di barriere
massicce, ne aveva affidato la custodia a un drago enorme
e vietava a qualsiasi forestiero di entrare nei suoi confini.
Anche a lui disse: "Vattene via, prima che svaniscano nel nulla
le gesta che vai millantando e nel nulla il tuo Giove!".
E aggiunse violenza alle minacce, cercando a forza di scacciarlo,
mentre resisteva alternando parole energiche alle pacate.
Il più debole (e chi mai potrebbe competere in fatto di forza
con Atlante?) gli rispose: "Visto che non conto nulla per te,
prenditi questo regalo!", e girandosi dalla parte contraria,
con la sinistra protese l'orrido volto di Medusa.
Grande quant'era, Atlante divenne un monte: barba e capelli
si mutarono in selve, spalle e mani in gioghi,
quello che un tempo era il capo nel vertice della montagna,
e le ossa in roccia. Poi, ingigantendo in ogni dove,
crebbe a dismisura (questo il volere degli dei) e tutto il cielo
con le sue innumerevoli stelle poggiò su di lui.


PERSEO LIBERA ANDROMEDA DAL DRAGO
LIBER IV
LIBRO IV
Clauserat Hippotades Aetnaeo carcere ventos,
admonitorque operum caelo clarissimus alto
Lucifer ortus erat: pennis ligat ille resumptis
parte ab utraque pedes teloque accingitur unco
et liquidum motis talaribus aera findit.
gentibus innumeris circumque infraque relictis
Aethiopum populos Cepheaque conspicit arva.
illic inmeritam maternae pendere linguae
Andromedan poenas iniustus iusserat Ammon;
quam simul ad duras religatam bracchia cautes
vidit Abantiades, nisi quod levis aura capillos
moverat et tepido manabant lumina fletu,
marmoreum ratus esset opus; trahit inscius ignes
et stupet et visae correptus imagine formae
paene suas quatere est oblitus in aere pennas.
ut stetit, 'o' dixit 'non istis digna catenis,
sed quibus inter se cupidi iunguntur amantes,
pande requirenti nomen terraeque tuumque,
et cur vincla geras.' primo silet illa nec audet
adpellare virum virgo, manibusque modestos
celasset vultus, si non religata fuisset;
lumina, quod potuit, lacrimis inplevit obortis.
saepius instanti, sua ne delicta fateri
nolle videretur, nomen terraeque suumque,
quantaque maternae fuerit fiducia formae,
indicat, et nondum memoratis omnibus unda
insonuit, veniensque inmenso belua ponto
inminet et latum sub pectore possidet aequor.
conclamat virgo: genitor lugubris et una
mater adest, ambo miseri, sed iustius illa,
nec secum auxilium, sed dignos tempore fletus
plangoremque ferunt vinctoque in corpore adhaerent,
cum sic hospes ait 'lacrimarum longa manere
tempora vos poterunt, ad opem brevis hora ferendam est.
hanc ego si peterem Perseus Iove natus et illa,
quam clausam inplevit fecundo Iuppiter auro,
Gorgonis anguicomae Perseus superator et alis
aerias ausus iactatis ire per auras,
praeferrer cunctis certe gener; addere tantis
dotibus et meritum, faveant modo numina, tempto:
ut mea sit servata mea virtute, paciscor.'
accipiunt legem (quis enim dubitaret?) et orant
promittuntque super regnum dotale parentes.
Ecce, velut navis praefixo concita rostro
sulcat aquas iuvenum sudantibus acta lacertis,
sic fera dimotis inpulsu pectoris undis;
tantum aberat scopulis, quantum Balearica torto
funda potest plumbo medii transmittere caeli,
cum subito iuvenis pedibus tellure repulsa
arduus in nubes abiit: ut in aequore summo
umbra viri visa est, visam fera saevit in umbram,
utque Iovis praepes, vacuo cum vidit in arvo
praebentem Phoebo liventia terga draconem,
occupat aversum, neu saeva retorqueat ora,
squamigeris avidos figit cervicibus ungues,
sic celeri missus praeceps per inane volatu
terga ferae pressit dextroque frementis in armo
Inachides ferrum curvo tenus abdidit hamo.
vulnere laesa gravi modo se sublimis in auras
attollit, modo subdit aquis, modo more ferocis
versat apri, quem turba canum circumsona terret.
lle avidos morsus velocibus effugit alis
quaque patet, nunc terga cavis super obsita conchis,
nunc laterum costas, nunc qua tenuissima cauda
desinit in piscem, falcato verberat ense;
belua puniceo mixtos cum sanguine fluctus
ore vomit: maduere graves adspergine pennae.
nec bibulis ultra Perseus talaribus ausus
credere conspexit scopulum, qui vertice summo
stantibus exstat aquis, operitur ab aequore moto.
nixus eo rupisque tenens iuga prima sinistra
ter quater exegit repetita per ilia ferrum.
litora cum plausu clamor superasque deorum
inplevere domos: gaudent generumque salutant
auxiliumque domus servatoremque fatentur
Cassiope Cepheusque pater; resoluta catenis
incedit virgo, pretiumque et causa laboris.
Aveva il figlio di Ippota rinchiuso i venti nel loro perpetuo
carcere e ormai alto nel cielo brillava Lucifero di luce,
spronando tutti al lavoro. Perseo riprese le sue ali
legandole ai lati dei piedi, cinse la spada ricurva
e muovendo i calzari alati solcò l'aria trasparente.
Dopo aver sorvolato e lambito innumerevoli popoli,
giunse in vista degli Etiopi e delle terre di Cefeo.
Lì Ammone aveva selvaggiamente ordinato che l'innocente
Andromeda pagasse con la vita l'arroganza della madre.
Come la vide, le braccia incatenate a un masso della scogliera
(se la brezza non le avesse scompigliato i capelli e calde lacrime
non le fossero sgorgate dagli occhi, una statua di marmo, questo
l'avrebbe creduta), Perseo senza avvedersene se ne infiammò,
rapito dal fascino che quella stupenda visione emanava,
tanto che per poco le ali non si scordò di battere nell'aria.
Sceso a terra, disse: "No, tu non meriti queste catene,
ma solo quelle che stringono nel desiderio gli amanti:
svelami, voglio saperlo, il nome di questa terra e il tuo,
e perché porti i ceppi!". Sulle prime lei tace, non osa,
lei vergine, rivolgersi a un uomo, e per timidezza si sarebbe
nascosto il volto con le mani, se non fosse stata incatenata.
Gli occhi le si riempirono di lacrime: solo questo poté.
Ma lui insisteva, e allora, perché non pensasse che gli celava
colpe sue, gli rivelò il nome della terra, il suo,
e quanta presunzione nella propria bellezza avesse riposto
sua madre. Non aveva ancora raccontato tutto, che scrosciarono
le onde e apparve un mostro, che avanzando si ergeva
sull'immensità del mare e col petto ne copriva un largo tratto.
Urlò la vergine. A lei si erano accostati il padre in lutto
e la madre, entrambi angosciati, ma a maggior ragione questa:
non le portavano aiuto, ma solo il pianto e la disperazione
per quella sventura e si stringevano al suo corpo in catene.
Intervenne allora lo straniero: "Per piangere potrete avere
tutto il tempo; per portare aiuto non c'è che un attimo.
Se io la chiedessi in sposa, io, Perseo, figlio di Giove e di colei
che fra le sbarre Giove rese madre fecondandola con l'oro,
io, Perseo, che ho vinto la Gòrgone dalla chioma di serpi e spazio
senza timore nel cielo con un battito d'ali,
sarei certo preferito a tutti come genero. Ma ancora un merito,
se mi assistono gli dei, cercherò di aggiungere a tanto prestigio.
Facciamo un patto: che sia mia, se la salvo col mio valore!".
I genitori acconsentono (chi avrebbe esitato?)
e lo scongiurano, promettendogli in più un regno in dote.
Ed ecco che come una nave, spinta dal sudore
di giovani braccia, col rostro proteso solca rapida il mare,
il mostro, fendendo i marosi con l'impeto del suo petto,
ormai non distava dallo scoglio più dello spazio che un proiettile,
scagliato dal vortice di una fionda, può percorrere nel cielo.
D'un tratto allora il giovane, puntando i piedi al suolo,
si lancia in alto fra le nubi: non appena sullo specchio d'acqua
si disegna la sua ombra, contro quella si avventa il mostro.
Come l'uccello di Giove, quando scorge in un campo aperto
una biscia che espone al sole il suo livido dorso,
l'assale alle spalle e, perché non si rivolti a ferire coi morsi,
le conficca i suoi artigli aguzzi fra le squame del collo,
così lanciandosi a capofitto nel vuoto, con volo fulmineo
l'erede di Ínaco piomba sul dorso della belva e nella scapola
le pianta il ferro, mentre si dibatte, sino al gomito dell'elsa.
Trafitta dalla profonda ferita, quella si erge qui nell'aria,
là si tuffa in acqua, lì si rivolta come un cinghiale selvatico
atterrito da una muta di cani che gli latra intorno.
Con un battito d'ali Perseo si sottrae a quei morsi rabbiosi
e dove trova un varco, vibra fendenti col filo della spada,
ora sul dorso incrostato di conchiglie, ora in mezzo alle costole,
ora dove l'esilissima coda termina in quella di un pesce.
Il mostro vomita sangue purpureo dalla bocca insieme all'acqua.
Gli spruzzi inzuppano, appesantendole, le ali di Perseo;
e lui, non osando più affidarsi a quei sandali imbevuti d'acqua,
avvistato uno scoglio la cui cima affiora quando il mare
è tranquillo, ma è sommersa quando questo è in burrasca,
vi si posa e, reggendosi con la sinistra alle sporgenze,
tre quattro volte senza tregua gli affonda la spada nelle viscere.
Grida di applauso riempiono la spiaggia e le dimore degli dei
nel cielo. Cassìope e Cefeo, il padre, esultanti salutano
Perseo come genero e lo dichiarano soccorritore
e salvatore della famiglia. Liberata dalle catene,
si avvicina la vergine, ragione e premio di quella fatica.

METAMORFOSI DELLE ALGHE INTRISE DI SANGUE IN CORALLI
LIBER IV LIBRO IV
Ipse manus hausta victrices abluit unda,
anguiferumque caput dura ne laedat harena,
mollit humum foliis natasque sub aequore virgas
sternit et inponit Phorcynidos ora Medusae.
virga recens bibulaque etiamnum viva medulla
vim rapuit monstri tactuque induruit huius
percepitque novum ramis et fronde rigorem.
at pelagi nymphae factum mirabile temptant
pluribus in virgis et idem contingere gaudent
seminaque ex illis iterant iactata per undas:
nunc quoque curaliis eadem natura remansit,
duritiam tacto capiant ut ab aere quodque
vimen in aequore erat, fiat super aequora saxum.
L'eroe intanto attinge acqua e si lava le mani vittoriose;
poi, perché la rena ruvida non danneggi il capo irto di serpi
della figlia di Forco, l'ammorbidisce con le foglie, la copre
di ramoscelli acquatici e vi depone la faccia di Medusa.
I ramoscelli freschi a ancora vivi ne assorbono nel midollo
la forza e a contatto col mostro s'induriscono,
assumendo nei bracci e nelle foglie una rigidità mai vista.
Le ninfe del mare riprovano con molti altri ramoscelli
e si divertono a vedere che il prodigio si ripete;
così li fanno moltiplicare gettandone i semi nel mare.
Ancor oggi i coralli conservano immutata la proprietà
d'indurirsi a contatto dell'aria, per cui ciò che nell'acqua
era vimine, spuntandone fuori si pietrifica.


PERSEO RACCONTA COME HA DECAPITATO MEDUSA
LIBER IV LIBRO IV
Dis tribus ille focos totidem de caespite ponit,
laevum Mercurio, dextrum tibi, bellica virgo,
ara Iovis media est; mactatur vacca Minervae,
alipedi vitulus, taurus tibi, summe deorum.
protinus Andromedan et tanti praemia facti
indotata rapit; taedas Hymenaeus Amorque
praecutiunt; largis satiantur odoribus ignes,
sertaque dependent tectis et ubique lyraeque
tibiaque et cantus, animi felicia laeti
argumenta, sonant; reseratis aurea valvis
atria tota patent, pulchroque instructa paratu
Cepheni proceres ineunt convivia regis.
Postquam epulis functi generosi munere Bacchi
diffudere animos, cultusque genusque locorum
quaerit Lyncides moresque animumque virorum;
qui simul edocuit, 'nunc, o fortissime,' dixit
'fare, precor, Perseu, quanta virtute quibusque
artibus abstuleris crinita draconibus ora!'
narrat Agenorides gelido sub Atlante iacentem
esse locum solidae tutum munimine molis;
cuius in introitu geminas habitasse sorores
Phorcidas unius partitas luminis usum;
id se sollerti furtim, dum traditur, astu
supposita cepisse manu perque abdita longe
deviaque et silvis horrentia saxa fragosis
Gorgoneas tetigisse domos passimque per agros
perque vias vidisse hominum simulacra ferarumque
in silicem ex ipsis visa conversa Medusa.
se tamen horrendae clipei, quem laeva gerebat,
aere repercusso formam adspexisse Medusae,
dumque gravis somnus colubrasque ipsamque tenebat,
eripuisse caput collo; pennisque fugacem
Pegason et fratrem matris de sanguine natos.
Addidit et longi non falsa pericula cursus,
quae freta, quas terras sub se vidisset ab alto
et quae iactatis tetigisset sidera pennis;
A tre numi Perseo innalza altrettanti altari di zolle:
quello a sinistra a Mercurio, quello a destra a te, vergine guerriera,
l'ara al centro è di Giove; e sacrifica una vacca a Minerva,
un vitello al dio alato, un toro a te, sommo fra gli dei.
E subito si prende Andromeda, premio di così grande impresa,
rinunciando alla dote. Imeneo e Amore agitano davanti
le fiaccole; si alimentano i fuochi con aromi a profusione,
ghirlande pendono dagli infissi e in ogni luogo risuonano
cetre, flauti e canti a interpretare la gioia
di quegli animi in festa. Le porte aperte mostrano gli atri
istoriati d'oro della reggia e i dignitari cefeni
affluiscono al banchetto sontuoso offerto dal sovrano.
Quando, terminato il pranzo, hanno col dono del generoso Bacco
rasserenato il cuore, il discendente di Linceo chiede notizie
sulla vita e le vicende del luogo: alla richiesta con prontezza
uno di loro gli descrive usi e costumi degli abitanti,
e al termine gli dice: "Ed ora tu, fortissimo Perseo,
racconta, ti prego, con qual valore e quali stratagemmi
mozzasti quella testa irta di serpenti".
L'erede di Agenore narra come ai piedi del gelido Atlante
si distenda un luogo protetto da un bastione invalicabile,
e come al suo ingresso abitassero due gemelle,
figlie di Forco, che si dividevano l'uso di un occhio solo;
come lui con destrezza glielo carpì, inserendo la propria mano
mentre se lo scambiavano; come attraverso sentieri sperduti
e impervi, attraverso orridi nell'intrico di foreste,
giunse alla casa di Gòrgone, e qua e là in mezzo ai campi,
nei sentieri gli avvenne di vedere figure di uomini e belve
mutati da esseri vivi in granito per aver visto Medusa.
Ma lui aveva scorto, riflessa nel bronzo dello scudo
che reggeva col braccio sinistro, l'orrenda immagine,
e mentre un sonno pesante gravava sui serpenti e su lei stessa,
le spiccò il capo dal collo: quasi fosse linfa materna
dal sangue nacquero Pegaso, l'alato destriero, e suo fratello.
Ed enumera i veri pericoli corsi nel suo lungo viaggio;
quali mari e quali terre abbia intravisto dall'alto,
quali stelle abbia raggiunto col suo battito d'ali.

PERSEO RACCONTA DI ATENA CHE MALEDISSE MEDUSA PER LA VIOLAZIONE DEL SUO TEMPIO
LIBER IV LIBRO IV

Dis tribus ille focos totidem de caespi
ante exspectatum tacuit tamen. excipit unus
ex numero procerum quaerens, cur sola sororum
gesserit alternis inmixtos crinibus angues.
hospes ait: 'quoniam scitaris digna relatu,
accipe quaesiti causam. clarissima forma
multorumque fuit spes invidiosa procorum
illa, nec in tota conspectior ulla capillis
pars fuit: inveni, qui se vidisse referret.
hanc pelagi rector templo vitiasse Minervae
dicitur: aversa est et castos aegide vultus
nata Iovis texit, neve hoc inpune fuisset,
Gorgoneum crinem turpes mutavit in hydros.
nunc quoque, ut attonitos formidine terreat hostes,
pectore in adverso, quos fecit, sustinet angues.'

Ma prima del previsto s'interrompe. Uno dei presenti interviene
allora chiedendo perché solo Medusa
fra le sorelle avesse serpenti in mezzo ai capelli.
E l'ospite risponde: "Visto che vuoi sapere cosa che merita
raccontare, eccoti il perché. Di eccezionale bellezza,
Medusa fu desiderata e contesa da molti pretendenti,
e in tutta la sua persona nulla era più splendido dei capelli:
ho conosciuto chi sosteneva d'averla vista.
Si dice che il signore del mare la violasse in un tempio
di Minerva: inorridita la casta figlia di Giove con l'egida
si coprì il volto, ma perché il fatto non restasse impunito
mutò i capelli della Gòrgone in ripugnanti serpenti.
Ancor oggi la dea, per sbigottire e atterrire i nemici,
porta davanti, sul petto, quei rettili che lei stessa ha creato".


PERSEO PIETRIFICA I SUOI NEMICI
LIBER V
LIBRO V
Verum ubi virtutem turbae succumbere vidit,
'auxilium' Perseus, 'quoniam sic cogitis ipsi,'
dixit 'ab hoste petam: vultus avertite vestros,
si quis amicus adest!' et Gorgonis extulit ora.
"quaere alium, tua quem moveant miracula' dixit
Thescelus; utque manu iaculum fatale parabat
mittere, in hoc haesit signum de marmore gestu.
proximus huic Ampyx animi plenissima magni
pectora Lyncidae gladio petit: inque petendo
dextera diriguit nec citra mota nec ultra est.
at Nileus, qui se genitum septemplice Nilo
ementitus erat, clipeo quoque flumina septem
argento partim, partim caelaverat auro,
'adspice' ait 'Perseu, nostrae primordia gentis:
magna feres tacitas solacia mortis ad umbras,
a tanto cecidisse viro'; pars ultima vocis
in medio suppressa sono est, adapertaque velle
ora loqui credas, nec sunt ea pervia verbis.
increpat hos 'vitio' que 'animi, non viribus' inquit
'Gorgoneis torpetis' Eryx. 'incurrite mecum
et prosternite humi iuvenem magica arma moventem!'
incursurus erat: tenuit vestigia tellus,
inmotusque silex armataque mansit imago.
Hi tamen ex merito poenas subiere, sed unus
miles erat Persei: pro quo dum pugnat, Aconteus
Gorgone conspecta saxo concrevit oborto;
quem ratus Astyages etiamnum vivere, longo
ense ferit: sonuit tinnitibus ensis acutis.
dum stupet Astyages, naturam traxit eandem,
marmoreoque manet vultus mirantis in ore.
nomina longa mora est media de plebe virorum
dicere: bis centum restabant corpora pugnae,
Gorgone bis centum riguerunt corpora visa.
Paenitet iniusti tum denique Phinea belli;
sed quid agat? simulacra videt diversa figuris
adgnoscitque suos et nomine quemque vocatum
poscit opem credensque parum sibi proxima tangit
corpora: marmor erant; avertitur atque ita supplex
confessasque manus obliquaque bracchia tendens
'vincis' ait, 'Perseu! remove tua monstra tuaeque
saxificos vultus, quaecumque est, tolle Medusae,
tolle, precor! non nos odium regnique cupido
conpulit ad bellum, pro coniuge movimus arma!
causa fuit meritis melior tua, tempore nostra:
non cessisse piget; nihil, o fortissime, praeter
hanc animam concede mihi, tua cetera sunto!'
talia dicenti neque eum, quem voce rogabat,
respicere audenti 'quod' ait, 'timidissime Phineu,
et possum tribuisse et magnum est munus inerti, --
pone metum! -- tribuam: nullo violabere ferro.
quin etiam mansura dabo monimenta per aevum,
inque domo soceri semper spectabere nostri,
ut mea se sponsi soletur imagine coniunx.'
dixit et in partem Phorcynida transtulit illam,
ad quam se trepido Phineus obverterat ore.
tum quoque conanti sua vertere lumina cervix
deriguit, saxoque oculorum induruit umor,
sed tamen os timidum vultusque in marmore supplex
submissaeque manus faciesque obnoxia mansit.

Quando però si accorse che al numero stava per soccombere
il valore: "Poiché voi stessi", disse, "a ciò mi costringete,
chiederò aiuto al nemico. Se un amico vi è tra voi,
volga altrove lo sguardo"; e in alto levò la testa di Gòrgone.
"Cerca qualcun altro che si spaventi ai tuoi prodigi", gli rispose
Tèscelo, e stava per scagliare un giavellotto micidiale,
ma restò immobilizzato in quell'atto, come una statua di marmo.
Accanto a lui, Ampice si avventava con la spada contro il petto
traboccante coraggio dell'erede di Linceo: nell'avventarsi
gli si irrigidì la destra e più non si mosse, né avanti né indietro.
Ed ecco Nileo, che si spacciava figlio del Nilo
diviso in sette foci, tanto da farsi cesellare lo scudo
con sette rami di fiume, parte in argento e parte in oro:
"Guarda, Perseo," disse, "chi è il capostipite della mia gente:
tra le ombre silenziose d'oltretomba gran conforto ti sarà
esser caduto per mano di tanto eroe!". Nel pronunciare
l'ultima frase, la voce si smorzò e avresti detto che, aperta,
la bocca volesse parlare, ma sfogo non dava alle parole.
Tuonando contro costoro: "Non per il potere di Gòrgone",
gridò Èrice, "v'intorpidite, ma per mancanza di coraggio!
Via, via, con me! abbattete quel giovane che brandisce magie!".
Pronto all'attacco era: il suolo trattenne i suoi passi
e come una pietra immobile rimase, una statua in armi.
Questi in verità meritata avevano la pena; ma ci fu
un soldato di Perseo, Aconteo, che mentre per lui si batteva,
faccia a faccia si trovò con Gòrgone e si contrasse in pietra.
Astiage, credendolo ancora vivo, lo colpì di taglio
con la spada e questa risuonò con stridulo tintinnio.
Ancora sgomento, Astiage subì la medesima metamorfosi
e sul viso ormai di marmo si fissò un'espressione di stupore.
Troppo tempo ci vorrebbe per elencare i nomi dei guerrieri
meno in vista. Duecento ne restavano da battere:
duecento corpi alla vista di Gòrgone impietrirono.
Solo allora Fineo si pentì di quell'iniqua battaglia.
Ma che poteva fare? Vedeva statue in pose diverse,
riconosceva i suoi e, chiamandoli ciascuno per nome,
chiedeva aiuto, non credendo ai propri occhi,
toccava i più vicini: marmo. Si volse e tendendo
di traverso mani e braccia, come chi supplica e ammette la colpa:
"Hai vinto, Perseo! Deponi il tuo mostro, occulta il volto
che pietrifica di questa tua Medusa, qualunque cosa sia;
occultalo, ti prego! Non mi ha spinto a guerra l'odio
o l'ambizione di regnare: per la mia sposa ho preso le armi.
A tuo favore stanno i meriti, al mio la precedenza.
Mi pento di non aver ceduto: nient'altro accordami
oltre la vita, insuperabile guerriero: il resto prendilo!
E parlava senza avere il coraggio di guardare in volto
chi implorava. "Pavidissimo Fineo", gli rispose quello,
"ti concederò quanto posso concederti ed è un gran dono
per un vile, non temere: nessun'arma ti scalfirà.
Al contrario, ti donerò un monumento che rimanga nei secoli:
sempre ti si potrà ammirare nella casa di mio suocero,
perché mia moglie si consoli col ritratto del suo pretendente."
Così disse, e nella direzione in cui aveva Fineo sgomento
spinto il suo viso, spostò la testa della figlia di Forco.
Anche allora egli cercò di rivolgere altrove lo sguardo:
il collo s'irrigidì, le sue lacrime si fecero di pietra;
e nel marmo rimasero fissati un'espressione di terrore,
lo sguardo implorante, le mani tese in preghiera e un'aria umiliata.

ORIGINE DELLA FONTE DI PEGASO
LIBER V
LIBRO V
Hactenus aurigenae comitem Tritonia fratri
se dedit; inde cava circumdata nube Seriphon
deserit, a dextra Cythno Gyaroque relictis,
quaque super pontum via visa brevissima, Thebas
virgineumque Helicona petit. quo monte potita
constitit et doctas sic est adfata sorores:
'fama novi fontis nostras pervenit ad aures,
dura Medusaei quem praepetis ungula rupit.
is mihi causa viae; volui mirabile factum
cernere; vidi ipsum materno sanguine nasci.'
excipit Uranie: 'quaecumque est causa videndi
has tibi, diva, domos, animo gratissima nostro es.
vera tamen fama est: est Pegasus huius origo
fontis' et ad latices deduxit Pallada sacros.
quae mirata diu factas pedis ictibus undas
silvarum lucos circumspicit antiquarum
antraque et innumeris distinctas floribus herbas
felicesque vocat pariter studioque locoque
Mnemonidas...

Sin qui al fianco del fratello, nato da una pioggia d'oro,
si era stretta Pallade; ma da Serifo, nascosta in una nube,
l'abbandonò, lasciando a destra Citno e Gìaro,
e per la via che le parve più breve sul mare, raggiunse Tebe
e l'Elicona delle Muse. Arrivata sul monte,
si fermò, rivolgendo la parola a quelle sapienti sorelle:
"Alle mie orecchie è giunta notizia di una nuova fonte,
fatta scaturire dal duro zoccolo di Pegaso.
Per questo sono qui: volevo visitare questa meraviglia,
perché ho visto nascere il cavallo alato dal sangue di Medusa".
Le rispose Urania: "Qualunque sia il motivo per cui tu visiti
questa nostra dimora, o dea, lietissime ne siamo.
E la notizia è vera: sì, fu Pegaso a far scaturire
questa fonte". E condusse Pallade alla sacra polla.
A lungo lei ammirò le linfe sgorgate dai colpi di zoccolo,
contemplò tutt'intorno i recessi delle foreste secolari,
le grotte e i prati punteggiati d'innumerevoli fiori,
rallegrandosi con le figlie di Mnemòsine per l'arte loro
e il luogo...









RIFERIMENTI


Testo latino
http://www.miti3000.it/mito/biblio/ovidio/metamorfosi/quinto.htm; ultimo accesso: 19 febbraio 2012
Traduzione italiana
http://la.wikisource.org/wiki/Metamorphoseon; ultimo accesso: 19 febbraio 2012.
Vedi anche Bibliografia.





NOTE


Proposito del 7 febbraio 2012

Da approfondire la straordinaria intuizione dei grandi artisti, che scolpiscono lo stesso volto per Medusa e Perseo, aggiungendo il loro proprio volto sulla nuca dell'eroe, come Cellini, o dando a Medusa stessa il loro volto, come  Caravaggio sullo scudo da parata.
Il mistero dell'arte, che si apre e si chiude nell'orizzonte umano, ha lo stesso carattere unheimlich della realtà psichica. Si condensa forse nell'immagine di Medusa?
Da non dimenticare che il cavallo alato nasce dalla sua decapitazione e fa sgorgare la meravigliosa fonte dove vivono le ninfe, ammirata da Atena nelle Metamorfosi ovidiane. L'orrore di Medusa ha un significato apotropaico - sono gorgonici tanti portafortuna e tanti mascheroni sui battenti e sui portoni delle case. Anche il corallo, nato dai rametti a contatto col sangue della pietrificante, è un portafortuna, considerato adatto a tenere lontano il malocchio da chi lo indossa. (7 febbraio 2012)
APPUNTI DEL 28 OTTOBRE 2018













Rivedendo questa pagina nell'ottobre 2018 non riesco a resistere alla tentazione di anticipare qualcosa. Avrei dovuto farlo con ben altro rigore, o dovrei rinunciare a parlarne. Ma la rete mi invita ad anticipare qualcosa.
Freud diceva che i primi, e i migliori, conoscitori della psiche sono i poeti, e i pittori sono poeti, artisti del linguaggio, verbale o non verbale, capaci di figurare, di rendere presente l'assente, fornendogli lo spazio della memoria che lega le generazioni presenti alle precedenti, tramontate, alle seguenti, non ancora sorte. Se la forza evolutiva di homo sapiens è nata dalla sua capacità di costituire gruppi di adulti bambini e vecchi. con gli adulti che curavano gli altri, dopo aver ricevuto cure da piccoli, e sperando di riceverle da vecchi, se la potenza di questo processo ha potuto poggiare sull'estro umano che permette di vivere la sessualità e la procreazione ininterrottamente per decenni all'uomo e alla donna, anziché per pochi giorni una o due volte l'anno, come accade ai mammiferi, allestire uno spazio per rendere presenti gli assenti, già vissuti o non ancora vissuti, i nostri antenati e i nostri discendenti, è pensabile come la scoperta originaria che ha accelerato la nostra trasformazione di noi stessi e del nostro ambiente. Il terrore della morte non è quindi relativo alla nostra personale scomparsa, ma alla perdita del legame con chi ci ha preceduto e con chi con vivrà dopo di noi. Questa è la fonte della religione - religare - che col rito e la parola consacrata e rafforza questo legame.
Non so se potrò dire qualcosa oltre questo cenno, per ora mi tocca esplicitare queste poche righe per dire cosa mi cattura nel mito di Perseo e Medusa e nelle opere d'arte ad esso dedicate, in minima parte presenti in questa pagina.

Medusa rappresenta la massima bellezza, e al potere di attrazione della grazia femminile, non al violentatore dio del mare Poseidon, Atena, custode della strategia in guerra delle arti femminili - tessere, tramare, ricamare, cucire - e dell'intelligenza, imputa la violazione del suo tempio. Se l'irresistibile attrazione della donna entra nel tempio del pensiero, occorre punire tragicamente la detentrice di questo potere. La bellissima Medusa - ben presente a Bernini che la raffigura nel momento in cui subisce la punizione per una colpa non sua, la metamorforsi della sua chioma, la più bella della Grecia, in un nido di serpenti - si duole della sua condizione, senza potervisi opporre. La gioia estatica dell'unione erotica fra due creature non può avvenire nel tempio della dea che protegge le arti femminili e l'intelletto, la dea che protegge Ulisse ogni volta che può, perché Ulisse è l'uomo che doma la passione con la mente, e per questo può salvarsi da tutti i luoghi numinosi del Mediterraneo, così come può mettere un termine alla guerra infinita, quella che tutti i greci combattono sotto le indistruttibili mura della grande città di Troia, il loro Oriente. Occorre separare l'estasi nella quale si esalta, come nei mistici e nelle mistiche, l'eros che non conosce confine fra lecito e illecito, giusto e ingiusto, infero e supero, e può sovvertire il pensiero che tesse e trama e risolve le guerre mettendo loro fine. Se la memoria non mi inganna, nella Roma antica i templi dedicati ad Afrodite erano circondati da piante di mirto, pianta odorosa che non era lecito piantare intorno ai tempi dedicati ad altre divinità. Il confine fra estasi e follia nei conventi femminili e maschili è posto con processi lunghi e laboriosi dalle autorità ecclesiastiche, e dubitiamo che non siano stati fatti errori. Le mura dei manicomi che per un paio di secoli hanno isolato e contenuto la follia non la contengono più, ma le mura cadute si sono riformate immediatamente, e non sono solo quelle fatte di psicofarmaci. (Ovvio andare con la mente a Foucault)
La bellezza irresistibile si trasforma in irresistibile terrore, pietrificante: chi guarda la Gorgona dopo la sua metamorfosi, si trasforma in pietra. Nelle fiabe la pietrificazione - per fortuna quasi sempre reversibile, a differenza che nel mito di Medusa - avviene per l'irresistibile potere della verità, come quella sulla propria ignota origine, svelata senza cautela dall'Augel Belverde. In questo contesto non ci pare un caso che secondo la fiaba solo la sorella possa toccare e portar con sé il magico uccello parlante, mentre i principi suoi fratelli - e tutti gli altri nobili giovani che prima di loro hanno tentato l'impresa - diventano pietra proprio sentendolo parlare.
Bisogna, come farà Perseo, usare lo scudo come specchio, mirare Medusa nel suo riflesso, in modo che il suo sguardo, posandosi sull'eroe, non lo uccida pietrificandolo. Di questa verità dell'eros femminile irresistibile dopo l'intervento di Atena si può mirare solo un riflesso. E si può farlo solo avendo anche se solo in prestito gli oggetti magici di Ermes, dio dell'intelligenza e dell'inganno, sia gioco della mente, sia raggiro. Mediatore tra vivi e morti, Ermes è la figura del visibile che è allo stesso tempo invisibile, dato che può rendersi invisibile a suo piacimento - prerogativa che erediterà suo figlio Autolico, vero principe dei ladri, e nonno paterno di Ulisse.

La civiltà richiede in prima battuta che la seduzione non violi, depontenziandolo, il luogo dell'intelligenza e dell'identità - i lavori femminili tessono e cuciono abiti, forme dell'identità stessa, che fanno e non fanno il monaco, e l'uomo, e la donna, che indicano il potere, ma anche la nudità del potente, come nella fiaba degli abiti nuovi dell'imperatore di Andersen. Atena non può perdonare la violazione del suo tempio, nel quale è avvenuto lo stupro di Poseidon su Medusa, e non può contenere l'impeto del dio, ovvero il suo divino arbitrio - modello eterno del libero arbitro umano, quasi solo maschile finora -, ma trasformare la bellezza, da ricercare, nella bruttezza anguicrinita, da rifuggire.
In seconda battuta l'eroe elimina - rimuove completamente - la Gorgona anguicrinita per dimenticare il pericolo di mescolare eros e civiltà, nella misura in cui eros, anarchico e capace di far tremare le gambe e cedere la volontà degli immortali come dei mortali, eccede il terreno che gli viene assegnato. E in effetti Eros per non scomparire, per rendersi accettabile, si rifugia nell'arte, e nell'arte si ritrovano Medusa bellissima e Medusa pietrificante. Maquel che più mi attrae, quel che invito a considerare, è che l'artista stesso diventa portatore della sovversione erotica: cielo e terra sono legate da Eros, ma questo legame è ammesso per il mistico, per l'amante, per il poeta, lo scultore, il pittore.
Vedere il patto precario che sta a monte della civiltà di homo sapiens significa farsi tagliare la testa, essere pietrificati, morire oe ssere esclusi dal consesso umano. L'artista, come lo scienziato, è circondato da nemici, solo un'altra vita gli permetterebbe di farsi amare, di rendersi gradito a chi gli sta intorno, la famiglia, quella d'origine e quella che si sceglie o si costrisce, i suoi compagni di strada, gli amici. La tendenza a vedere Meduse, senza scudo, senza specchio, è mortale. Ma c'è l'opera, è questa la seconda vita che sembrava impossibile.

L'artista trova in se stesso, prima della separazione, indistinti e potentissimi proprio per questa indistinzione, eros e pensiero, maschile e femminile, chioma bellissima irresistibile, e serpenti pietrificanti. Per questo  è colmo di compassione per l'umanità intera, per questo è isolato. Nessun possibilità di dirlo, se non con la semplicità gnomica della quartina di settenari di Sandro Penna. Sperando e disperando in una forma di comprensione, per capire, per esser capiti:

Felice chi è diverso
essendo egli diverso

ma guai a chi è diverso

essendo egli comune.


 IMMAGINI



Piero di Cosimo
Caravaggio
Lorenzo Bernini
Liberazione di Andromeda
1510-1513
Bacchino malato
1593
Medusa, scudo da parata
autoritratto, 1598
Anima dannata
autoritratto 1619
Metamorfosi di Medusa
1640
L'episodio delle Metamorfosi è rappresentato fedelmente in una raffigurazione sincronica e circolare, che costituiscono un'unica sequenza visiva, rendendo il senso ovidiano della trasmutazione continua degli esseri. (Vedi: Uffizi)

Come Benvenuto Cellini, così anche Caravaggio e Lorenzo Bernini si ritraggono come Medusa. Per Bernini la somiglianza è fra la chioma metamorfica di Medusa e quella dell'anima dannata, con serpenti e ricci intrecciati,mentre il volto esprime stupore affranto per la tragica punizione di Atena. 



Edward Burne-Jones (1833-1898) The Perseus Series








Perseo e Atena
Perseo e le ninfe
Perseo e le Graie
Crisaore e Pegaso
Atlante trasformato in monte
Perseo e Andromeda
Perseo combatte il drago
Allo specchio con Medusa
Nell'ultima immagine a destra, Perseo e Andromeda si specchiano in un pozzo insieme a Medusa, la cui testa è tenuta alta dalla sinistra dell'eroe. Guardando l'immagine ingrandita è possibile vedere che lo sguardo di Andromeda è rivolto al riflesso di Medusa, il cui sguardo è sigillato dalla morte, mentre Perseo sinistra, guarda Andromeda, non il suo riflesso. Il riflesso di Medusa permette ai due amanti di tenersi per mano, e di guardarsi? Garante e perturbante, Medusa è una delle figure più dense dell'immaginario umano.
Da non fissare, da non dimenticare, da guardare riflessa in un pozzo, per guardarsi.


Benvenuto Cellini, Perseo con la testa di Medusa, 1545-1554



Commissionata da Cosimo I per celebrare il suo trionfo sui nemici interni ed esterni, l'opera è una celebrazione della malinconia dell'artista,
con Perseo e Medusa che si somigliano come due gemelli, ai quali somiglia anche il volto di Cellini sulla nuca di Perseo.
L'artista era considerato sotto il segno di Saturno, dominato dalla bile nera, portato alla malinconia; si ricordi la Melancholia I, incisione di Albrecht Dürer, del 1514.

La fusione del Perseo, avvenuta nel 1545, dalla Vita di Benvenuto Cellini fiorentino scritta (per lui medesimo) in Firenze ; scritta fra il 1558 e il 1566, pubblicata la prima volta nel 1728


Di poi che io ebbi dato il rimedio attutti questi gran furori, con voce grandissima dicevo ora a questo e ora a quello: - Porta qua, leva là - di modo che, veduto che 'l detto migliaccio si cominciava a liquefare, tutta quella brigata con tanta voglia mi ubbidiva che ogniuno faceva per tre. Allora io feci pigliare un mezzo pane di stagno, il quale pesava in circa a 6o libbre, e lo gittai in sul migliaccio dentro alla fornace, il quale, cone gli altri aiuti e di legne e di stuzzicare or co' ferri e or cone stanghe, in poco spazio di tempo e' divenne liquido. Or veduto di avere risuscitato un morto, contro al credere di tutti quegli ignoranti, e' mi tornò tanto vigore che io non mi avvedevo se io avevo piú febbre o piú paura di morte. Innun tratto ei si sente un romore con un lampo di fuoco grandissimo, che parve propio che una saetta si fussi creata quivi alla presenza nostra; per la quale insolita spaventosa paura ogniuno s'era sbigottito, e io piú degli altri. Passato che fu quel grande romore e splendore, noi ci cominciammo a rivedere in viso l'un l'altro; e veduto che 'l coperchio della fornace si era scoppiato e si era sollevato di modo che 'l bronzo si versava, subito feci aprire le bocche della mia forma e nel medesimo tempo feci dare alle due spine. E veduto che 'l metallo non correva con quella prestezza ch'ei soleva fare, conosciuto che la causa forse era per essersi consumata la lega per virtú di quel terribil fuoco, io feci pigliare tutti i mia
piatti e scodelle e tondi di stagno, i quali erano in circa a dugento, e a uno a uno io gli mettevo dinanzi ai mia canali, e parte ne feci gittare drento nella fornace; di modo che, veduto ogniuno che 'l mio bronzo s'era benissimo fatto liquido, e che la mia forma si empieva, tutti animosamente e lieti mi aiutavano e ubbidivano; e io or qua e or là comandavo, aiutavo e dicevo: - O Dio, che con le tue immense virtú risuscitasti da e' morti, e glorioso te ne salisti al cielo! - di modo che innun tratto e' s'empié la mia forma; per la qual cosa io m'inginochiai e con tutto 'l cuore ne ringraziai Iddio; dipoi mi volsi a un piatto d'insalata che era quivi in sur un banchettaccio, e con grande appetito mangiai e bevvi insieme con tutta quella brigata; dipoi me n'andai nel letto sano ellieto, perché gli era due ore innanzi il giorno; e come se mai io non avessi aùto un male al mondo, cosí dolcemente mi riposavo. (Benvenuto Cellini, Vita, paragrafo LXXIII, pag. 160). La straordinaria fusione del Perseo comincia con Cosimo I che non crede possibile realizzare l'opera (paragrafo LXXIII, p. 157), e si conclude col successo, con Cellini che nonostante fosse a letto tanto malato da temere di morire si alza, salva la fusione che si è interrotta, e salvando il Perseo guarisce da tutti i mali: "E cosí tutta la mia povera famigliuola, rimossa da tanto spavento e da tante smisurate fatiche, innun tratto si mandò a ricomperare, in cambio di quei piatti e scodelle di stagno, tante stoviglie di terra, e tutti lietamente desinammo, che mai non mi ricordo in tempo di mia vita né desinare con maggior letizia né con migliore appetito. Dopo 'l desinare mi vennono a trovare tutti quegli che mi avevano aiutato, i quali lietamente si rallegravano, ringraziando Iddio di tutto quel che era occorso, e dicevano che avevano imparato e veduto fare cose, le quali era dagli altri maestri tenute impossibili." (paragrafo LXXVII, pag. 161)

Cosimo I chiede a Cellini di celebrare il suo potere, di mostrare la sua capacità di paralizzare i nemici esterni e i ribelli interni, come Perseo che trionfa rivolgendo contro di loro lo scudo con Medusa. E invece Cellini col gioco delle somiglianze, che sarà seguito anche da Caravaggio e Bernini dopo di lui, mostra il mistero dell'arte, che non trionfa nel dominio sugi altri neanche quando compie imprese come la fusione del Perseo. Perché la metamorfosi è la costante nella condizione umana e nell'arte, come Ovidio ci insegna. Un'analogia di questa concezione è con la Teoria della catastrofi del matematico francese René Thom, per il quale non le forme ma i loro cambiamenti sono le costanti da indagare.

Una straordinaria costante: Perseo con la testa di Medusa è tuttora davanti al Palazzo della Signoria, lo stesso luogo per il quale era stato destinato, lo stesso nel quale i fiorentini lo ammirarono la prima volta. Se n'era allontanato brevemente per un restauro.
Un segno di resistenza al potere?







Online dal 7 febbraio 2012
Ultima revisione 5 marzo 2024