ADALINDA GASPARINI              PSICOANALISI E FAVOLE

FIABE ITALIANE ANTICHE, REGIONALI E ALLOGLOTTE

GIOVAN FRANCESCO STRAPAROLA

BIANCABELLA E LA BISCIA SUA SORELLA


ITALIANO VENETO
1551-1553


Regnava, già gran tempo fa, in Monferrato un marchese potente di stato e di ricchezze, ma de figliuoli privo, e Lamberico per nome si chiamava. Essendo egli desideroso molto di avergliene, la grazia da Iddio gli era denegata. Avenne un giorno che, essendo la marchesana in uno suo giardino per diporto, vinta dal sonno a’ piedi d’uno albero s’addormentò, e così soavemente dormendo venne una biscia piccioletta, e accostatasi a lei e andatasene sotto e’ panni suoi, senza che ella sentisse cosa alcuna, nella natura entrò, e sottilissimamente ascendendo, nel ventre della donna si puose, ivi chetamente dimorando. Non stette molto tempo che la marchesana con non picciolo piacere ed allegrezza di tutta la città, s’ingravidò, e giunta al termine del parto, parturí una fanciulla con una biscia che tre volte l’avinchiava il collo. Il che vedendo, le comari che l’allevavano si paventarono molto. Ma la biscia, senza offesa alcuna dal collo della bambina disnodandosi, e serpendo la terra e distendendosi, nel giardino se n’andò. Nettata ed abbellita che fu la bambina nel chiaro bagno, ed involta nelli bianchissimi pannicelli, a poco a poco incominciò scoprirsi una collana d’oro sottilissimamente lavorata, la quale era sì bella e sì vaga, che tra carne e pelle non altrimenti traspareva di ciò che soglino fare le preciosissime cose fuori d’un finissimo cristallo. E tante volte le circondava il collo, quante la biscia circondato le aveva. La fanciulla, a cui per la bellezza Biancabella fu posto il nome, in tanta virtù e gentilezza cresceva, che non umana ma divina pareva.
Essendo già Biancabella venuta alla età di dieci anni, ed essendosi posta ad uno verone e avendo veduto il giardino di rose e vaghi fiori tutto pieno, si volse verso la balia che la custodiva, e le dimandò che cosa era quello che più per lo adietro veduto non aveva. A cui risposo fu essere uno luogo della madre chiamato giardino, nel quale alle volte ne prende diporto. Disse la fanciulla:
– Io la più bella cosa non vidi giamai e volontieri dentro v’anderei –.
La balia presala a mano, nel giardino la menò, e separatasi alquanto da lei, sotto l’ombra d’un fronzuto faggio si puose a dormire, lasciando la fanculla prendere piacere per lo giardino. Biancabella tutta invaghita del dilettoso luogo, andava or quinci or quindi raccogliendo fiori, ed essendo omai stanca all’ombra d’un albero si puose a sedere. Non s’era appena la fanciulla rassettata in terra, che sopragiunse una biscia e accostòsi a lei. La quale Biancabella vedendo, molto si paventò, e volendo gridare, le disse la biscia:
– Deh, taci, e non ti movere, né aver pavento, perciò che ti sono sorella e teco in un medesimo giorno e in uno stesso parto nacqui, e Samaritana per nome mi chiamo. E se tu sarai ubidiente a’ miei comandamenti, farotti beata, ma altrimenti facendo, verrai la più infelice e più scontenta donna, che mai nel mondo si trovasse. Va’ adunque senza timore alcuno e dimani fati recare nel giardino duo vasi, de’ quai l’uno sia di puro latte pieno e l’altro d’acqua rosata finissima, e poi tu sola senza compagnia alcuna a me te ne verrai –.
Partita la biscia, levossi la fanciulla da sedere, ed andossene alla balia, la qual ritrovò ch’ancora riposava, e destatala e con esso lei senza dir cosa alcuna se n’andò in casa.
Venuto il giorno seguente ed essendo Biancabella con la madre in camera sola, assai nella vista sua malanconosa le parve. Laonde la madre le disse:
– Che hai tu Biancabella che star sì di mala voglia ti veggio? tu eri allegra e festevole  e ora tutta mesta e dolorosa mi pari –.
A cui la figliuola rispose:
– Altro non ho io se non che io vorrei duo vasi, i quali fussero nel giardino portati, uno de’ quai fusse di latte e l’altro di acqua rosata pieno.
– E per sì picciola cosa tu ti ramarichi, figliuola mia? – disse la madre – non sai tu che ogni cosa è tua –.
E fattisi portar duo bellissimi vasi grandi, uno di latte e l’altro d’acqua rosata, nel giardino li mandò. Biancabella, venuta l’ora, secondo l’ordine con la biscia dato, senza essere d’alcuna damigella accompagnata, se n’andò al giardino, e aperto l’uscio, sola dentro si chiuse, e dove erano gli vasi, a sedere si puose. Non si fu sì tosto posta Biancabella a sedere che la biscia se le avicinò e fecela immantinente spogliare, e così ignuda nel bianchissimo latte entrare, e con quello da capo a’ piedi bagnandola e con la lingua lingendola, la nettò per tutto dove difetto alcuno parere le potesse. Dopo, tratta fuori di quel latte, nell’acqua rosata la pose, dandole un odore che a lei grandissimo refrigerio prestava. Indi la rivestì, comandandole espressamente che tacesse e che a niuna persona tal cosa scoprisse, quantunque il padre o la madre fusse. Perciò che voleva che niuna altra donna si trovasse, che a lei in bellezza  ed in gentilezza agguagliar si potesse. E addotatala finalmente d’infinite virtù, da lei si partì.
Uscita Biancabella del giardino, ritornò a casa e vedutala la madre sì bella e leggiadra, ch’ogn’altra di bellezza e leggiadria avanzava, restò sopra di sé e non sapea che dire. Ma pur la dimandò come aveva fatto a venire in tanta estremità di bellezza. Ed ella non sapere, le rispondeva. Tolse allora la madre il pettine per pettinarla e per conciarle le bionde trezze, e perle e preziose gioie le cadevano dal capo; e lavateglie le mani, uscivano rose, viole e ridenti fiori di vari colori con tanta soavità de odori che pareva che ivi fusse il paradiso terrestre. Il che vedendo la madre, corse a Lamberico suo marito e con materna alegrezza li disse:
– Signor mio, noi abbiamo una figliuola la più gentile, la più bella e la più leggiadra che mai natura facesse. Ed oltre la divina bellezza e leggiadria che in lei chiaramente si vede, da gli capelli suoi escono perle, gemme ed altre preciosissime gioie, e dalle candide mani, o cosa ammirabile!, vengono rose, viole e d’ogni sorte fiori, che rendono a ciascuno che la mira soavissimo odore. Il che mai creduto non arrei, se con e’ propri occhi veduto non l’avesse –.
Il marito, che per natura era incredulo e non dava sì agevolmente piena fede alle parole della moglie, di ciò se ne rise, e la berteggiava; pur fieramente stimolato da lei, volse vedere che cosa ne riusciva. E fattasi venire la figliuola alla sua presenza, trovò vie più di quello che la moglie detto gli aveva. Il perché in tanta allegrezza divenne, che fermamente giudicò non esser al mondo uomo che congiungersi con essa lei in matrimonio degno fusse.
Era già per tutto l’universo divolgata la gloriosa fama della vaga e immortal bellezza di Biancabella: e molti re, principi e marchesi da ogni parte concorrevano, acciò che il  lei amore acquistassino e in moglie l’avessino. Ma niuno di loro fu di tanta virtù che aver la potesse, perciò che ciascuno di loro in alcuna cosa era manchevole.
Finalmente sopragiunse Ferrandino re di Napoli, la cui prodezza e chiaro nome risplendeva come il sole tra le minute stelle, e andatosene al marchese, gli dimandò la figliuola per moglie. Il marchese vedendolo bello, leggiadro e ben formato e molto potente e di stato e di ricchezze, conchiuse le nozze, e chiamata la figliuola, senza altra dimoranza si toccorno la mano e basciorono. Non si fu sì tosto contratto il sponsalizio, che Biancabella si rammentò delle parole che Samaritana sua sorella amorevolmente dette l’avea, e discostatasi dal sposo e fingendo di voler fare certi suoi servigi, in camera se n’andò, e chiusasi dentro, sola per un usciolo secretamente entrò nel giardino. E con bassa voce cominciò chiamare Samaritana. Ma ella non più come prima se le appresentava. Il che vedendo Biancabella molto si maravigliò, e non trovandola né veggendola in luogo alcuno del giardino, assai dolorosa rimase, conoscendo ciò essere avenuto per non esser lei stata ubidiente a’ suoi comandamenti. Onde ramaricandosi tra sé stessa, ritornò in camera e aperto l’uscio si pose a sedere appresso il suo sposo che lungamente aspettata l’aveva.
Or finite le nozze, Ferrandino la sua sposa a Napoli trasferì, dove con gran pompa e glorioso trionfo e sonore trombe fu da tutta la città orrevolmente ricevuto. Aveva Ferrandino matrigna con due figliuole sozze e brutte, e desiderava una di loro con Ferrandino in matrimonio copulare. Ma essendole tolta ogni speranza di conseguir tal suo desiderio, se accese contra di Biancabella di tanta ira e sdegno, che non pur veder, ma sentire non la voleva, fingendo però tuttavia d’amarla e averla cara.
Volse la fortuna che il re di Tunisi fece un grandissimo apparecchiamento per terra e per mare per mover guerra a Ferrandino, non so se questo fusse per causa della presa moglie over per altra cagione, e già col suo potentissimo essercito era penetrato nelle confine del suo reame. Laonde fu dibisogno che Ferrandino prendesse l’arme per difensione del regno suo e raffrontasse il nimico. Onde messosi in punto di ciò che li faceva mistieri e raccomandata Biancabella, che gravida era, alla matrigna, col suo essercito si partì.
Non passorono molti giorni che la malvagia e proterva matrigna deliberò Biancabella far morire, e chiamati certi suoi fidati servi, li comise che con esso lei andar dovessino in alcun luoco per diporto, e indi non si partisseno se prima da loro uccisa non fusse, e per certezza della morte sua le recassino qualche segno. Gli servi pronti al mal fare furono ubidienti alla signora, e fingendo di andare ad uno certo luogo per diporto, la condussero ad uno bosco dove già di ucciderla si preparavano, ma vedendola sì bella e sì graziosa, gli venne pietà e uccidere non la volsero, ma le spiccarono ambe le mani dal busto e gli occhi dal capo le trassero, portandogli alla matrigna per manifesta certezza che uccisa la avevano. Il che vedendo l’empia e cruda matrigna paga e molto lieta rimase. E pensando la scelerata matrigna di mandar ad effetto il suo maligno proponimento, seminò per tutto il regno che le due figliuole erano morte, una di continova febbre, l’altra per una postema vicina al cuore ch’affoccata l’aveva, e che Biancabella per lo dolore della partita del re disperso aveva un fanciullo, e sopragiunta le era una terzana febbre che molto la distruggeva, e che vi era più tosto speranza di vita che temenza di morte. Ma la malvagia e rea femina in vece di Biancabella teneva nel letto del re una delle sue figliuole, fingendo lei esser Biancabella da febbre gravata.
Ferrandino, che l’essercito del nimico aveva già sconfitto e disperso, a casa si ritornava con glorioso trionfo, e credendosi ritrovare la sua diletta Biancabella tutta festevole e gioconda, la trovò che macra scolorita e disforme nel letto giaceva. E accostatosi ben a lei e guatatala fiso nel volto e vedutala sì distrutta, tutto stupefatto rimase, non potendosi in modo alcuno imaginare che ella Biancabella fusse; e fattala pettinare, in vece di gemme e preciose gioie, che dalle bionde chiome solevano cadere, uscivano grossissimi pedocchi che ogni ora la divoravano; e dalle mani, che ne uscivano rose ed odoriferi fiori, usciva una lordura e uno succidume che stomacava chi le stava appresso. Ma la scelerata donna lo confortava, e gli diceva questa cosa avenire per la lunghezza della infermità che tali effetti produce.
La misera adunque Biancabella con le mani monche e cieca d’ambi gli occhi nel luogo solingo e fuor di mano solletta in tanta afflizione si stava, chiamando sempre e richiamando la sorella Samaritana che aiutare la dovesse; ma niuno vi era che le rispondesse se non la risonante Eco che per tutta l’aria si udiva.



Mentre che la infelice donna dimorava in cotal passione, vedendosi al tutto priva di umano aiuto, ecco entrare nel bosco un uomo attempato molto, benigno di aspetto e compassionevole assai. Il quale udita che ebbe la mesta e lamentevol voce, a quella con le orecchi accostatosi e pian piano con piedi avicinatosi, trovò la giovane cieca e monca delle mani, che della sua dura sorte fieramente si ramaricava. Il buon vecchio vedutala, non puoté sofferire che tra bronchi, dumi e spini rimanesse, ma vinto da paterna compassione, a casa la condusse e alla moglie la raccomandò, imponendole strettissimamente che di lei cura avesse. E voltatosi a tre figliuole, che tre lucidissime stelle parevano, caldamente le comandò che compagnia tenere le dovessino, carezzandola a tutte l’ore e non lasciandole cosa veruna mancare. La moglie, che più cruda era che pietosa, accesa di rabbiosa ira contra il marito, impetuosamente si volse e disse:
– Deh, marito, che volete voi che noi facciamo di questa femina cieca e monca non già per le sue virtù ma per guidardone de’ suoi benemeriti? –
A cui il vecchiarello con sdegno rispose:
– Fa’ ciò che io ti dico; e se altrimenti farai, non mi aspettar a casa.
Dimorando adunque la dolorosa Biancabella con la moglie e le tre figliuole e ragionando con esso loro di varie cose e pensando tra sé stessa alla sua sciagura, pregò una delle figliuole che le piacesse pettinarla un poco. Il che intendendo la madre, molto si sdegnò, perciò che non voleva in guisa alcuna che la figliuola divenisse come sua servitrice. Ma la figliuola, più che la madre pia, avendo a mente ciò che comesso le aveva il padre, e vedendo non so che uscire dall’aspetto di Biancabella che dimostrava segno di grandezza in lei, si scinse il grembiule di buccato che dinanzi teneva, e stesolo in terra, amorevolmente la pettinava. Né appena cominciato aveva pettinarla che delle bionde trezze scaturivano perle, rubini, diamanti ed altre preciose gioie. Il che vedendo la madre, non senza temenza tutta stupefatta rimase, e l’odio grande che prima le portava in vero amore converse. E ritornato il vecchiarello a casa, tutte corsero ad abbracciarlo, rallegrandosi molto con esso lui della sopragiunta ventura a tanta sua povertà. Biancabella si fece recare una secchia d’acqua fresca, e fecesi lavare il viso e i monchi, dalli quali, tutti vedendo, rose, viole e fiori in abondanza scaturivano. Il perché non umana persona, anzi divina la reputorono tutti.
Avenne che Biancabella deliberò di ritornare al luogo dove fu già dal vecchiarello trovata. Ma il vecchiarello, la moglie e le figliuole, vedendo l’utile grande che di lei n’apprendevano, l’accarezzavano e instantemente la pregavano che in modo alcuno partire non si dovesse, allegandole molte ragioni acciò che rimovere la potessino. Ma ella salda nel suo volere volse al tutto partirsi, promettendogli tuttavia di ritornare. Il che sentendo, il vecchio senza indugio alcuno al luoco dove trovata l’avea, la ritornò. Ed ella al vecchiarello impose che si partisse, e la sera ritornasse a lei, che ritornerebbe con esso lui a casa.
Partitosi adunque il vecchiarello, la sventurata Biancabella cominciò andare per la selva, Samaritana chiamando, e le strida e i lamenti andavano fino al cielo. Ma Samaritana, quantunque appresso le fusse né mai abbandonata l’avesse, rispondere non le voleva. La miserella vedendosi spargere le parole al vento, disse:
– Ché debbo io più fare al mondo dopo che io son priva de gli occhi e delle mani e mi manca finalmente ogni soccorso umano? –
Ed accesa da uno furore che la tolleva fuor di speranza della sua salute, come disperata si voleva uccidere. Ma non avendo altro modo di finir la sua vita, prese il cammino verso l’acqua, che poco era lontana per attuffarsi, e giunta in su la riva già per entro gittarsi, udì una tonante voce che diceva:
– Ahimè, non fare né voler di te stessa esser omicida! riserba la tua vita a miglior fine –.
Allora Biancabella per tal voce smarrita, quasi tutti i capelli addosso si sentì arricciare. Ma parendole conoscere la voce, preso alquanto l’ardire e disse:
– Chi sei tu che vai errando per questi luochi, e con voce dolce e pia ver me ti dimostri?
– Io sono – rispose la voce – Samaritana tua sorella, la quale tanto instantemente chiami –.
Il che udendo, Biancabella con voce da fervidi singolti interrotta le disse:
– Ah, sorella mia, aiutami ti prego, e se io dal tuo consiglio scostata mi sono, perdono ti chiedo, perciò che errai, ti confesso il fallo mio, ma l’error fu per ignoranza, non per malizia, ché se per malizia stato li fusse, la divina providenza non l’arrebbe lungo tempo sustenuto –.
Samaritana udito il compassionevole lamento e vedutala così maltrattata, alquanto la confortò, e raccolte certe erbucce di maravigliosa virtù, e postele sopra gli occhi e giungendo due mani alle braccia, immantinente la risanò. Poscia Samaritana, deposta giú la squallida scorza di biscia, una bellissima giovinetta rimase.
Già il sole nascondeva gli suoi fogluenti rai e le tenebre della notte cominciavano apparire, quando il vecchiarello con frettoloso passo giunse alla selva, e trovò Biancabella che con un’altra ninfa sedeva. E miratala nel chiaro viso, stupefatto rimase, pensando quasi ch’ella non fusse. Ma poi che conosciuta l’ebbe, le disse:
– Figliuola mia, voi eravate stamane cieca e monca; come siete voi così tosto guarita? –
Rispose Biancabella:
– Non già per me, ma per virtù e cortesia di costei che meco siede, la quale mi è sorella –.
E levatesi ambedue da sedere, con somma allegrezza insieme con il vecchio se n’andorono a casa, dove dalla moglie e dalle figliuole furono amorevolmente ricevute.
Erano già passati molti e molti giorni quando Samaritana, Biancabella ed il vecchiarello con la moglie e con le tre figliuole andorono alla città di Napoli per ivi abitare, e veduto un luogo vacuo che era al dirimpetto del palazzo del re, ivi si posero a sedere, e venuta la buia notte, Samaritana, presa una vergella di lauro in mano, tre volte percosse la terra dicendo certe parole, le quali non furono appena fornite di dire, che scaturì un palazzo, il più bello e il più superbo che si vedesse giamai.
Fattosi Ferrandino re la mattina per tempo alla finestra, vide il ricco e maraviglioso palazzo e tutto attonito e stupefatto rimase. E chiamata la moglie e la matrigna lo vennero a vedere. Ma ad esse molto dispiacque, perciò che dubitavano che alcuna cosa sinistra non le avenisse. Stando Ferrandino alla contemplazione del detto palazzo e avendolo d’ogni parte ben considerato, alzò gli occhi e vide per la finestra d’una camera due matrone che di bellezza facevano invidia al sole. E tantosto che l’ebbe vedute, gli venne una rabbia al cuore, perciò che gli parve una di loro la sembianza di Biancabella tenere. E addimandòle chi fussero e donde venisseno. A cui fu risposto che erano due donne fuoruscite e che venivano di Persia con il loro avere, per abitare in questa gloriosa città. E addimandate se grato averebbono che da lui e dalle sue donne visitate fussero, gli risposero che caro le sarebbe molto, ma che era più convenevole ed onesto che elle, come suddite, andassero a loro, che elle, come signore e reine, venissero a visitarle.
Ferrandino, fatta chiamare la reina e le altre donne, con esso loro, ancor che ricusassino di andare, temendo forte la loro propinqua roina, se ne girono al palazzo delle due matrone, le quali con benigne accoglienze e onesti modi onoratissimamente le ricevettero, mostrandogli le ampie logge e spaziose sale e ben ornate camere, le cui mura erano d’alabastro e porfido fino, dove si vedevano figure che vive parevano.
Veduto che ebbero il pomposo palazzo, la bella giovane, accostatasi al re, dolcemente lo pregò che si degnasse con la sua donna di voler un giorno con esso loro desinare. Il re, che non aveva il cuor di pietra ed era di natura magnanimo e liberale, graziosamente tenne lo invito. E rese le grazie dell’onorato accetto che le donne fatto gli avevano, con la reina si partì ed al suo palazzo ritornò. Venuto il giorno del deputato invito, il re, la reina e la matrigna regalmente vestite ed accompagnate da diverse matrone, andorono ad onorare il magnifico prandio già lautamente apparecchiato. E data l’acqua alle mani, il siniscalco mise il re e la reina ad una tavola alquanto più eminente ma propinqua alle altre; dopo fece tutti gli altri secondo il loro ordine sedere e a gran agio e lietamente tutti desinarono. Finito il pomposo prandio e levate le mense, levòsi Samaritana in piedi, e voltatasi verso il re e la reina, disse:
– Signor, acciò che noi non stiamo nell’ozio avvolti, qualcuno proponga alcuna cosa che sia di piacere e contento –.
Il che tutti confirmarono esser ben fatto. Ma non vi fu però veruno che proponere ardisse. Onde vedendo Samaritana tutti tacere, disse:
– Dopo che niuno si move a dire cosa alcuna, con licenza di vostra maestà, farò venire una delle nostre donzelle che ci darà non picciolo diletto –.
E fatta chiamare una damigella, che Silveria per nome si chiamava, le comandò che prendesse la cetra in mano e alcuna cosa degna di laude ed in onore del re cantasse. La quale ubidientissima alla sua signora, prese la cetra e fattasi al dirimpetto del re con soave e dilettevol voce, toccando col plettro le sonore corde, ordinatamente li raccontò l’istoria di Biancabella, non però mentovandola per nome; e giunta al fine de l’istoria, levossi Samaritana e addimandò al re qual convenevole pena, qual degno supplicio meritarebbe colui che sì grave eccesso avesse commesso. La matrigna, che pensava con la pronta e presta risposta il difetto suo coprire, non aspettò che ’l re rispondesse, ma audacemente disse:
– Una fornace fortemente accesa sarebbe a costui poca pena a quella che egli meriterebbe –.
Allora Samaritana, come bragia di fuoco nel viso avampata, disse:
– E tu sei quella rea e crudel femina per la cui cagione fu tanto errore commesso. E tu malvagia e maladetta con la propria bocca te stessa ora dannasti –.
E voltasi Samaritana al re, con allegra faccia gli disse:
– Questa è la vostra Biancabella. Questa è la vostra moglie da voi cotanto amata. Questa è colei senza la quale voi non potevate vivere –.
E in segno della verità comandò alle tre dongelle, figliole del vecchiarello, che in presenza del re le pettinassino i biondi e crespi capelli, da i quali, come è detto di sopra, ne uscivano le care e dilettevoli gioie, e dalle mani scaturivano matuttine rose e odorosi fiori. E per maggior certezza dimostrò al re il candidissimo collo di Biancabella intorniato da una catenella di finissimo oro, che tra carne e pelle naturalmente come cristallo traspareva. Il re conosciuto che ebbe per veri indici e chiari segni lei esser la sua Biancabella, teneramente cominciò a piangere e abbracciarla. Ed indi non si partì che fece accedere una fornace, e la matrigna e le figliuole messevi dentro. Le quali, tardi pentute del peccato suo la loro vita miseramente finirono. Appresso questo, le tre figliuole del vecchiarello orrevolmente furono maritate, e Ferrandino re con la sua Biancabella e Samaritana lungamente visse, lasciando dopo di sé eredi legittimi nel regno.




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TESTO Giovan Francesco Straparola (1554–1557) Le piacevoli notti. A cura di Donato Pirovano. Roma: Salerno Editrice, 2000. 2 Tomi. Notte terza, Favola III. Tomo I, pp. 199–214.
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ALTRE VERSIONI
Vedi questa fiaba anche in VENETO. Fiabe antiche e popolari d'Italia, testi originali con traduzione a fronte a cura di Adalinda Gasparini e Claudia Chellini. Forlì: Foschi Editore 2018
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IMMAGINE Da Arthur Rackham. John Milton's Comus, Illustrated by Arthur Rackham; New York Doubleday Page & Co. London William Heinemann, 1921; Tav. IX fuori testo.
Fonte: http://www.archive.org/stream/comusillustrated00miltuoft#page/74/mode/2up; consultato il 2 maggio 2024.
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NOTE


[N]ella natura entrò, e sottilissimamente ascendendo, nel ventre della donna si puose, ivi chetamente dimorando. La gravidanza magica dalla quale nasceranno la principessa e la biscia ricorda le Metamorfosi di Ovidio, testo di riferimento per la mitologia classica fin dal Medioevo, dove si racconta come il re fondatore di Tebe Cadmo, già trasformato in serpente, abbracci la sposa Armonia:  

Dixerat. Ille suae lambebat coniugis hora,
Inque sinus caros, veluti cognosceret, ibat,
et dabat amplexus adsuetaque colla petebat.
(Ovidio, Metamorfosi, IV, 595-597)
Così disse. Lambiva il viso della sposa sua,
e si muoveva nell'amato seno, come se lo conoscesse,
e stringendola nell'amplesso tendeva al collo, intimo a lui.
(Traduzione nostra)

Per l'intero episodio, nella traduzione di Giovanni Andrea dell'Anguillara (1563), al quale segue la storia di Perseo, vedi http://it.wikisource.org/wiki/Le_Metamorfosi/Libro_Quarto; consultato il 2 maggio 2024.





















 © Adalinda Gasparini
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Ultima revisione 2 maggio 2024