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SAN GIULIANO OSPITALIERE

DALLA LEGENDA AUREA DI JACOPO DA VARAGINE
SEC. XIII

DAI TROI CONTES DI GUSTAVE FLAUBERT
1877


   ADALINDA GASPARINI                 PSICOANALISI E FAVOLE






XXX 4. DE SANCTO JULIANO
SAN GIULIANO OSPITALIERE

Fuit etiam alius Julianus qui utrumque parentem nesciens occidit cumque is Julianus praedictus juvenis ac nobilis quadam die venationi insisteret et quendam cervum repertum insequeretur, subito cervus versus eum divino nutu se vertit eique dIxit: tu me insequeris, qui patris et matris tuae occisor eris? Quod ille audiens vehementer extimuit et, ne sibi forte contingeret, quod a cervo audierat, relictis omnibus e/clam discessit, ad regionem valde remotam pervenit ibique cuidam principi adhaesit et tam strenue ubique et in bello et in pace se habuit, quod princeps eum militem fecit et quandam castellanam viduam in conjugem ei tradidit et castellum pro dote accepit.
Interea parentes Juliani pro amissione filii Juliani nimium dolentes vagabundi ubique pergebant et filium suum sollicite quaerebant: tandem ad castrum, ubi Julianus praeerat, devenerunt. Tunc autem Julianus a caslro casu recesserat. Quos cum uxor Juliani vidisset et, quinam essent, inquisivisset et illi omnia, quae filio suo acciderant, enarrassent, intellexit, quod viri sui parentes erant, ut puto, quia hoc a viro suo forte frequenter audierat. Ipsos igitur benigne suscepit et pro amore viri sui lectum iis dimisit et ipsa sibi alibi lectulum collocavit. Facto autem mane castellana ad ecclesiam perrexit et ecce Julianus mane veniens in thalamum quasi uxorem suam excitaturus intravit et inveniens duos pariter dormientes, uxorem cum adultero suo, silenter extracto gladio ambos pariter interemit. Exiens autem domum vidit uxorem ejus ab ecclesia revertentem et admirans interrogavit, quinam essent illi, qui in suo lecto dormirent, at illa ait: parentes vestri sunt, qui vos diutissime quaesierunt, et eos in vestro thalamo collocavi. Quod ille audiens paene ecxanimis effectus amarissime flere coepit ac dicere: heu miser quid faciam? Quia dulcissimos meos parentes occidi; ecce impletum est verbum cervi, quod dum vitare volui, miserrimus adimplevi. Jam vale soror dulcissima, quia de caetero non quiescam, donec sciam, quod Deus poenitentiam meam acceperit. Cui illa: absit, dulcissime frater, ut te deseram et sine me abeas, sed quae fui tecum particeps gaudii, ero particeps et doloris.
Tunc insimul recedentes juxta quoddam magnum flumen, ubi multi periclitabantur, quoddam hospitale maximum statuerutn, ut ibi poenitentiam facerent et omnes, qui vellent transire fluvium , incessanter transveherent et hospitio universos pauperes reciperent. Post multum vero temporis media nocte, dum Julianus fessus quiesceret et gelu grave esset, audivit vocem miserabiliter lamentantem ac Julianum, ut se traduceret, lugubri voce iuvocantem: quod ille audiens concitus surrexit et jam gelu deficientem inveniens in domum suam portavit et ignem accendens ipsum calefacere studuit. Sed cum calefieri non posset et, ne ibi deficeret, timeret, ipsum in lectulum suum portavit et diligenter cooperuit. Post paululum ille, qui sic infirmus et quasi leprosus apparuerat, splendidus scandet ad aethera et hospiti suo dixit: Juliane, dominus misit me ad te, mandans tibi, quod tuam poenitentiam acceptavit et ambo post modicum in domino quiescetis.
Sicque ille disparuit et Julianus cum uxore sua post modicum plenus bonis operibus et eleemosinis in domino requievit.
Fue ancora un altro Giuliano, il quale uccise il padre e la madre, a sé niscentemente. Uno die che costui, il quale era un gentile giovane, intendeaa cacciare e inseguiva un cerbio, il cerbio rivoltosi a lui, sì li disse: «Tu mi vieni pure dietro, il quale sarai micidiale di padre e di madre?». Quegli, udendo ciò, fortemente isbigottio; e perché non li avenisse quel che avea udito dal cerbio, in celato, lasciando ogni cosa, si partìo; e vennesene a una contrada molto da lungi, e accostossì là ad uno prencipe, e portossi sì valentremente in ogni luogo e in battaglia e in palazzo che il prencipe li fece cavaliere e dielli per moglie una gran castellana vedova e ricevette il castello per dote.
Infrattanto il padre e la madre di Giuliano, contristati molto de la perduta del loro figliuolo, sì si misero a andare per lo mondo sollicitemente, per ogne parte cercando del loro figliuolo. A la perfine capitarono al castello del quale Giuliano era signore, e con ciò fosse cosa che egli non vi fosse allora e la moglie domandasse chi e' fossero, coloro le dissero ciò ch'era intervenuto loro e al figliuolo, sì che ella intese, per quelle parole, ched ell'erano il padre e la madre del suo marito, come quella che avea udito dire ispesse volte dal marito ogne cosa. Ricevetteli dunque benignamente e, per amore del marito, diede loro a giacere nel letto suo e ella si fece un altro letto per sé in un altro luogo. Sì che, fatta la mattina, la castellana se  n'andò a la chiesa; e Giuliano, tornando la mattina, entròe in camera quasi come volesse isvegliare la moglie sua; e veggendo dormire due insieme, pensò che la moglie fosse con uno adoltero: chetamente trasse fuori la spada e amendue gli uccise. E uscendo de la casa, vide la moglie tornare da la chiesa; e, maravigliandosi, domandò ch'erano quegli che dormiano nel letto, e quella disse: «È il vostro padre e la vostra madre, chevi sono andati caendo uno buono tempo, e io gli ho messi nel letto vostro». Quegli, udendo ciò, divenne quasi morto e cominciò a piagnere amarissimamente e a dire: «Oimè, misero, che farò? che io hoe morto el mio dolcissimo padre e la mia dolcissima madre! Ecco ch'è compiuta la parola del cerbio; la quale volendo ischifare, io, misero, l'hoe adempiuta! Ora sta sana, serocchia mi dolcissima, però che da qui innanzi non poserò insino a tanto ch'io sappia se Domenedio abbia ricevuta la penitenza mia». E quella disse: «Non piaccia a Dio, dolcissimo fratello, che io ti lasci; ma perch'io sono stata teco parzonevole d'allegrezza, sarò anche compagna di dolore».
Allora, partendosi da quello luogo, vennero ad uno grande fiume là dove molti pericolavano, e ivi ordinarono uno grandissimo spedale per fare iviritto la penitenza; e tutti coloro che volessero passare il fiume, continuamente trasportassero e nel loro albergo ricevessero tutti i poveri.
Sì che, dopo molto tempo, una mezzanotte riposandosi Giuliano, ch'era molto lasso, ed essendo uno grandissimo freddo, udìe una voce chemiserabilmente si lamentava, e con voce di pianto chiamava che fosse trapassata. Quelli, udendo ciò, tosto si levò, ed intendendo che già venìa meno di freddo, portonelo in casa sua e, accendendo il fuoco, brigossi di riscaldarlo. Ma non potendolo riscaldare e temendo che non venisse meno di gelo, sì ne lo portò al letto suo, e misselo dentro, e sì lo coperse finemente e bene. E, poco stante, colui il quale parea lebbroso, isplendente n'andòe in aria e disse a l'oste suo: «O Giuliano, il SIgnore mi mandò a te, e mandati a dire ch'egli ha accettata la tua penitenzia, e abendue dopo poco tempo dormirete in pace».
E così quegli disparette; e Giuliano e la sua moglie, pieno di buone operazioni e di limosine, si riposò in Cristo.




GUSTAVE FLAUBERT

SAN GIULIANO OSPITALIERE

I
1
Il padre e la madre di Giuliano abitavano un castello, in mezzo ai boschi, sul declivio di una collina. Le quattro torri agli angoli avevano tetti a punta coperti di lamelle di piombo e la base delle mura poggiavano sui blocchi di roccia, che sprofondavano a picco nel fondo dei fossati. Il selciato del cortile era liscio come il pavimento di una chiesa. Lunghe grondaie, raffiguranti draghi con le fauci in giù, rovesciavano l'acqua piovana verso la cisterna; e sul davanzale delle finestre, a tutti i piani, in un vaso d'argilla dipinta, sbocciava un basilico o un eliotropio. Una seconda cinta, fatta di pali, chiudeva prima un verziere di alberi da frutta, quindi un'aiuola dove i fiori si combinavano in modo da disegnare cifre, poi un pergolato con nicchie per prendere il fresco, e un gioco di pallamaglio che serviva al divertimento dei paggi. Dall'altro lato si trovavano il canile, le scuderie, il forno, il frantoio e i granai. Un pascolo di erba verde si stendeva tutt'attorno, chiuso a sua volta da una spessa siepe di rovi. Si viveva in pace da così lungo tempo che la saracinesca non si abbassava più; i fossati erano pieni d'acqua; le rondini facevano il nido nelle fessure dei merli; e l'arciere che durante tutto il giorno passeggiava su e giù sulla cortina, appena il sole scottava troppo rientrava: nella garitta, e si addormentava come un frate. All'interno, i metalli rilucevano dappertutto; gli arazzi nelle camere proteggevano dal freddo; e gli armadi traboccavano di biancheria, le botti vino si ammonticchiavano nelle cantine; i forzieri di quercia scricchiolavano sotto il peso dei sacchi di monete. Nella sala d'armi, tra gli stendardi e le teste di bestie, feroci, si vedevano armi di tutti i tempi e di tutte le nazioni, dalle fionde degli Amaleciti e i giavellotti dei Garamanti alle daghe dei Saracini e ai giachi di maglia dei Normanni.
2
Lo spiedo grande della cucina poteva arrostire un bue; la cappella era sontuosa come l'oratorio di un re. C'era anche in un luogo appartato, un calidario alla romana; ma il buon signore se ne asteneva, considerandolo un'usanza da idolatri.
Sempre avvolto in una pelliccia di volpe, girava per la casa, rendeva giustizia ai vassalli, metteva pace nelle contese dei vicini. Durante l'inverno, guardava i fiocchi di neve cadere, oppure si faceva leggere delle storie. Alle prime belle giornate, se ne andava sulla sua mula lungo piccoli sentieri, costeggiando le spighe verdeggianti, e conversava con i contadini, ai quali dava consigli. Dopo molte avventure, aveva preso in moglie una damigella d'alto lignaggio.
Ella era molto bianca, un poco altera e seria. Le punte della sua cuffia sfioravano gli architravi delle porte; lo strascico della sua veste di panno la seguiva di tre passi.
La sua vita domestica era regolata come all'interno di un monastero; ogni mattina distribuiva il lavoro alle serve, sorvegliava le confetture e gli unguenti, filava alla canocchia o ricamava tovaglie d'altare. A forza di pregare Dio, le arrivò un figlio.
Allora ci furono grandi festeggiamenti, e un banchetto che durò tre giorni e quattro notti, alla luce delle fiaccole, al suono delle arpe, su tappeti di frasche.
Vi si mangiarono le più rare spezie, con polli grossi come montoni; per divertimento, un nano saltò fuori da un timballo; e, non bastando più le tazze, poiché la folla aumentava sempre, furono costretti a bere negli olifanti e negli elmi. La puerpera non assistette a quelle feste. Se ne stava nel suo letto, tranquillamente.

3
Una sera, si destò, e scorse, sotto un raggio di luna che entrava dalla finestra, qualcosa come un'ombra che si muoveva. Era un vecchio vestito di un saio di bigello, con un rosario al fianco, una bisaccia sulla spalla, tutto l'aspetto di un eremita. Si avvicinò al suo capezzale e le disse, senza dischiudere le labbra:
- Rallegrati, o madre! tuo figlio sarà un santo!
Ella stava per gridare; ma, scivolando sul raggio della luna, egli s'innalzò pian piano nell'aria, poi scomparve. I canti del banchetto esplosero più forti. Ella udì le voci degli angeli; e la testa le ricadde sul guanciale, che un osso di martire in una cornice di rubini dominava.
Il giorno dopo, tutti i servitori interrogati dichiararono di non aver veduto nessun eremita. Sogno o realtà, quello doveva essere un messaggio del cielo; ma ella ebbe cura di non dire nulla, temendo che l'accusassero d'orgoglio. I convitati se ne andarono all'alba e il padre di Giuliano si trovava fuori della postierla, dove aveva appena accompagnato l'ultimo di loro, quando improvvisamente un mendicante gli si levò davanti, nella nebbia. Era uno zingaro con la barba intrecciata, anelli d'argento alle due braccia e le pupille fiammeggianti. Balbettò con aria ispirata queste parole senza nesso:
- Ah! Ah! Tuo figlio!... molto sangue!... molta gloria!... sempre felice! La famiglia di un imperatore.
E, abbassandosi per raccogliere l'elemosina, si perse nell'erba, svanì.
4
Il buon castellano guardò a destra e a sinistra, chiamò finché poté. Nessuno! Il vento fischiava, le brume del mattino si dileguavano. Attribuì questa visione alla stanchezza della mente per aver dormito troppo poco. «Se ne parlo, si burleranno di me,» si disse. Tuttavia gli splendori destinati a suo figlio lo abbagliavano, per quanto la promessa non fosse chiara ed egli dubitasse persino d'averla udita.
Gli sposi si nascosero l'un l'altro il loro segreto. Ma tutti e due amavano il figlio di pari amore; e, rispettandolo come segnato da Dio, ebbero per la sua persona riguardi infiniti. Il suo lettino era riempito della piuma più fine; una lampada a forma di colomba vi ardeva sopra, continuamente; tre nutrici lo cullavano e, ben avvolto nelle fasce, la faccia rosea e gli occhi azzurri, con il mantello di broccato e la cuffia tempestata di perle, sembrava un Gesù Bambino. I denti gli spuntarono senza che piangesse una sola volta.
Quando ebbe sette anni, la madre gli insegnò a cantare. Per renderlo coraggioso, il padre lo pose in groppa a un grosso cavallo. Il bambino sorrideva di piacere, e non tardò a sapere tutto ciò che concerne i destrieri. Un vecchio monaco molto sapiente gli insegnò la santa Scrittura, la numerazione araba, le lettere latine e a fare pitture leggiadre su finissima pergamena. Lavoravano insieme, in cima a una torretta, lontano dai rumori. Finita la lezione, scendevano in giardino, dove, andando passo passo, studiavano i fiori.

5
Talvolta si vedeva una fila di bestie da soma che camminavano in fondo alla valle, condotte da un uomo a piedi, vestito all'orientale. Il castellano, che aveva riconosciuto in lui un mercante, gli mandava incontro un domestico. Lo straniero, presa fiducia, interrompeva il suo cammino; e, introdotto nel parlatorio, tirava fuori dai suoi scrigni pezze di velluto e di seta, gioielli, aromi, cose singolari di uso sconosciuto; alla fine il brav'uomo se ne andava, con un grosso guadagno, senza aver subíto alcuna violenza.
Altre volte, una schiera di pellegrini bussavano alla porta. I loro abiti bagnati fumavano davanti al camino; e, quando erano sazi, raccontavano i loro viaggi: l'errare delle navi sul mare schiumoso, le marce a piedi nelle sabbie ardenti, la ferocia dei pagani, le caverne della Siria, il Presepio e il Santo Sepolcro. Poi davano al giovane signore qualche conchiglia del loro mantello. Spesso il castellano festeggiava i suoi vecchi compagni d'armi. Mentre bevevano, rievocavano le guerre, gli assalti alle fortezze con i colpi delle macchine da guerra e le prodigiose ferite. Giuliano, che li ascoltava, esplodeva in grida; allora il padre non dubitava che col tempo sarebbe diventato conquistatore. Ma alla sera, nell'uscire dall'angelus, quando passava tra i poveri a capo chino, tirava fuori le monete dalla sua borsa con tanta modestia e un'aria così nobile, che la madre contava di vederlo in futuro arcivescovo. Il suo posto nella cappella era a fianco dei genitori; e per quanto lunghe fossero le sacre funzioni, rimaneva genuflesso sul suo inginocchiatoio, il berretto in terra e le mani giunte.
Un giorno, durante la messa, scorse, alzando il capo, un topolino bianco che usciva da un buco, nel muro. Esso trotterellò sul primo gradino dell'altare, e, dopo due o tre giri a destra e a sinistra, fuggì dalla stessa parte.
6
La domenica seguente, l'idea che avrebbe potuto rivederlo lo turbò. Esso ritornò; e, ogni domenica lo aspettava, ne era infastidito, prese a odiarlo, e decise di sopprimerlo.
Così dopo aver chiuso la porta, e aver seminato sui gradini le briciole di un dolce, si appostò davanti al buco con una bacchetta in mano. Dopo parecchio tempo un muso rosa spuntò, poi il topo tutto intero. Egli dette un colpo leggero, e rimase stupito davanti a quel piccolo corpo che non si muoveva più.
Una goccia di sangue macchiava la pietra. L'asciugò svelto con la manica, gettò fuori il topo, e non ne fece parola con nessuno.
Uccelletti d'ogni specie becchettavano le sementi del giardino. Escogitò di mettere dei piselli in una canna cava. Quando udiva cinguettare in un albero, si avvicinava pian piano, poi alzava la cannuccia, gonfiava le gote, e le bestiole gli piovevano sulle spalle così abbondantemente che non poteva impedirsi di ridere, felice della sua trovata.
Un mattino, mentre se ne tornava per la cortina, vide sulla cima del bastione un grosso colombo che gonfiava il petto al sole. Giuliano si fermò a contemplarlo; il muro in quel punto aveva una breccia, si trovò sotto mano una scheggia di pietra. Roteò il braccio, e la pietra abbatté l'uccello che cadde di peso nel fossato.
Si precipitò sul fondo, lacerandosi nei cespugli, frugando dappertutto più svelto di un giovane cane. Il colombo, con le ali spezzate, palpitava, sospeso tra i rami di un ligustro. Il persistere della sua vita irritò il ragazzo.
Si mise a strangolarlo; e le convulsioni dell'uccello gli facevano battere il cuore, lo riempivano di una voluttà selvaggia e tumultuosa. All'ultimo irrigidimento, egli si sentì venir meno.

7
La sera, a cena, suo padre dichiarò che alla sua età si doveva imparare, la caccia; e andò a cercare un vecchio quaderno che conteneva, sotto forma di domande e risposte, tutto l'essenziale della caccia. Un maestro vi spiegava all'allievo l'arte di addestrare i cani e di addomesticare i falconi, di tendere le trappole, come riconoscere il cervo dagli escrementi, la volpe dalle impronte, il lupo dalle zampate nel terreno, il modo giusto di distinguere le loro tracce, come si scovano, dove si trovano di solito i loro rifugi, quali sono i venti più propizi, con l'elenco dei gridi e le regole per le parti della preda da dare in pasto ai cani. Quando Giuliano fu in grado di recitare a memoria tutte queste cose, suo padre gli mise insieme una muta.
Anzitutto vi si notavano ventiquattro levrieri barbareschi, più veloci delle gazzelle, ma facili a infuriarsi; poi diciassette coppie di cani bretoni, picchiettati di bianco su fondo rosso, irremovibili nella loro ostinazione, dal petto gagliardo e l'urlo possente. Per attaccare il cinghiale e per le pericolose false piste, c'erano quaranta grifoni, villosi come orsi. I mastini di Tartaria, alti quasi come asini, del colore del fuoco, con il dorso largo e il garretto dritto, erano riservati all'inseguimento degli uri. Il mantello nero dei cani spagnoli luccicava come raso, l'abbaiare dei talbotti valeva quello dei cantatori inglesi. In un cortile a parte latravano, scuotendo la catena e roteando le pupille, otto alani, bestie formidabili che saltano al ventre dei cavalieri e non hanno paura dei leoni. Tutti mangiavano pane di frumento, bevevano in abbeveratoi di pietra, e avevano nomi squillanti.
La schiera dei falconi, forse, superava la muta; il buon signore, a forza di denaro, si era procurato terzuoli del Caucaso, sagri di Babilonia, girifalchi

8
di Alemagna, e falconi viaggiatori, catturati sulle scogliere, in riva ai mari freddi, in paesi lontani. Vivevano in un capannone coperto di stoppie, e, attaccati, per ordine di statura sulla gruccia, avevano davanti una zolla erbosa, dove di tanto in tanto venivano posti perché si sgranchissero. Borse, esche, trabocchetti, furono approntati ordigni di ogni sorta. Spesso conducevano nella campagna cani da piuma, che si mettevano presto in ferma. Allora i battitori, avanzando a passo a passo, stendevano con cautela sui loro corpi impassibili un'immensa rete. Un dato comando li faceva abbaiare; le quaglie si alzavano in volo; e le dame dei dintorni invitate con i loro mariti, i bambini, le cameriere, tutti vi si gettavano sopra, e le prendevano facilmente. Altre volte, per stanare le lepri, battevano il tamburo; le volpi cadevano nelle fosse, oppure una tagliola, scattando, imprigionava la zampa di un lupo.
Ma Giuliano disprezzò quei comodi artifici; preferiva cacciare lontano dalla gente, con il cavallo e il falcone. Si trattava quasi sempre di un gran tartaretto di Scizia, bianco come la neve. Il suo cappuccio di cuoio era sormontato da un pennacchio, sonagli d'oro tremavano ai suoi piedi azzurri: e si teneva saldo sul braccio del padrone mentre il cavallo galoppava e le pianure si snodavano. Giuliano, sciogliendo i lacci, lo lasciava andare di colpo; l'animale arditamente saliva nell'aria dritto come una freccia; e si vedevano due macchie ineguali volteggiare, congiungersi, poi scomparire in alto nell'azzurro del cielo.
Il falcone non tardava a scendere dilaniando un uccello, e tornava a posarsi sul guanto di ferro, con le ali frementi. In tal modo Giuliano cacciò al volo l'airone, il nibbio, la cornacchia e l'avvoltoio.

9
Gli piaceva, suonando la tromba, seguire i suoi cani che correvano sul pendio delle colline, saltavano i ruscelli, risalivano verso il bosco; e, quando il cervo cominciava a gemere sotto i morsi, si affrettava ad abbatterlo, poi si dilettava della furia dei mastini che lo divoravano, tagliato a pezzi sulla sua pelle fumante. Nei giorni di nebbia; s'addentrava in una palude per appostare le anatre, le lontre e i germani. Tre scudieri, sin dall'alba, lo attendevano ai piedi della scalinata; e il vecchio monaco, sporgendosi dal suo abbaino, aveva un bel far cenni per richiamarlo, Giuliano non si voltava indietro. Andava nell'ardore del sole, sotto la pioggia, con la tempesta, beveva l'acqua delle fonti nel cavo della mano, mangiava trottando mele selvatiche, se era stanco si riposava sotto una quercia; e rincasava nel cuore della notte, coperto di sangue e di fango, con spine nei capelli e addosso l'odore delle bestie feroci. Divenne simile a loro. Quando la madre lo abbracciava, accoglieva con freddezza la sua stretta, sembrava pensasse a cose profonde.
Uccise orsi a colpi di coltello, tori con l'ascia, cinghiali con lo spiedo; e una volta addirittura, non avendo più altro se non un bastone, si difese contro alcuni lupi che rosicchiavano cadaveri ai piedi di una forca. Un mattino d'inverno, partì avanti giorno, ben equipaggiato, con una balestra sulla spalla e un turcasso pieno di frecce appeso all'arcione della sella. Il suo ginnetto danese, seguito da due bassotti, camminando con passo regolare, faceva risonare il terreno. Gocce di brina gelata gli si appiccicavano al mantello; soffiava una brezza violenta. Un lato dell'orizzonte si rischiaro; e, nella luce bianca del crepuscolo vide alcuni conigli saltellare sull'orlo delle loro tane.

10
I due bassotti, subito, si precipitarono su di essi; e, or qua or là, rapidamente, spezzavano loro la schiena. Poco dopo, egli entrò in un bosco. In cima a un ramo, un gallo cedrone intirizzito dal freddo dormiva con la testa sotto l'ala. Giuliano, con un colpo di spada, gli recise le due zampe, e senza raccoglierlo continuò la sua strada. Tre ore dopo, si trovò sulla vetta di una montagna così alta che il cielo sembrava quasi nero. Davanti a lui, una roccia simile a un lungo muro si abbassava, a picco su un precipizio; e, alla estremità, due caproni selvatici guardavano giù nell'abisso. Non aveva con sé le frecce (perché il suo cavallo era rimasto indietro), pensò di scendere fino ad essi; piegato in due, a piedi nudi, raggiunse finalmente il primo dei caproni e gli immerse il pugnale sotto le costole. Il secondo, preso dal terrore, saltò nel vuoto. Giuliano si lanciò per colpirlo, e, scivolando col piede destro, cadde sul cadavere dell'altro, la faccia sopra l'abisso e le due braccia spalancate.
Ridisceso nella pianura, si mise a seguire i salici che costeggiavano un fiume. Alcune gru, volando bassissime, di tanto in tanto passavano sopra il suo capo. Giuliano le abbatteva con la frusta, e non ne falli neanche una. Intanto l'aria più tiepida aveva disciolto la brina, ampi vapori fluttuavano, e il sole comparve. Egli vide rilucere lontanissimo un lago gelato, che sembrava piombo. In mezzo al lago, c'era una bestia che Giuliano non conosceva, un castoro dal muso nero. Nonostante la distanza, una freccia lo abbatté; e si dispiacque di non poterne portar via la pelle.
Poi avanzò in un viale di grandi alberi, le cui cime formavano come un arco di trionfo, all'entrata di una foresta.

11
Un capriolo balzò fuori da una forra, un daino comparve in una radura, un tasso uscì da una buca, un pavone sull'erba dispiegò la coda; - e quando li ebbe ammazzati tutti, altri caprioli comparvero, altri daini, altri tassi, altri pavoni, e merli, gazze, faine, volpi, ricci, linci, un'infinità di bestie, a ogni passo più numerose.
Gli giravano intorno, tremanti, con uno sguardo pieno di dolcezza e di implorazione. Ma Giuliano non si stancava di uccidere, a volta a volta tendendo la balestra, sguainando la spada, vibrando colpì di punta col coltellaccio, e non pensava a nulla, non aveva ricordo di cosa alcuna. Era a caccia in un paese qualsiasi, da un tempo indeterminato, per il solo fatto della sua stessa esistenza, tutto si stava compiendo con la facilità che si prova nei sogni. Uno spettacolo straordinario lo fece fermare. Un branco di cervi riempiva un vallone che aveva la forma di un circo; e pigiati, gli uni contro gli altri, si scaldavano con il loro alito che si vedeva fumare nella nebbia. La speranza di una simile carneficina, per qualche minuto, gli tolse il fiato dal piacere. Poi scese da cavallo, si rimboccò le maniche, e si mise a tirare. Al sibilo della prima freccia, tutti i cervi insieme voltarono il capo. Si aprirono dei vuoti nella loro massa; voci gementi si levavano, e un gran subbuglio agitò il branco. La sponda del vallone era troppo alta perché potessero superarla. Spiccavano salti nel chiuso, cercando scampo. Giuliano mirava, tirava; e le frecce cadevano come i raggi della pioggia nell'uragano. I cervi infuriati cozzarono tra di loro, si impennavano, montavano gli uni sugli altri; e i loro corpi con le corna ramose aggrovigliate formavano un gran cumulo, che crollava, spostandosi. Morirono infine distesi sulla sabbia, con la bava alle narici, le viscere fuori, e il palpito del loro ventre si affievoliva a poco a poco.

12
Poi tutto fu immobile.
Stava per calare la notte; e dietro al bosco, negli spiragli tra i rami, il cielo era rosso come una coltre di sangue. Giuliano si appoggiò a un albero. Contemplava con gli occhi sbarrati l'enormità del massacro, senza riuscire a capire come avesse potuto compierlo.
Dall'altro lato del vallone, sul limitare del bosco, scorse un cervo, una cerva e il suo piccolo. Il cervo, che era nero e di statura mostruosa, aveva corna con sedici ramificazioni e una barba bianca. La cerva, bionda come le foglie morte, brucava l'erba; e il cerbiatto dal pelo pezzato, senza intralciarle il passo, poppava alla mammella. La balestra ancora una volta fischiò. Il cerbiatto, subito, fu ucciso. Allora la madre, guardando il cielo, bramì con voce profonda, straziante, umana. Giuliano esasperato, con un colpo in pieno petto la stese a terra. Il grande cervo lo aveva veduto, fece un balzo. Giuliano gli lanciò l'ultima freccia che aveva. Essa lo colpi alla fronte, e vi rimase confitta. Il grande cervo non mostrò di sentirla; scavalcando i cadaveri continuava ad avanzare, stava per piombare su di lui, e sventrarlo; e Giuliano indietreggiava pervaso da una paura indicibile.
Il prodigioso animale si fermò; e, con occhi lampeggianti, solenne come un patriarca e come un giustiziere, mentre in lontananza una campana rintoccava, ripeté tre volte.
- Maledetto! maledetto! maledetto! Un giorno, cuore feroce, assassinerai tuo padre e tua madre!
Piegò le ginocchia, chiuse lentamente le palpebre, e morì. Giuliano fu stupito, poi oppresso da una stanchezza improvvisa; e un disgusto, una tristezza immensa l'invase.

13
Con la fronte tra le mani, pianse a lungo. Il suo cavallo era perduto; i cani lo avevano abbandonato; la solitudine che lo avvolgeva gli sembrò carica di minacce e di pericoli indefiniti. Allora, spinto dal terrore, si mise a correre attraverso la campagna, scelse a caso un sentiero, e si ritrovò quasi immediatamente alla porta del castello.
La notte, non dormì. Alla luce vacillante della lampada appesa, rivedeva sempre il grande cervo nero. La sua predizione lo ossessionava; si dibatteva contro di essa. «No! no! no! non posso ucciderli!» poi, pensava: «E se invece lo volessi?...» e aveva paura che il diavolo gliene ispirasse il desiderio.
Per tre mesi, la madre angosciata pregò al suo capezzale e il padre, gemendo, andava continuamente su e giù per i corridoi. Egli chiamò i più famosi maestri di medicina, i quali prescrissero gran quantità di droghe. Il male di Giuliano, dicevano, era cagionato da un vento funesto, o da un desiderio d'amore. Ma il giovane, a tutte le domande, scuoteva il capo.
Le forze gli ritornarono; e lo facevano passeggiare nel cortile, il vecchio monaco e il buon signore sorreggendolo ciascuno per un braccio. Quando fu completamente ristabilito, si ostino a non andare più a caccia. Suo padre, volendolo rallegrare, gli fece dono di una grande spada saracina. Essa era in cima a una colonna, in una panoplia. Per raggiungerla, occorse una scala. Giuliano vi sali. La spada troppo pesante gli sfuggì di mano, e cadendo sfiorò il buon signore così da vicino che ne ebbe il mantello tagliato; Giuliano crede di aver ucciso suo padre, e svenne. Da allora, ebbe paura delle armi. La vista di una lama nuda lo faceva impallidire. Questa debolezza era una desolazione per la sua famiglia.

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Alla fine il vecchio monaco, in nome di Dio, dell'onore e degli avi, gli ordinò di riprendere le sue attività di gentiluomo. Gli scudieri, tutti i giorni, si dilettavano nel maneggiare il giavellotto. Ben presto Giuliano vi primeggiò. Lanciava il suo a segno nel collo delle bottiglie, spezzava i denti delle banderuole, colpiva a cento passi di distanza i chiodi delle porte.
Una sera d'estate, all'ora in cui la nebbia rende indistinte le cose, mentre era sotto la pergola del giardino, scorse nel fondo due ali bianche che si agitavano all'altezza della spalliera. Non ebbe dubbi che fosse una cicogna; e lanciò il giavellotto. Un grido lacerante si levò. Era sua madre rimasta con i lunghi nastri della cuffia inchiodati al muro.
Giuliano fuggì dal castello, e non ricomparve più.

II
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Si arruolò in una banda di soldati di ventura che passavano. Conobbe la fame, la sete, le febbri e i pidocchi. Si avvezzò al frastuono delle mischie, all'aspetto dei moribondi. Il vento bruni la stia pelle. Le sue membra si indurirono al contatto con le armi; e siccome era molto forte, coraggioso, temperante, accorto, ottenne senza fatica il comando di una compagnia. All'inizio delle battaglie, trascinava i suoi soldati con un ampio gesto della spada.
Con una corda a nodi, si arrampicava sui muri delle cittadelle, la notte, sballottato dall'uragano, mentre le fiammelle del fuoco greco gli si appiccavono alla corazza, e la resina bollente e il piombo fuso colavano giù dalle feritoie. Spesso l'urto di una pietra gli fracassò lo scudo. Ponti sovraccarichi di uomini crollarono sotto di lui. Facendo roteare la mazza ferrata, si sbarazzò di quattordici cavalieri. Sfidò, in campo chiuso, tutti coloro che si fecero avanti. Più di venti volte, fu creduto morto.
Grazie al favore divino, la scampò sempre; perché proteggeva gli uomini di chiesa, gli orfani le vedove, e soprattutto i vecchi. Quando ne vedeva uno camminargli davanti, gridava per vederlo in faccia, come se avesse avuto paura di ucciderlo per errore. Schiavi, fuggiaschi, contadini in rivolta, bastardi senza averi, intrepidi di ogni sorta affluirono sotto la sua bandiera, e così si formò un esercito. L'esercito s'ingrossò. Egli divenne famoso. Era ricercato da tutti. A volta a volta, andò in soccorso del delfino di Francia e del re d'Inghilterra, dei templari di Gerusalemme, del surena dei Parti, del negus di Abissinia e dell'imperatore di Calicut.

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Combatté Scandinavi ricoperti di scaglie di pesce, negri muniti di rondacce di cuoio di ippopotamo e che montavano asini rossi, Indiani color d'oro e che brandivano sopra i diademi larghe sciabole, più lucenti di specchi. Vinse i Trogloditi e gli Antropofagi. Attraversò regioni così torride che sotto l'ardore del sole le capigliature prendevano fuoco da sé, come fiaccole; e altre regioni così gelide che le braccia, staccandosi dal corpo, cadevano per terra; e paesi dove vi era tanta nebbia che si camminava attorniati da fantasmi. Repubbliche in difficoltà lo consultarono. Nei colloqui con gli ambasciatori, otteneva condizioni insperate. Se un monarca si comportava troppo male, egli arrivava d'improvviso, e gli faceva le sue rimostranze. Affrancò alcuni popoli. Liberò regine rinchiuse nelle torri. Fu lui, e nessun altro, che accoppò la biscia di Milano e il drago di Oberbirbach. Ora avvenne che l'imperatore di Occitania, avendo trionfato dei Mussulmani spagnoli, si fosse unito in concubinaggio con la sorella del califfo di Cordova; e teneva con sé una figlia di lei, che aveva allevato cristianamente. Ma il califfo, facendo mostra di volersi convertire, andò a fargli visita, accompagnato da una scorta numerosa, gli massacrò tutta la guarnigione, e lo gettò nel fondo di una segreta, dove lo trattava duramente, allo scopo di estorcergli tesori.
Giuliano accorse in suo aiuto, distrusse l'esercito degli infedeli, assediò la città, uccise il califfo, gli tagliò il capo, e lo gettò come una palla di la dai bastioni. Quindi trasse di prigione l'imperatore, e lo fece risalire sul trono, alla presenza di tutta la corte.
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L'imperatore, in premio di tanto servigio, gli offrì in alcune ceste molto denaro; Giuliano lo rifiutò. Credendo che ne desiderasse di più, gli offrì i tre quarti delle sue ricchezze; nuovo rifiuto; poi di dividere con lui il suo regno; Giuliano lo ringraziò; e l'imperatore piangeva di dispetto, non sapendo in che modo testimoniargli la sua riconoscenza, quand'ecco si batte la fronte, disse una parola all'orecchio di un cortigiano; le cortine di un arazzo si sollevarono, e una fanciulla comparve.
I suoi grandi occhi neri brillavano come due lumi dolcissimi. Un sorriso incantevole le schiudeva le labbra. Le anella della sua capigliatura si impigliavano nelle gemme della veste semiaperta; e, sotto la trasparenza della tunica, si indovinava la giovinezza del suo corpo. Era molto carina e rotondetta, con la vita sottile. Giuliano fu folgorato d'amore, tanto più che aveva condotto fino allora una vita castissima. Si ebbe dunque in sposa la figlia dell'imperatore, con un castello che lei aveva ereditato dalla madre; e, terminata la cerimonia nuziale, essi se ne andarono, dopo infinite cortesie da una parte e dall'altra. Era un palazzo di marmo bianco, costruito in stile moresco, su un promontorio, in un bosco di aranci. Terrazze di fiori scendevano fin sulla riva di un golfo, dove conchiglie rosa scricchiolavano sotto i passi. Dietro al castello, si apriva una foresta che aveva la forma di un ventaglio. Il cielo era perennemente azzurro, e gli alberi si chinavano ora alla brezza del mare ora al vento delle montagne, che chiudevano in lontananza l'orizzonte. Le stanze, piene di crepuscolo, erano rischiarate dalle incrostazioni dei muri. Alte colonnine, sottili come canne, sostenevano la volta delle cupole, decorate di rilievi che imitavano le stalattiti delle grotte.

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C'erano zampilli d'acqua nelle sale, mosaici nei cortili, pareti intagliate a festoni, mille raffinatezze architettoniche, e ovunque un tale silenzio che si poteva sentire il fruscio di una sciarpa o l'eco di un sospiro. Giuliano non faceva più guerre. Si riposava, circondato da un popolo tranquillo; e ogni giorno, una folla gli passava davanti, con genuflessioni e baciamani all'orientale.
Vestito di porpora, se ne stava appoggiato ai gomiti nel vano di una finestra, riandando con il pensiero alle cacce di un tempo; e avrebbe voluto correre sul deserto dietro alle gazzelle e agli struzzi, star nascosto tra i bambù a far la posta ai leopardi, attraversare foreste piene di rinoceronti, raggiungere la vetta delle montagne più inaccessibili per mirare meglio le aquile, e sui ghiacci del mare combattere gli orsi bianchi.
Talvolta, in un sogno, si vedeva come il padre Adamo in mezzo al Paradiso, tra ogni sorta di animali; allungando un braccio li faceva morire; oppure, gli sfilavano davanti, a due a due, in ordine di statura, a cominciare dagli elefanti e i leoni fino agli ermellini e alle anatre, come il giorno in cui erano entrati nell'arca di Noè.
All'ombra di una caverna scoccava su di essi giavellotti infallibili; altri ne sopraggiungevano; la cosa non finiva mai; e si destava volgendo sguardi feroci.
Alcuni principi suoi amici lo invitarono a caccia. Egli rifiutò sempre, credendo, con quella sorta di penitenza, di stornare la sua sciagura; perché gli sembrava che dall'uccisione degli animali dipendesse la sorte dei suoi genitori. Ma soffriva di non vederli, e quest'altro desiderio gli diventava intollerabile.

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Sua moglie, per distrarlo, fece venire giocolieri e danzatrici. Passeggiava con lui, su una portantina aperta, in campagna; altre volte, sdraiati sul bordo di una scialuppa, guardavano i pesci vagabondare nell'acqua, limpida come il cielo. Spesso lei gli gettava fiori sul viso; accoccolata ai suoi piedi, traeva suoni da un mandolino a tre corde; poi, posandogli sulle spalle le mani giunte, diceva con voce timida: «Che cosa vi affligge, mio signore?»
Egli non rispondeva, o scoppiava in singhiozzi; finché un giorno le confessò il suo orribile pensiero.
Ella lo confutò, ragionando assai bene: suo padre e sua madre, probabilmente, erano morti; se mai egli li avesse rivisti, per quale caso, con quale intento, sarebbe giunto a un simile abominio? Il suo timore non aveva dunque ragione d'essere, e doveva rimettersi a cacciare. Ascoltandola, Giuliano sorrideva, ma non si risolveva a soddisfare il suo desiderio.
Una sera del mese d'agosto mentre erano nella loro stanza, lei si era appena coricata e lui si inginocchiava per recitare le preghiere quando udì il guaito di una volpe, poi passi leggeri sotto la finestra; e intravide nell'ombra come parvenze d'animali. La tentazione era troppo forte. Staccò la faretra. Ella parve sorpresa.
- È per obbedirti! - disse, - al levar del sole, sarò di ritorno.
Tuttavia ella temeva un'avventura funesta.
Egli la rassicurò, poi uscì, stupito dalla inconseguenza dell'umore di lei. Poco dopo, un paggio andò ad annunziarle che due sconosciuti, in assenza del signore, chiedevano di essere subito ricevuti dalla signora. E allora entrarono nella camera un vecchio e una vecchia, curvi, polverosi, vestiti di tela, che si appoggiavano ciascuno a un bastone. Si fecero animo e dissero che recavano a Giuliano notizie dei suoi genitori.

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Ella si chinò ad ascoltarli ma, dopo essersi consultati con un'occhiata, essi le chiesero se Giuliano li amava ancora, se qualche volta parlava di loro.
- Oh! sì! - fece lei.
Allora, essi esclamarono:
- Ebbene! Siamo noi! - E si sedettero, poiché erano molto stanchi e affranti dalla fatica.
Nulla offriva alla giovane donna la certezza che il suo sposo fosse loro figlio. Essi ne diedero la prova descrivendo alcuni segni particolari che lui aveva sulla pelle. Ella saltò giù dal letto, chiamò il suo paggio, e fece servire loro una cena. Benché avessero molta fame, non riuscivano quasi a mangiare; e lei osservava in disparte il tremito delle loro mani ossute, nel prendere i bicchieri.
Fecero mille domande su Giuliano. Lei rispose a ognuna, ma ebbe cura di tacere l'idea funesta che li riguardava.
Non vedendolo tornare, essi erano partiti dal loro castello; e camminavano da anni e anni, sulla traccia di vaghe indicazioni, senza perdere la speranza.
C'era voluto tanto denaro per il pedaggio dei fiumi e nelle locande, per i diritti dei principi e per le esigenze dei ladri, che il fondo della loro borsa era vuoto, e adesso mendicavano.
Ma che importava, poiché ben presto avrebbero riabbracciato il loro figliolo? E si compiacevano che fosse così fortunato di avere una moglie tanto graziosa e-non si stancavano di contemplarla e di baciarla.
La ricchezza della casa li riempiva di grande stupore; e il vecchio, dopo avere esaminato i muri, chiese come mai vi si trovasse il blasone dell'imperatore di Occitania.
Ella rispose:
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- È mio padre!
Allora egli trasalì, ricordando la profezia dello zingaro; e la vecchia pensava al vaticinio dell'eremita. Senza dubbio la gloria di suo figlio non era che l'aurora degli splendori eterni; e tutti e due restavano trasecolati sotto la luce del candelabro che illuminava la tavola.
Dovevano essere stati molto belli in gioventù. La madre aveva ancora tutti i capelli, che divisi in due bande sottili, simili a falde di neve, le scendevano giù in fondo alle guance; e il padre, con la sua alta statura e la grande barba, assomigliava a una statua di chiesa.
La moglie di Giuliano li invitò a non aspettarlo. Li fece coricare nel suo letto, poi chiuse la finestra; si addormentarono. Stava per levarsi il giorno, e, dietro la vetrata, gli uccellini cominciavano a cantare.
Giuliano aveva attraversato il parco; e camminava nella foresta con passo nervoso, godendo della mollezza dell'erba e del tepore dell'aria. Le ombre, degli alberi si allungavano sul muschio.
Ogni tanto la luna creava macchie bianche nelle radure, ed egli esitava ad avanzare, credendo di scorgere una pozza d'acqua, oppure la superficie di stagni calmi si confondeva con il colore dell'erba. Ovunque era un grande silenzio; e non scopriva nessuna delle bestiGiuliano non ebbe il tempo di afferrare l'arco, e se ne dolse come di una disgrazia.e che, pochi minuti prima, vagavano intorno al suo castello.
Il bosco s'infittì, l'oscurità divenne fonda. Folate di vento caldo passavano, piene di odori snervanti. Egli affondava in mucchi di foglie morte, e si appoggiò ad una quercia per riprendere fiato. Quand'ecco, alle sue spalle, balzare una massa più scura, un cinghiale.

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Poi, uscito dal bosco, scorse un lupo che correva lungo una siepe. Giuliano gli scoccò una freccia. Il lupo si fermò, volse la testa a guardarlo e riprese la corsa. Trotterellava mantenendo sempre la stessa distanza, si fermava di tanto in tanto, e, appena era preso di mira, ricominciava a fuggire.
Giuliano attraversò in tal modo una pianura sconfinata, poi alcuni monticelli di sabbia, e infine si trovò su un altopiano che dominava un gran tratto del paese. Pietre piatte erano sparse tra tombe in rovina. Inciampava in ossa di morti; qua e là, croci tarlate si piegavano con aspetto pietoso. Ma alcune forme si mossero nell'ombra indecisa delle tombe; e ne balzarono fuori alcune iene, spaurite, ansimanti. Facendo schioccare le unghie sulle lapidi andarono verso di lui e lo annusavano con uno sbadiglio che scopriva loro le gengive. Egli sguainò la sciabola. Fuggirono contemporaneamente in tutte le direzioni, e, continuando nel loro galoppo zoppicante e precipitoso, scomparvero lontano in un nugolo di polvere. Un'ora dopo, incontrò in un burrone un toro furioso, con le corna protese, e che, raspava la sabbia con il piede. Giuliano gli puntò la lancia sotto la giogaia. La lancia andò in frantumi, come se l'animale fosse stato di bronzo; chiuse gli occhi, aspettando la morte. Quando li riaprì, il toro era scomparso. Allora la sua anima si accasciò per la vergogna. Un potere superiore distruggeva la sua forza; e, per tornarsene a casa, rientrò nella foresta. Essa era ingombra di liane; ed egli le tagliava con la sciabola quando una faina gli scivolò improvvisamente tra le gambe, una pantera fece un balzo sopra la sua spalla, un serpente salì a spirale intorno a un frassino.

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In mezzo al fogliame c'era una taccola mostruosa, che guardava Giuliano; e, qua e là, apparvero tra i rami innumerevoli larghe scintille, come se il firmamento avesse fatto piovere nella foresta tutte le sue stelle. Erano occhi d'animali di gatti selvatici, di scoiattoli, di gufi, di pappagalli, di scimmie. Giuliano scoccò contro di essi le sue frecce; le frecce, con le loro piume si posavano sulle foglie come farfalle bianche. Egli gettò loro pietre; le pietre, senza toccare nulla ricadevano. Maledisse se stesso, avrebbe voluto battersi, gridò imprecazioni, soffocava di rabbia. E tutti gli animali che aveva inseguito ricomparvero, formando intorno a lui uno stretto cerchio. Alcuni erano piegati sul dorso, gli altri eretti in tutta la loro statura.
Giuliano si trovava nel mezzo, agghiacciato dal terrore, incapace del minimo movimento. Con uno sforzo supremo di volontà, fece un passo; quelli che stavano appollaiati sugli alberi aprirono le ali, quelli che calpestavano la terra mossero le membra; e tutti lo accompagnavano. Le iene camminavano davanti a lui, il lupo e il cinghiale dietro. Il toro, alla sua destra, dondolava il capo; e, alla sua sinistra, il serpente ondeggiava tra l'erba, mentre la pantera, inarcando il dorso, avanzava a passo di velluto e a grandi falcate.
Egli camminava il più adagio possibile, per non irritarli; e vedeva uscire dal folto dei cespugli porcospini, volpi, vipere, sciacalli e orsi.
Giuliano si mise a correre; corsero anch'essi. Il serpente sibilava, le bestie fetide sbavavano. Il cinghiale gli sfregava i talloni con le zanne, il lupo, il palmo delle mani con i peli del muso. Le scimmie lo pizzicavano facendo smorfie; la faina si rotolava sui suoi piedi. Un orso, con una zampata di rovescio, gli tolse il cappello; e la pantera, sdegnosamente, lasciò cadere una freccia che aveva nelle fauci.
Un'ironia traspariva dal loro atteggiamento sornione.
24
Continuando a osservarlo con la coda dell'occhio, pareva che meditassero un piano di vendetta; e, assordato dal ronzio degli insetti, percosso dalle code degli uccelli, soffocato dagli aliti, egli camminava, con le braccia tese e le palpebre chiuse come un cieco, senza avere neanche la forza di gridare «pietà!».
Il canto di un gallo vibrò nell'aria. Altri gli risposero; era giorno; ed egli riconobbe, di là dagli aranceti la cima del suo Palazzo. Poi, sul limite di un campo, vide, a tre passi di distanza, pernici rosse che svolazzavano nelle stoppie. Si sfibbiò il mantello, e lo gettò su di esse come una rete. Quando poi le scopri, ne trovò solamente una, e morta da molto tempo, putrefatta. Questa delusione lo esasperò più di tutte le altre. La sete di carneficina lo riprendeva; in mancanza di bestie, avrebbe voluto massacrare uomini.
Salì le tre terrazze, sfondò la porta con un pugno; ma, ai piedi delle scale, il ricordo della cara sposa rasserenò il suo cuore. Dormiva certamente, e l'avrebbe sorpresa. Toltisi i sandali, girò pian piano la serratura, ed entrò. Le vetrate contornate di piombo oscuravano il pallore dell'alba.
Giuliano inciampò in alcune vesti, per terra; un po' più in la, urtò in una credenza ancora carica di piatti. «Certamente, avrà mangiato,» pensò; e avanzava verso il letto, perduto nelle tenebre in fondo alla stanza. Quando fu alla sponda, per baciare sua moglie, si chinò sul guanciale ove le due teste riposavano l'una accanto all'altra. Allora, provò contro la bocca la sensazione di una barba. Indietreggiò, credendo d'impazzire; ma ritornò accanto al letto, e le sue dita, palpando, incontrarono dei capelli che erano molto lunghi.
Per convincersi del suo errore, ripassò lentamente la mano sul guanciale. Era proprio una barba, questa volta, e un uomo! un uomo coricato accanto a sua moglie!

25
Esplodendo in una collera smisurata, si gettò su di loro a colpi di pugnale; e barcollava, schiumava, con urli da bestia selvaggia. Poi si fermò. I morti, trafitti al cuore, non si erano nemmeno mossi. Ascoltava attentamente i loro due rantoli quasi uguali, e, via via che si facevano più deboli, un altro rantolo, in lontananza, li continuava. Incerta dapprima, questa voce lamentosa e prolungata, si avvicinava, si ingrossò, divenne crudele; ed egli riconobbe, terrorizzato, il bramito del grande cervo nero. E mentre si voltava, credette di vedere nel vano della porta, il fantasma della moglie, con un lume in mano. Il rumore dell'eccidio l'aveva attirata. Con un'ampia occhiata, capì tutto, e, fuggendo inorridita, lasciò cadere il lume.
Giuliano lo raccolse. Suo padre e sua madre erano davanti a lui, distesi supini con uno squarcio nel petto; e i loro visi, di una maestosa dolcezza, parevano serbare quasi un segreto eterno. Schizzi e pozze di sangue si allargavano nel mezzo della loro pelle bianca, sulle lenzuola del letto, per terra, su un cristo d'avorio appeso nell'alcova. Il riflesso scarlatto della vetrata, colpita in quel momento dal sole, illuminava quelle macchie rosse e ne gettava numerose altre in tutta la stanza. Giuliano camminò verso i due morti dicendo a se stesso, volendo credere, che non era possibile, che si era ingannato, che vi sono talvolta somiglianze inspiegabili. Infine, si chinò leggermente per vedere bene da vicino il vecchio; e scorse, tra le sue palpebre semichiuse, una pupilla spenta che lo bruciò come fuoco. Poi si spostò dall'altro lato del letto, occupato dall'altro corpo, i cui capelli bianchi coprivano una parte della faccia. Giuliano passò le dita sotto le ciocche, sollevò la testa; - e la guardava reggendola a distanza con il braccio irrigidito, mentre con l'altra mano si faceva luce con il lume. Gocce, stillanti dal materasso, cadevano ad una ad una sul pavimento.

26
Sul finire del giorno, si presentò davanti alla moglie; e, con voce diversa dalla sua, le ordinò per prima cosa di non rispondergli, di non avvicinarglisi, di non guardarlo neanche più, e che lei doveva eseguire, pena la dannazione, tutti i suoi ordini che erano
irrevocabili.
I funerali dovevano essere fatti secondo le istruzioni che egli aveva lasciato per scritto, su un inginocchiatoio, nella camera dei morti. Le lasciava il suo palazzo, i suoi vassalli, tutti i suoi beni, senza nemmeno tenersi i vestiti che aveva indosso, ne i sandali,
che avrebbero trovato in cima alle scale. Lei aveva obbedito alla volontà di Dio, offrendogli l'occasione del delitto, e doveva
pregare per la sua anima, perché ormai lui non esisteva più. I morti furono sepolti con magnificenza, nella chiesa di un monastero a tre giornate dal castello. Un monaco col cappuccio calato segui il corteo, lontano da tutti gli altri, senza
che nessuno osasse parlargli. Restò, durante la messa, disteso bocconi nel mezzo del portale, con le braccia in croce, e la fronte nella polvere. Dopo la sepoltura, lo videro prendere la strada che portava alle montagne. Si voltò indietro più volte, e poi scomparve.
III
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Se ne andò, mendicando la vita per il mondo. Tendeva la mano ai cavalieri lungo le strade, con genuflessioni si avvicinava ai mietitori, o se ne stava immobile davanti al cancello delle corti; e il suo viso era così triste che l'elemosina non gli veniva mai rifiutata. Per spirito d'umiltà, raccontava la sua storia; allora tutti scappavano via, facendosi il segno della croce. Nei villaggi dove era già passato, appena lo riconoscevano, chiudevano le porte, gli gridavano minacce, gli tiravano sassi. I più caritatevoli posavano una scodella sul davanzale della finestra, poi chiudevano le imposte per non vederlo.
Respinto ovunque, evitò gli uomini; e si nutrì di radici, di piante, di frutti raccattati e di molluschi che cercava lungo le spiagge.
Talora, alla svolta di una salita, vedeva sotto i suoi occhi una confusione di tetti ammassati, con guglie di pietra, ponti, torri, strade nere che si incrociavano, e dalle quali saliva fino a lui un brusio continuo. Il bisogno di mescolarsi all'esistenza degli altri lo faceva scendere in città. Ma l'espressione bestiale delle facce, il frastuono dei mestieri, l'indifferenza dei discorsi gli raggelavano il cuore. Nei giorni di festa, quando il campanone delle cattedrali metteva in allegrezza, dall'alba, tutto il popolo, guardava gli abitanti uscire di casa, poi le danze sulle piazze, le fontane di cervogia nei crocicchi, i tendaggi di Damasco davanti alle dimore dei principi, e venuta la sera, attraverso le vetrate dei pianterreni, le lunghe tavolate di famiglia in cui i nonni tenevano i nipotini sulle ginocchia; i singhiozzi lo soffocavano, e se ne tornava verso la campagna.

28
Contemplava con slanci d'amore i puledri nei pascoli, gli uccelli nei nidi, gli insetti sui fiori; tutti, al suo avvicinarsi, correvano via, si nascondevano spauriti, fuggivano rapidi. Ricercò le solitudini. Ma il vento recava alle sue orecchie come rantoli di agonia; le lacrime della rugiada cadendo per terra gli ricordavano altre gocce di un peso più greve. Il sole, tutte le sere, spandeva sangue sulle nuvole; e ogni notte, in sogno, il suo parricidio ricominciava.
Si fece un cilicio con punte di ferro. Salì in ginocchio tutte le colline che avevano una cappella sulla vetta. Ma l'implacabile pensiero oscurava lo splendore dei tabernacoli, lo torturava attraverso le macerazioni della penitenza. Non si rivoltava contro Dio che gli aveva inflitto quell'azione, e tuttavia si disperava di averla potuta commettere. La sua stessa persona gli faceva un tale orrore che sperando di liberarsene la espose a pericoli. Salvò paralitici dagli incendi, bambini dal fondo dei burroni. L'abisso lo
respingeva; le fiamme lo risparmiavano. Il tempo non placò la sua sofferenza. Essa diventava intollerabile. Decise di morire.
E un giorno che si trovava sull'orlo di una fontana mentre vi si chinava sopra per misurare la profondità dell'acqua, si vide comparire davanti un vecchio tutto scarno, con la barba bianca e un aspetto così pietoso che gli fu impossibile trattenere le lacrime. Anche l'altro piangeva. Senza riconoscere la propria immagine, Giuliano si ricordava confusamente una faccia che assomigliava a quella. Gettò un grido; era suo padre; e non pensò più a uccidersi.

29
Così, portando il peso del ricordo, percorse molti paesi; e arrivò presso un fiume la cui traversata era pericolosa, per la violenza della corrente e perché sulle sue rive vi era una grande distesa di melma. Da molto tempo nessuno osava più attraversarla.
Una vecchia barca, affondata di poppa, drizzava la prua tra le canne. Giuliano esaminandola scoprì un paio di remi; e gli venne l'idea di mettere la sua esistenza al servizio degli altri. Cominciò col costruire sulla proda una specie di argine che permetteva di scendere fino al canale; e si spezzava le unghie a smuovere le pietre enormi, le appoggiava contro il ventre per trasportarle, scivolava nella melma, vi affondava, più volte rischiò di morire. Poi, riparò la barca con relitti di navi, e si fece una capanna con argilla e tronchi d'albero. Il passaggio era noto, i viaggiatori si presentarono. Lo chiamavano dall'altra sponda, agitando bandiere; Giuliano in fretta saltava nella barca. Era pesantissima; e la caricavano con ogni sorta di bagagli e di fardelli, senza contare le bestie da soma, che, scalciando per la paura, aumentavano l'ingombro. Egli non chiedeva nulla per la sua fatica; qualcuno gli dava gli avanzi dei cibi che tirava fuori dalla bisaccia o i vestiti troppo logori di cui voleva disfarsi. I più brutali urlavano bestemmie. Giuliano li rimproverava con dolcezza; essi rispondevano con ingiurie. Si accontentava di benedirli.
Un tavolino, uno sgabello, un letto di foglie secche e tre tazze d'argilla, era tutto il suo mobilio. Due buchi nel muro servivano da finestre.
Da un lato, si stendevano a perdita d'occhio pianure sterili che avevano sulla superficie pallidi stagni, qua e là; e il grande fiume, davanti a lui

30
trascinava i flutti verdastri. In primavera, la terra umida aveva un odore di marcio. Poi, un vento disordinato sollevava turbini di polvere. Essa entrava ovunque, insozzava l'acqua, scricchiolava sotto le gengive. Un po' più avanti erano nugoli di zanzare, il cui ronzio e le punture non cessavano né di giorno ne di notte. In seguito, sopravvenivano atroci gelate che davano alle cose la rigidità della pietra, e ispiravano un bisogno pazzesco di mangiare carne.
Passavano mesi senza che Giuliano vedesse qualcuno. Spesso chiudeva gli occhi, tentando, con la memoria, di ritornare alla sua giovinezza; e appariva la corte di un castello, con i levrieri su una scalinata, valletti nella sala d'armi, e, sotto un pergolato di
pampini, un adolescente con i capelli biondi tra un vecchio coperto di pellicce e una dama dall'alta cuffia; ad un tratto, c'erano i due cadaveri. Si gettava bocconi sul letto, e ripeteva piangendo: «Ah! povero padre! povera madre! povera madre!» E cadeva in un sopore in cui le visioni funebri continuavano.
Una notte mentre dormiva, gli parve di udire qualcuno che lo chiamava. Tese l'orecchio e non distinse che il mugghiare dei flutti. Ma la stessa voce ripeté:
- Giuliano!
Veniva dall'altra sponda, cosa che gli parve straordinaria data la larghezza del fiume. Una terza volta sentì chiamare:
- Giuliano!
E quella voce alta aveva l'intonazione di una campana di chiesa.

31
Accesa la lanterna, uscì dalla capanna. Un uragano furioso riempiva la notte. Le tenebre erano profonde, e qua e là lacerate dalla bianchezza delle onde che s'innalzavano. Dopo un minuto d'esitazione, Giuliano sciolse l'ormeggio. L'acqua, subito, divenne calma, la barca scivolò via e toccò l'altra sponda, dove un uomo aspettava.
Era avvolto in una tela a brandelli, la faccia simile a una maschera di gesso e gli occhi più rossi dei tizzoni. Avvicinando a lui la lanterna, Giuliano si accorse che una lebbra orrenda lo ricopriva; tuttavia, aveva nell'attitudine come una maestà regale.
Appena entrò nella barca, essa sprofondò prodigiosamente, schiacciata dal suo peso; uno scossone la risollevò e Giuliano si mise a remare. A ogni colpo di remo la risacca dei flutti la sollevava di prua. L'acqua, più nera dell'inchiostro, correva con furia ai due lati dell'imbarcazione. Scavava abissi, sollevava montagne, e la scialuppa vi saltava sopra, poi ricadeva nelle profondità dove girava su se stessa sballottata dal vento. Giuliano incurvava il corpo, stendeva le braccia, e, inarcandosi sui piedi si rovesciava indietro mentre si torceva sulla vita, per fare più forza. La grandine gli frustava le mani, la pioggia gli scorreva per la schiena, la violenza del vento lo soffocava, si fermò. Allora la barca fu trascinata alla deriva. Ma, poiché capiva che si trattava di una cosa importante, di un ordine al quale non bisognava disobbedire, riprese i remi; e il battito degli scalmi rompeva il clamore della tempesta. La piccola lanterna ardeva davanti a lui. Gli uccelli, svolazzando, a tratti gliela nascondevano. Ma sempre scorgeva le pupille

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del lebbroso che se ne stava in piedi a poppa, immobile come una colonna. E tutto questo durò a lungo, molto a lungo!Quando furono giunti nella capanna, Giuliano chiuse la porta; e lo vide seduto sullo sgabello. La specie di sudario che lo copriva gli era caduto fin sui fianchi; e le sue spalle, il suo petto, le sue braccia magre sparivano sotto placche di pustole scagliose. Rughe enormi gli solcavano la fronte. Come uno scheletro, aveva un buco al posto del naso; e le sue labbra bluastre sprigionavano un alito denso come una nebbia e nauseabondo.
- Ho fame! - disse.
Giuliano gli dette ciò che possedeva, un vecchio spicchio di lardo e una crosta di pane nero.
Dopo che li ebbe divorati, la tavola, la scodella e il manico del coltello avevano le stesse chiazze che si vedevano sul suo corpo. Poi disse:
- Ho sete!
Giuliano andò a cercare la brocca; e, mentre la prendeva, ne uscì un aroma che gli dilatò il cuore e le narici. Era vino; che fortuna! ma il lebbroso allungò il braccio e d'un fiato vuotò tutta la brocca. Poi disse:
- Ho freddo!
Giuliano, con la sua candela, accese un fascio di felci, in mezzo alla capanna. Il lebbroso andò a riscaldarvisi; e, accoccolato sui calcagni, tremava in tutte le membra, si indeboliva; i suoi occhi non brillavano più, le sue ulcere colavano e, con voce quasi spenta, mormoro:
- Il tuo letto!
Giuliano lo aiutò a trascinarvisi piano piano, e stese su di lui, per coprirlo,
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anche la tela della sua barca.
Il lebbroso gemeva. Gli angoli della bocca gli scoprivano i denti, un rantolo precipitoso gli scuoteva il petto, e il suo ventre ad ogni inspirazione, si scavava fino alle vertebre. Poi chiuse le palpebre.
- Ho il ghiaccio nelle ossa! Vieni accanto a me!
E Giuliano, scostando la tela, si coricò sulle foglie secche, accanto a lui, a fianco a fianco.
Il lebbroso volse il capo.
- Spogliati, perché io abbia il calore del tuo corpo!
Giuliano si tolse le vesti; poi, nudo come il giorno della nascita, si rimise nel letto; e sentiva contro una coscia la pelle del lebbroso, più fredda di un serpente e ruvida come una lima.
Cercava di fargli coraggio; e l'altro rispondeva, ansimando:
- Ah! sto morendo!... Avvicinati, riscaldami! non con le mani! no! tutta la tua persona.
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Giuliano gli si distese sopra completamente, bocca contro bocca, petto su petto.Allora il lebbroso lo strinse; e i suoi occhi d'un tratto presero un chiarore di stelle; i suoi capelli s'allungarono come i raggi del sole; il soffio delle sue narici aveva la dolcezza delle rose; una nube di incenso si levò dal focolare, i flutti cantavano. Intanto un'abbondanza di delizie, una gioia sovrumana scendeva come un'inondazione nell'animo di Giuliano estatico; e colui le cui braccia lo stringevano sempre, diventava più grande fino a toccare con la testa e con i piedi i due muri della capanna.
Il tetto scomparve, il firmamento si dispiegava; - e Giuliano salì verso gli spazi azzurri, a faccia a faccia con Nostro Signore Gesù che lo portava con se in cielo.

Questa è la storia di San Giuliano Ospitaliere, come la si trova press'a poco sulla vetrata di una chiesa, nel mio paese.






RIFERIMENTI



CAP XXX
De sancto Juliano

testo latino
Jacobi a Voragine, Legenda aurea vulgo historia lombardica dicta. Ab optimorum librorum fidem. Recensuit Dr. Th Graesse, Potentissimi regis saxoniae bibliothecarius. Editio secunda. Cum approbatione rev. administratoris ecclesiastici per superiorem lusatiam. Lipsiae, impensis librariae arnoldianae. MDCCCL; pp.  142-143; https://archive.org/details/legendaaureavulg00jacouoft/page/143/mode/1up?view=theater; ultimo accesso 7 marzo 2024
testo italiano
Legenda Aurea; Casa Editrice Le Lettere, cit. Vol. I, pp. 153-155.
bibliografia
https://www.arlima.net/il/julien_l_hospitalier_saint.html; ultimo accesso 04/03/2024.
 

Flaubert, San Giuliano ospitaliere, testo italiano


https://www.writingshome.com/ebook_files/10.pdf; ultimo accesso 7 marzo 2024
NOTE
















IMMAGINI
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San Giuliano Leggenda di san Giuliano ospitaliere San Giuliano traghetta i lebbrosi


Cattedrale di Rouen
Vetrata delle storie di San Giuliano ospitaliere

















© Adalinda Gasparini
online dal 7 marzo 2024