ADALINDA GASPARINI                PSICOANALISI E FAVOLE
TESTO INEDITO IN ITALIANO
ONLINE DAL 2010
ADDIO PADRE EDIPO
LIBERTÀ E INCERTEZZA
NEI GIOCHI SACRI DI VIKRAM CHANDRA

FAREWELL FATHER ŒDIPUS
FREEDOM AND UNCERTAINTY
IN VIKRAM CHANDRA'S
SACRED GAMES (2010)





Torno a dirvi, allora, che la vita perde in interesse e contenuto allorquando la posta in gioco più alta, vale a dire la vita stessa, viene esclusa dalle sue battaglie. Questa diventa vuota e insignificante come un flirt americano in cui sin dall'inizio è chiaro che nulla accadrà, a differenza di un rapporto amoroso continentale in cui entrambi i partners devono continuamente vigilare sul pericolo in agguato.
(S. Freud, 1915)











ABSTRACT

Una lunga storia per dire addio al nostro padre comune: questa è la mia ipotesi di lettura del romanzo di Vikram Chandra's.
Da psicoanalista appassionata di letteratura, sono stata affascinata da  "Terra rossa e pioggia scrosciante" e da "Giochi sacri". Cerco di spiegare in che modo Vikram Chandra apra un sentiero verso il terzo millennio: i grandi romanzi costruiscono viali di pensieir carte di possibili valichi dal passato al futuro. Si richiede una adeguata conoscenza del passato e il dono di immaginare nuove generazioni. Uno scrittore della levatura di Chandra è in grado di usare le parole per generare un mondo dal punto di vista sia maschile che femminile, fornendo protezione mentre costruisce una culla e una casa.
La sua capacità d iintrecciare molti generi di racconti è un dono che si manifesta sontuosamente nella presenza variegata del tragico, del comico, del romantico, dell'appassionato, garantendo pari dignità a Ganesh Gaitonde e a Sartaj, come alla scimmia-Sanjay e a Yama sul suo trono di buio. Amare ogni creatura e darle voce implica il riconoscimento in se stessi della presenza multipla di diversi sentimenti, aspirazioni, desideri, e l'accettazione simultanea del tumulto che scatenano. Implica un ascolto heimlich/unheimlich delle voci dell'inconscio, una possibilità aperta da Sigmund Freud, secondo il quale bisogna guardare ai poeti come ai primi e migliori maestri di psicologia.

Qui letteratura e psicoanalisi si tengono per mano, per ascoltare insieme voci basse e voci squillanti, celesti e oscure, fino a quando non cominciano a rivelare le altre forme della loro inimmaginabile natura. Shakespeare è il modello assoluto di Chandra, che, scrivendo dopo Freud, entra nel territorio di Psyche, dove ogni cosa si immerge nell'inconscio.


INDICE

1. Sartaj, tu credi in Dio?

2. 'Tu non sei un pazzo', disse lei

3. Il  miracolo più grande



Noi siamo i discendenti di una serie infinita di generazioni di assassini. (Sigmund Freud, 1915)


1. Sartaj, tu credi in Dio?

Io penso che la vita perda di consistenza e di interesse quando dalla lotta è esclusa la posta suprema, precisamente la vita stessa. Essa diventa vuota e stupida come un flirt americano in cui è già stabilito a priori che non deve accadere niente, a differenza di una relazione amorosa europea in cui i due partner hanno sempre presente la minaccia del pericolo che incombe. (Freud's presentation to the Israeli Humanity Society "Wien" of the B'nai B'rith order: We and death, 1915).

La vita è come una storia, in cui Eros non ha significato se Thanatos non lo segue abbastanza da vicino da poterlo raggiungere. D'altra parte la natura di Eros, originato dal desiderio di Penia, Povertà, di concepire un figlio con Poros, Ricchezza, è anarchica, sempre oscillante fra stati opposti.

Prima di tutto è sempre bisognoso e tutt'altro che morbido e bello come crede la gente, ma duro e trascurato e scalzo e senza casa: sta sempre a terra senza coprirsi sulle soglie e lungo le vie dove si addormenta a cielo aperto, e secondo la natura di sua madre abita sempre con la mancanza: d'altro canto secondo la natura del padre va a insidiare le cose belle e le cose buone, ed essendo virilmente audace e ardente e tremendo cacciatore, sempre tende qualche trappola: è desideroso di saggezza e fornito di molte risorse passa la vita ad amare la scienza: è un tremendo incantatore un medicatore un sofista: non è stato generato mortale né immortale: e nell'arco di un sol giorno germoglia e vive ogni volta che trova un modo e poi muore, e poi torna alla vita secondo la natura del padre: tutto quello che si procura svanisce e così Eros non è mai indigente e non si arricchisce mai del resto è nel mezzo fra scienza e incoscienza. (Platone, Simposio, 203)

Eros è il desiderio che la vita ha di se stessa e ci attraversa come un fiume percorre una valle. Rispetto alla natura del grande demone che con movimento incessante connette cielo e terra, la nostra è rigida e inerte quando è lontano, se non fosse per il canto che possiamo levare per invocarne la presenza e piangerne la distanza, quando non siamo troppo occupati a dimenticare che senza di lui la vita non ha senso.

Eros si è eclissato quando cominciano i Sacred Games, per entrambi i protagonisti, l'ispettore di polizia Sartaj Singh, che ha una fantasia suicida, e il  grande gangster Ganesh Gaitonde, chiuso in un bunker atomico. La sua assenza è come la mancanza del sole e della luna, e il lavoro dell'immaginazione a servizio del desiderio onnipotente ha solo rimandato l'incontro con la semplice verità, come ce la risparmiavano i nostri genitori quando eravamo troppo piccoli: indipendentemente da noi la luce si accende e si spegne, nel nostro umore come in cielo. Indipendentemente da noi veniamo al mondo e lo lasciamo.
Se l'identità nasce nella fiducia di poter un giorno appagare il desiderio, il soggetto cresce tollerando la caduta delle illusioni dorate dell'infanzia. Ci sostiene da svegli un po' di illusione, mentre se vogliamo rendere stabile come una roccia l'orgoglio per la potenza del nostro pensiero e l'incisività della nostra azione, spezziamo l'equilibrio nel quale viviamo, oscillante fra immaginazione e realtà quotidiana, fra la percezione dell'unicità del nostro essere che vuole affermarsi e il bisogno di sentire il sostegno degli altri. Nel quotidiano alternarsi del soggetto capace di controllo su sé e sul mondo nella veglia, e del suo eclisse nel sonno, l'equilibrio è un lavoro costante, rischioso, appassionante. A chi si illude di eliminare i rischi, se non basta considerare i sogni notturni, così nostri e così non nostri, dovrebbe bastare la ricorrente percezione unhemlich, straniante, spaesante. Essa rivela in un batter d'occhio la fragilità della casa del proprio essere, mostra la città caotica, il paesaggio, di collina o di mare, spogliato di ogni bellezza, e nessuna lingua particolare viene in nostro soccorso, come se il fraintendimento fosse il suo esito beffardo.
Un'etica nuova è necessaria per raccontare come questo straniamento ricorrente sia la sola risorsa che abbiamo per dubitare delle certezze che da sempre hanno fondato le culture diverse, con le quali oggi ci troviamo confrontati. Abbiamo bisogno di tollerare lo scarto unhemlich della differenza da noi stessi, che è la sola condizione per riconoscere di cosa viviamo, abbandonando l'edificio della nostra origine, che amiamo, andando verso altre culture, che ci affascinano, che ci atterriscono. Abbiamo bisogno di immaginare una storia che non ci porti alla melanconia nera che fa scivolare ogni senso nell'insignificanza, di ogni bellezza nella dissoluzione, o a regredire penosamente, aderendo a movimenti religiosi o ideologici, la cui corsa, come sempre, è tanto più cieca e distruttiva quanto più alza la bandiera di un superiore diritto a esercitare il dominio sugli altri, con le armi o col pensiero.
Nella riflessione sapienziale di ogni tempo e spazio possiamo trovare l'allusione a un mistero che sfugge alle parole, qualcosa che, essendo alla portata di tutti, ogni giorno della nostra vita, non riusciamo a vedere. Il sentimento di essere vivi, la presenza di Eros in noi, è sia una tensione verso l'infinito che il desiderio vuole sapere e avere tutto intero, sia il lutto costante per la sua impossedibilità.

L'io narrante di quasi metà dei Sacred Games, il grande gangster Ganesh Gaitonde, si chiede alla fine se si possa vivere senza il sostegno di una fede, di un Dio che legittima l'esistenza e veste di dignità l'essere umano che crede in lui, onnipotente e onnisciente come il padre appare al bambino, indicando il confine fra il lecito dall'illecito, condannando e assolvendo, e mantenendo un ordine ci rassicura del fatto che il caos terrificante non prevarrà sull'ordine del cosmo. Ci sono storie e racconti che servono a una ideologia che può definirsi religiosa, che funzionano come stampelle per chi teme di cadere:

Possibile che fossi un essere sballottato casualmente qua e là in balia degli eventi? Che un giorno seguisse l'altro solo perché così era, senza alcun motivo? Non potevo accettarlo. Questo ammasso ronzante di caos mi faceva soffrire, voglio dire che avevo mal di stomaco e mal di testa, poi mi tornarono le emorroidi che mi lasciarono stordito e tremante in bagno. Il mio corpo protestava contro l'asserzione che la mia vita fosse priva di significato. No, la mia vita aveva una forma.
E ancora adesso stavo imparando, stavo progredendo, avevo una missione per il mio paese, avevo un maestro, ero diretto da qualche parte. Avevo una storia.
(Vikram Chandra, Giochi sacri, Mondadori, Milano 2006; pp. 721-722)

Ganesh Gaitonde ha una storia se affida la sua libertà a Guru-ji, che lo chiama il mio Arjun e lo assolve da tutti i suoi crimini, ponendolo con sé al di sopra del bene e del male, svelandogli il senso della vita che da solo non riesce più a vedere. Ma Ganesh Gaitonde scopre, al termine della sua corsa, nelle prime pagine dei Sacred Games, che la morte è il solo senso della sua esperienza, e ora sa che per avere una storia occorre solo raccontarla, e che nessuna storia è insignificante se ne restiamo testimoni. Sceglie come ascoltatore il suo antagonista naturale, un poliziotto, che lo ascolta pochi minuti, mentre cerca il modo di aprire il suo bunker:

Sartaj, mi hai chiamato yaar. Ti dirò una cosa. Che uno la costruisca grande  piccola, non c'è casa che sia completamente sicura. Vincere vuol dire perdere tutto, e il gioco vince sempre . (Ib., pp. 62-63)

Una ruspa si muove sferragliando per ordine di Sartaj, al quale sembra di sentire le ultime parole del gangster:

Sartaj, tu credi in Dio ? (Ib.)

Hai un padre che ti guida, Sartaj, al quale affidarti? E tu, lettore, hai un padre che ti rassicuri quando le tue risorse non bastano a vivere?

Il gangster si era affidato a un grande guru internazionale, scoprendo alla fine che stava preparando un attentato atomico a Bombay. Il tutore dell'ordine invece non si affida a nessuno, sente, pensa, agisce, si interroga. La sera prima della ruspa e del rifugio atomico, Sartaj Singh, il solo ispettore sikh di Mumbay, mentre sorseggiava il suo secondo whisky, solo in casa, aveva ricordato Bombay/Mumbai, la città della sua infanzia:

Ora invece Mumbai gli sfuggiva, era troppo vasta, famiglia dopo famiglia dopo famiglia fino ad arrivare a quel lucore freddo e senza fine, impossibile da riconoscere e da sfuggire. Era davvero esistita quella viuzza deserta, libera per le partite di cricket dei bambini e il dabbaispies e il tikkar-billa, o l'aveva rubata a un pellicola sfocata in bianco e nero? Era forse un regalo fatto a se stesso, il ricordo di un luogo più felice?
Sartaj si alzò. Appoggiandosi a un lato della finestra, finì il whisky, inclinando il bicchiere per godersi anche l'ultima goccia. Si sporse fuori, cercando di catturare un filo di brezza. L'orizzonte era indistinto, lontano, luci inclementi lo illuminavano dal basso. Guardò giù e vide uno scintillio nel parcheggio sottostante, un pezzetto di vetro, di mica. Pensò d'un tratto quanto sarebbe stato facile continuare a sporgersi, finché il peso non l'avrebbe trascinato con sé. Vide se stesso cadere, la kurta bianca sventolare all'impazzata, il torace e la pancia scoperti, il nada al seguito come una cometa, i chappal da bagno di plastica bianca e blu svolazzanti, i piedi che ruotavano, e prima di aver compiuto un cerchio completo il tonfo del cranio che si fracassava, un tonfo rapido e poi il silenzio. Sartaj si ritrasse dalla finestra. Depose, con molta attenzione, il bicchiere sul tavolino. Da dove era venuto quel pensiero? Se lo chiese ad alta voce: "Da dove è venuto?"
(Ib., p. 37)

Dall'incontro fra Ganesh Gaitonde e Sartaj Singh germoglia la possibilità di salvare dall'esplosione atomica Bombay, la città minacciata di annientamento come il reame di tante fiabe, e come nelle fiabe è necessario un eroe che la salvi adempiendo il suo compito impossibile.
Morfologicamente Ganesh Gaitonde e Sartaj Singh sono due forme dell'attante protagonista, legati in una fratellanza fragile e vera per lo sguardo e le parole nelle quali il gangster si è sentito riconosciuto dal secondo, e ha creduto che lo sguardo di lui fosse capace di andare oltre le apparenze.
L'eroe negativo delle fiabe, che formano la struttura di tante storie contemporanee, è sgradevole dall'inizio, o ha qualcosa che ricordiamo, una volta che scopriamo la sua malvagità, come indizi che avrebbero potuto metterci in guardia. Allo stesso modo nella vita quotidiana il fallimento di un rapporto è meno doloroso quando possiamo rinarrarci la storia dicendo che c'erano tanti elementi che abbiamo trascurato, per un eccesso di fiducia. Così torniamo fra i buoni e collochiamo fra i cattivi la persona dalla quale ci siamo sentiti traditi, illudendoci di aver imparato come difenderci dal male.
Nei romanzi di Chandra, come nella realtà, è difficile distinguere i buoni dai cattivi, nessuno è stabilmente collocato da una parte, come se tutti i suoi personaggi avessero bisogno di capire chi sono, e insieme temessero di farlo. Per la sua appartenenza al mondo del crimine Ganesh Gaitonde è un eroe negativo, ma nella sua ascesa spregiudicata verso il potere il fremito costante della sua debolezza, disperata e furiosa, ce lo rende fin troppo vicino, e gli siamo accanto nel momento in cui riconosce che non ha cambiato il proprio destino, quando chiama Sartaj perché a nessun altro può consegnare se stesso e la sua storia.
Per Sartaj Singh, ispettore di polizia dotato dello spirito del detective che un tempo poteva operare solo fuori dall'istituzione, né la divisa né alcuna ideologia sono una protezione rassicurante sul senso della sua esistenza. Ha una sensibilità così fine che per restare aperto alla bellezza dei tramonti di Bombay e alla nostalgia per l'infanzia deve lasciar affiorare una fantasia suicida di cui non conosce l'autore, come non conosciamo l'origine dei nostri sogni notturni. Ama la sua città ma non la riconosce, e non è affatto sicuro che valga la pena darsi tanto da fare per salvarla. Bombay, o Mumbai, è la città che contiene, al massimo grado, le contraddizioni di tutte le metropoli del mondo. È la civiltà che non riconosciamo perché non ci aiuta più a mantenere l'illusione di un'identità compatta, stabilmente fondata: su una lingua particolare, su tradizioni un tempo considerate frutto di una mente superiore, come quella del padre per il bambino, del dio per il credente.

Nella fiaba, nella fiction, come nella storia che preferiamo raccontarci di noi stessi, il cattivo ha, prima o poi, una forma ben distinta da quella del buono, i persecutori sono anche somaticamente diversi dai soccorritori, in modo che possiamo continuare a credere in un principio superiore che ci accompagna, magari punendoci, purché uno sguardo ci segua, onnisciente e onnipresente. I fondamentalisti per il democratico sono folli, i politici sono corrotti, mentre lui è tollerante, aperto. Neri, gialli, fedeli di Allah, Cristo o Jahveh, sono da rispettare, accogliere, comprendere, mentre chi non riuscendo più a trovare senso si chiude in una credenza è da disprezzare. È lo stesso movimento apparente risultato dall'anti-psichiatria negli anni Settanta: il fardello della colpa è stato tolto dalle spalle dello schizofrenico per essere appeso sulle spalle della madre schizofrenogenica.
La rivoluzione è un movimento apparente, un giro narcisistico che risponde a una situazione di incertezza rimescolando le carte e ridistribuendole, in modo che il giocatore possa riprendere un posto conveniente, e il gioco continua come prima. Rispetto alla malattia mentale, la camicia di forza e l'elettroshock sono state squalificate come pratiche violente e reazionarie, e i muri dei manicomi sono stati abbattuti, per essere sostituiti dai muri virtuali degli psicofarmaci. Quel che conta è credere che questo sia il progresso, e continuare a proteggere la nostra normalità. La psicoanalisi stessa sembra aver perso il vigore vitale del doppio movimento operato da Freud, che ha riconosciuto nella nevrosi e nella psicosi gli stessi elementi che compongono il normale equilibrio, che compongono, con forme e risultati tanto diversi, le formazioni culturali più preziose, come la religione, le ideologie, la filosofia, l'arte.

Nei romanzi di Chandra si intrecciano la cattiveria, la viltà, il tradimento, dei buoni e dei cattivi, il loro slancio compassionevole, la capacità di sacrificarsi per un ideale, in una scrittura che comincia dopo la consapevolezza della mescolanza spesso indistinguibile di bene e male, premio e punizione, bellezza e bruttezza. Vivono, lottano, si confondono e si distinguono in ogni pagina, come se il senso del libro fosse contemplarli, non imporre loro un ordine rassicurante.
In Vikram Chandra, come in pochissimi scrittori del Novecento, riconosco la capacità di sospendere qualsiasi giudizio, di non cedere alla tentazione di chiudere gli occhi di fronte alla realtà contemporanea, alla sua tragica incertezza. Questo significa smantellare dentro di sé il carcere, il manicomio, lasciare che i pensieri peggiori affiorino, rischiando di sentirsi privi di riferimenti etici, di affetti, di parentele, di casa, di patria. Solo attraversando questa dissoluzione delle certezze, che Freud chiamava illusioni, si può scoprire come la passione che la vita ha per se stessa affiori dentro di noi, chissà da quale sorgente segreta, e ci faccia ritrovare quello che credevamo di aver perduto, i nostri legami, l'utopia, la tragedia, l'amore.
Prima del Novecento l'immaginario collettivo era come una civiltà circondata da terre che attendevano di essere scoperte, da popoli ignoranti che andavano illuminati. La cultura del passato consentiva di dedicare i propri sforzi a un perfezionamento crescente della propria maîtrise, perché divenendo sempre migliore potesse attrarre chi, volente o nolente, si trovava all'oscuro. Lo splendore della riflessione di Socrate nell'opera di Platone non è concepibile senza i popoli barbari, balbuzienti, che restavano fuori dalle mura dell'utopica Atene, inaccessibili alla pratica dialogica della verità.
L'identità umana si sostiene in un gioco di opposizioni, che permette di dislocare fuori da sé, proiettandolo sui nemici, diversi e inferiori, tutto lo sporco che ci appartiene ma di cui non vogliamo sapere nulla. Gli scrittori che resistono alla tentazione di soffocare la voce della verità, di per sé già fioca, sono pochissimi, e Chandra è uno degli ultimi in ordine di tempo, per qualcosa che mette la sensibilità del lettore in movimento con la propria, e ci aiuta a riflettere sulle contraddizioni della cultura classica nella quale siamo cresciuti. Ciò che hanno in comune scrittori lontanti fra loro, come Marcel Proust, Fernand Celine, Alice Munro, è che alla fine dei loro libri sappiamo di noi stessi e del mondo meno di quando abbiamo cominciato a leggere, ma non ci sentiamo più poveri. Non abbiamo accumulato nozioni né acquisito certezze, ma abbiamo alleggerito il nostro bagaglio di pesi inutili. Non sappiamo quale direzione prendere per trovare il nemico da combattere o l"amico al quale associarci, né ci sentiamo purificati da una qualche fustigazione autoriale, ma ci sentiamo più creature che artefici. Siamo meno illusi, ma più disposti a vivere.
Nessuna sapienza, nessuna soluzione, nessun dio, nessun ateismo.


Sartaj, credi in Dio?

Dopo queste parole, che Sartaj non è certo di aver sentito, Gaitonde si spara, e il sardar, il poliziotto, sikh comincia a cercare il senso della sua morte, sola traccia per trovare la salvezza per la città.
Metà del libro è il racconto in prima persona di Ganesh Gaitonde: ma da dove parla? e a chi parla? Nel primo romanzo di Vikram Chandra, Red Earth and Pouring Rain, c'era una vecchia scimmia morente, nella quale si svegliava la memoria dell'essere umano che era stato. Questo uomo del passato, Sanjay, aveva bisogno di raccontare prima di morire, perché solo così poteva liberarsi dalle reincarnazioni animali, facendo rivivere la parola umana che era scomparsa nel silenzio del suo suicidio. Sanjay era morto suicida, e la scimmia che è una sua reincarnazione morirà quando non avrà più voglia di raccontare. In questo romanzo Ganesh Gaitonde si spara alla testa e continua a raccontare dopo essere morto. Il potere della scrittura è svincolato dal dispositivo narrativo che chiamava come testimoni diretti gli dei Hanuman e Yama, che ora sono nella forza del racconto e nella morte che lo delimita a ogni pagina. Due protagonisti in Sacred Games, due in Red Earth and Pouring Rain. Uno dei due causa la morte dell'altro, e insieme gli permette di raccontare.
"Do you want Ganesh Gaitonde?' dice il gangster in punto di morte a Sartaj prima di raccontare. Sacred Games è il grande romanzo che Abhai, il narratore legato alla scimmia Sanjay, aveva promesso di raccontare alla fine di Red Earth, per richiamare alla vita una bambina in coma a causa di un attentato terroristico, perché non bastano i medici e i genitori che pure la curano amorevolmente: Raccontale una storia, ha detto la scimmia Sanjay ad Abhai, prima di morire:

Devo essere impazzito, forse mi arresteranno. [...] Mi darete ascolto? Mi lapiderete, mi rinchiuderete? Non importa, io devo raccontare una storia. [...] Racconterò una storia che crescerà come un loto rampicante, si avvolgerà su se stessa e si espanderà senza fine, finché ciascuno di voi entrerà a farne parte, e gli dei verranno ad ascoltare, finché tutti noi parleremo in un'armoniosa confusione che contiene il passato, ogni attimo del presente, e il futuro infinito. E la grande musica di quel suono primigenio raggiungerà Saira, che si metterà a sedere sul letto, si libererà dalle bende e salterà giù con le mani sui fianchi e ridendo chiederà, cosa succede, eh? Cosa sono quei musi lunghi, volete fare una partita a cricket? [...] Giocheremo fino al tramonto, liberi e spensierati. Poi siederemo in cerchio, in innumerevoli cerchi, e diremo, dacci la tua benedizione, Ganesha; resta con noi, amico Hanuman, e tu Yama, vecchio furfante, puoi stare a sentire, se credi; e con queste parole ricominceremo tutto daccapo. (Red Earth and Pouring Rain, Faber and Faber, London 1995; Terra rossa e pioggia scrosciante,  tr. di Anna Nadotti e Fausto Galuzzi; Instar Libri, Torino 1998; pp. 740-741 trnslt)

Fra le pagine bianche che delimitano il racconto scritto, fra il silenzio o il rumore che precedono e seguono la voce del narratore, cresce un loto rampicante, sorvegliato dal lavoro di un giardiniere che non segue regole del passato, non perché non ne conosca l'arte, ma proprio conoscendola, né si identifica in una tradizione orientale per trovare un nuovo confine che la separi dall'occidente, o viceversa, che lavora perché possa entrarvi chiunque si trovi a passarvi accanto. Per coltivare la città del nostro tempo dobbiamo riconoscere la nostra appartenenza a lei, dobbiamo e possiamo riconoscere il dissolvimento dei confini che fino all'Ottocento erano i segni visibili dell'ordine cosmico, come le righe sulle carte geografiche, che corrono lungo i fiumi o le catene montuose, che corrono diritte come le hanno volute i colonizzatori, o serpeggiano seguendo secoli di guerre e trattati. L'identità fondata sulla maîtrise di una cultura sull'altra si sta dissolvendo, come la padronanza sulla realtà psichica dell'Io, armato della razionalità e della logica tradizionale. L'articolazione più universale del patriarcato, quella fra maschio e femmina, con la disposizione gerarchica che ha sempre diviso e unito i due sessi, è logora, e nei tentativi di restaurare l'ordine con l'astuzia della ragione o con proclami sanguinari scorgiamo l'inevitabile fallimento. È  lecito distogliere lo sguardo cercando nel passato una casa che oggi non si trova? Nessuno guarda ciò che non può sostenere, Freud ce lo ha insegnato e la pratica psicoanalitica ci mostra quotidianamente come scegliamo di camuffare la realtà o di delirare quando temiamo che la nostra visione di noi stessi e delle cose possa dissolversi. Solo una parte di noi può tollerare il bagno di incertezza nel quale siamo di fatto immersi, e se è vero che non trova una soluzione, la strada per un lieto fine, è vero che scopre come questa condizione non impedisca di vivere, agire, ascoltare e raccontare. Scopre che quel che sembrava il caos può essere una nuova forma del cosmo, fra le mille e una che il passato ci ha consegnato, e gli accade come a chi non sa nuotare e per paura annaspa e va sotto, quando finalmente scopre che se smette di agitarsi l'acqua lo sostiene e lo culla.
Per farlo occorre conoscere il richiamo fascinante e assillante che spinge a selezionare i propri pensieri e delimitare la sensibilità in una prospettiva che pone al suo orizzonte una forma di purezza. In Red Earth and Pouring Rain Chandra ci insegna a sciogliersi da questo richiamo, che risuona con le parole della Poetica  di Aristotele:

Katharòs dèi èinai o kòsmos. - Anche quando il libro rimaneva chiuso, o durante la cena, Sanjay udiva quelle sillabe aleggiare nei cortili, scavalcare i muri, stormire con il vento tra le fronde; giorno e notte una voce incessante, dapprima dolce e ragionevole, poi maniacale nella sua insistenza, 'katharòs, katharòs', finché Sanjay cominciò a darsi pugni sulle orecchie e a stringersi la testa fra le mani, incurante del dolore. (Ib., p. 404)

La vita si offre a chi è immerso nell'incertezza non meno che a chi difende i confini del passato, ma l'esultanza per le forme che genera la sua danza, vorticosa eppure quieta come un minuetto, è massima per chi ha temuto che nulla potesse più dar senso alla sua vita. Accade alla scimmia Sanjay la notte prima di cominciare a raccontare:

Poi rimasi coricato e sveglio, tendendo l'orecchio agli scricchiolii e al fruscio del vento fra le piante fuori dalla finestra, volgendo di tanto in tanto lo sguardo al trono nero nell'angolo, una lastra di oscurità più scura nell'oscurità; deboli brillantini di luce vi guizzavano dentro; mi sforzavo di riandare al passato e riportare alla luce ricordi convertibili in storie, ma riuscivo a pensare solo alla ricchezza del mondo, alla sua verdeggiante profusione: il delizioso profumo che esala dalla regina della notte quando i suoi fiori si schiudono lentamente, il gracidio delle rane, la luce argentata della luna e le ombre misteriose, lo stormire delle cime degli alberi e il soffuso diffondersi delle voci, la carezza di morbide rotondità concrete e rassicuranti, nell'incavo della mano. Soprattutto pensavo: siamo fortunati, ed è strano che impariamo a odiare perfino questo, che dimentichiamo simili doni e cerchiamo di liberarcene; le lenzuola sono fresche e lisce sotto di me, e di ciò sono riconoscente; sì, tutto questo deve bastare, sentire queste cose e sapere che tutto questo coesiste, la terra con i suoi mari, il cielo con i suoi soli . (Ib., p. 26)

Ma tutto questo, molte volte, non basta, e il cosmo che ci invitava a cantare la sua melodia diventa un'illusione che si dissolve e cade come un velo: tutto il meglio che abbiamo creduto di ricevere e donare appare un cumulo di detriti che ha preso temporaneamente una forma per illuderci.
La disillusione, la scoperta della vanitas vanitatum è l'incipit del romanzo, nella fantasia suicida di Sartaj Singh e nelle parole che Ganesh Gaitonde gli dice prima di spararsi alla testa: Build it big or small, there is no house that is safe. To win is to lose everything, and the game always wins (cit, vedi sopra).
La vanitas vanitatum, che in passato era l'amaro grido del saggio, la sua sapienza inaccessibile e non desiderata, è in Sacred Games il punto di partenza dei due protagonisti: omnia vanitates, il grido dell'antico Ecclesiaste si leva quotidianamente dentro e fuori di noi. Il grido, più dell'invito aristotelico alla purezza, sgombra il tavolo da tutte le cianfrusaglie, i souvenir, i giochi di prestigio. Il racconto allora ricomincia, antico e nuovo, per sorprenderci mentre ci svela qualcosa che non sapevamo di sapere.





2. "Tu non sei un pazzo," disse lei.

"Molto spesso' Sartaj stava dicendo a Mary, "una soffiata è solo questione di fortuna. In genere succede così. Te ne stai seduto con le mani in mano, e ti cade qualcosa sulle ginocchia. Allora fingi di aver sempre saputo fin dall'inizio quello che stavi facendo' (Ib., p. 775)

Sherlock Holmes non avrebbe mai descritto in questo modo il suo procedimento, e soprattutto non lo avrebbe detto a una donna, perché, come sa bene Ganesh Gaitonde:

Dare qualsiasi informazione a una donna è una sciocchezza che sconsiglio sempre ai miei ragazzi. Qualunque cosa tu dica verrà utilizzata contro di te. (Ib., p. 828)

Sartaj, che fa la parte del detective nei Sacred Games, racconta alla donna che ricevere nel proprio grembo (lap) qualcosa che cade (drops) dall'esterno, è l'evento decisivo verso la soluzione di un caso.

Nel conflitto che oppone due forme dell'essere, maschile e femminile, e nella disposizione gerarchica che ne ricava, il soggetto trova una via per definire se stesso e il senso della propria vita. Il soggetto maschile è attivo, ha sempre una direzione, che mantiene se riesce a proiettare nella donna, diversa e minus habens per eccellenza, ogni dubbio sulla stabilità di questa prerogativa, che tutela come il proprio axis mundi.
Ganesh Gaitonde paga le donne che usa per confermare il senso della propria virilità, del proprio axis mundi, fino al giorno in cui ascolta la preghiera di Dipika. La giovane, figlia di un gangster amico suo, ama un giovane dalit, troppo umile, che il padre non le permetterà mai di sposare. Ganesh le parla del dovere verso la famiglia e la esorta a dimenticare, ma senza alcun risultato:

"Non sono una bambina" rispose, e capii fin dove era arrivata con questo Prashant, e vidi in lei il magnifico orgoglio della giovane donna per i piaceri dati e ricevuti.
Che cosa vuoi che faccia, Dipika?"
"Ne parli a papà. Lui le darà ascolto." Prese la mia mano e se la pose sul capo. "Fin da quando ero bambina lei è sempre stato gentile con me. E so che non la pensa in modo antiquato.
(Ib., p. 315)

Prima di dar ascolto a Dipika, Ganesh Gaitonde diceva:

Sapevo che un giorno sarei morto anch'io, ammazzato. Non c'era scampo per me. Non avevo futuro, né vita, né pensione, né la prospettiva di una vecchiaia facile. Immaginare anche solo una di queste cose era da codardo. Una pallottola mi avrebbe raggiunto prima. Ma sarei vissuto da re. Avrei combattuto contro questa vita, questa puttana che ci condanna a morte, e me la sarei mangiata, avrei consumato ogni minuto di ogni giornata. Perciò a quel punto camminavo per le mie vie come fossi il padrone dell'umanità, fiancheggiato dai miei ragazzi. (Ib., p. 309)

Non è la morte a costituire un limite per il soggetto, che anzi abita trionfalmente l'orlo che lo separa da lei, deciso a batterla con la sua stessa mancanza di pietà. Gainesh Gaitonde vede nella fragile Dipika un coraggio pari al suo, e nello sguardo quello splendid pride che nessuna delle donne che ha posseduto e pagato ha mai mostrato per lui.
Ganesh promette a Dipika di aiutarla, ma si rende conto che la forza di Eros sfugge completamente al suo controllo, e la tradisce svelando il suo segreto al padre di lei: così permette che sia costretta a un matrimonio combinato, dopo il quale Dipika muore, forse suicida, in un incidente stradale.
Pagare le donne e cercare di fottere la morte, camminando per le strade che controlla fra le benedizioni e l'ammirazione di tanta gente non gli basta più.
Paga la donna più di quanto avesse mai fatto, cerca di comprare il suo amore, estende le dimensioni del suo pene con esercizi di ginnastica e si sottopone a interventi chirurgici perché il suo volto sia privo dei segni del tempo, ma si continua a chiedersi se l'amore che la donna gli mostra sia sincero.
La domanda di Ganesh Gaitonde non è sulla donna, ma sulla propria anima: basta la potenza a controllare il mondo? La donna sostiene l'identità, non la crea, l'axis mundi che ci sostiene si forma perché nasciamo dal padre non meno che dalla madre: dai suoi genitori Ganesh Gaitonde è fuggito, per lasciarsi alle spalle il destino di debolezza che lo legava a loro.
Quando vede nel capo della grande setta induista in Guru-ji il padre buono, forte e sapiente che gli è mancato, si affida a lui credendo di ottenere una legittimazione che lo liberi dai dubbi che minano la sua sicurezza, e mette nelle sue mani la domanda sull'amore della donna, che lo rode da dentro come un tarlo.
Il grande guru, che affascina occidentali e orientali, muovendo aerei e capitali immensi, dispensando un'antica saggezza di cui si considera depositario, lo rassicura:

"Neppure i saggi sanno guardare nel cuore di una donna. Vatsyayana stesso ha scritto: 'Non si sa mai quanto sia innamorata un donna, neppure quando si è il suo amante'. [...] Le donne sono volubili, Arjun. Non sono in grado di controllare le loro emozioni, sono mutevoli come la prakriti. Ameresti il tempo per la sua costanza, oppure il fiume perché resta sempre nello stesso luogo? [...] Finché avrà da guadagnare da te, ti darà l'impressione di poterti amare. È l'abilità della puttana. È una dote naturale nelle donne. Non è colpa loro, agiscono secondo come sono fatte. Sono deboli, e i deboli hanno tre armi a disposizione: mentire, evadere, recitare. " (Ib., p. 919)

Anche Guru-ji, che vuole distruggere la città con una piccola bomba atomica, ha una saggezza, e nella sua risposta c'è una verità che va estratta: non si può amare il tempo (weather) per la sua stabilità, né l'acqua corrente è il riferimento per rafforzare il proprio axis mundi. Se lo scopo della vita è ergersi contro la vita stessa che si manifesta nella fioritura della pianta come nel fiore che cade e marcisce nella terra, occorre considerare la mutevolezza del tempo e del fiume, e l'incertezza della passione o dell'amore, meno importanti del proprio axis mundi, che sia personale o scelto fra i feticci di una religione o di un'ideologia. Il piacere e la gratitudine per una giornata di sole o per l'aria liberata da un temporale, il nostro umore che torna sereno dopo giorni cupi, senza che sappiamo da dove vengano l'uno e l'altro, non impediscono di agire e pensare, ma tolgono la delirante pretesa che il nostro axis mundi controlli il flusso della vita.
Solo considerando la donna come inferiore - weak, lier, evasive, actress, whore - è possibile per il soggetto maschile non perdere la propria sicurezza centrata sul dominio fallico, lasciando che lei resti ai margini del suo sacred game, che ha solo altri maschi come referenti. Guru-ji ha ragione quando invita Ganesh a considerare il dolore della passione come una porta verso la saggezza, eppure questa ragione provoca una ribellione nel corpo di Ganesh Gaitonde:

Ma la mia pelle si opponeva al dolore, alla decisione che sapevo di dover prendere. Lo stomaco mi ribolliva di disperazione. Sarebbe rimasto solo questo grande vuoto, lasciato dall'illusione evanescente dell'amore? Mi sembrava di essere in piedi in mezzo a una pianura sconfinata, illuminata da una strana luce che livellava tutto. La vidi e mi ritrassi sgomento di fronte alla sua vacuità. (Ib., p. 920)

A Guru-ji non resta altro che richiamarlo alla fede, sollecitandolo a non ascoltare la propria sensibilità, fatta di carne non meno che di pensieri, e a mettere nelle sue mani paterne la ricerca del proprio senso della vita:

"Abbi fede, Arjun. Non dubitare nella fede. Io veglierò su di te. Non avere paura, beta. " (Ibidem)

Nulla eguaglia il conforto di un padre che ci sostiene, nulla consola quanto sapere che qualcuno ci conosce e ci guida, e Vikram Chandra dipinge la nostalgia di questo padre in ogni pagina dei Sacred Games. Il desiderio sboccia e dà frutti se si rinuncia all'illusione di appagarlo, senza dimenticare la sua impareggiabile dolcezza:

Ero fiducioso, non avevo paura nella dolce culla dell'amore del mio Guruji. (Ib., p.731)

Il padre come solo conforto che tratta l'incertezza come un male dal quale si può guarire, aiuta a tenersi lontani dalla rivelazione che dà titolo al primo romanzo di Chandra:

Cosa potrebbe essere mia madre
per la tua? Che parentela esiste
tra mio padre e il tuo? E come
ci siamo mai incontrati io e te?
Ma nell'amore
i nostri cuori si sono mescolati,
come
terra rossa e pioggia scrosciante:
mai più separabili.

(Terra rossa, cit., p. 289)

La vita, dice la canzone, cade in noi come la pioggia, dopo la quale non si può più distinguere cosa è nostro e cosa è dell'altro, cosa abbiamo donato e ricevuto, cosa abbiamo cercato e cosa abbiamo scoperto per caso. Cosa è nel figlio più del padre che della madre, o viceversa?
Chi ha scelto il giorno della nostra nascita, chi ha scelto di essere? I genitori sono il nostro ponte per entrare nella vita, non i nostri autori, e finché non rinunciamo a un Genitore Autore l'esistenza si consuma fra fughe e regressioni alla loro immaginaria onnipotenza.
Dove Eros è presente, l'illusione che un axis mundi basti a sostenerci nella vita si dissolve, mostrando la sua anarchia, e come le tradizioni si costituiscano per non esserne sovvertite.
Il poliziotto Sartaj si scioglie dalla tradizione quando confida a Mary di sentirsi fool, e riconosce il balsamo della sua risposta, mentre Ganesh si scontra con la tradizione quando, nonostante la sua potenza di gangster, non vede un modo di aiutare Dipika, la giovane innamorata senza speranza:

Seduto accanto a Paritoh Shah, mortificato dalle sue lacrime e incapace di guardarlo negli occhi, percepii tutta la mia impotenza. Avrei picchiato tutti i suoi parenti, li avrei calpestati con le mie stesse scarpe, avrei spaccato quei musi compiaciuti per far assaggiare loro un po' di aria moderna, se solo questo avesse cambiato qualcosa. Ma la tradizione aleggia tra gli uomini e le donne, si nasconde nella pancia dei bambini e sfugge e si espande e svanisce a ogni respiro, è impossibile farla fuori, o anche solo afferrarla, si può solo sopportarla. (Ib., p. 326)

Gaitonde non può cominciare a sciogliersi dall'axis mundi della cultura patriarcale, fallocentrica, non vede nessun appiglio per evitare i bagni di sangue che ogni Guru-ji pretende per realizzare il suo ordine, sangue umano che va versato per fondare ogni città e per salvarla nel tempo, come il sangue di Dipika.
L'incertezza che sperimenta Sartaj Singh parlando con Mary, che non lo tradirà, somiglia a quella di Ulisse nel suo ultimo naufragio, o al suo smarrimento quando si sveglia a Itaca avvolto dalla nebbia.  La sperimenta Sherlock Holmes prima di affrontare un caso che Scotland Yard considera insolubile. Ma Ulisse e Sherlock Holmes non sono insieme alla donna mentre vivono l'incertezza, che fa sperimentare la vaghezza errante del senso della vita, e la loro storia in qualche forma continua ad alimentare l'illusione that they knew what they were doing all along.
La compulsione al senso è il rovescio della ricerca del senso, che culmina nel falso proprio quando crede di catturare la verità. Per questo la violenza è strutturalmente connaturata al gesto con cui mettiamo la nostra libertà nelle mani di chi si presenta come detentore di soluzioni definitive, promettendo che userà la nostra delega per realizzare l'utopia di una società giusta, e illudendo i propri seguaci che con lui saranno al sicuro dal rischio di smarrire il senso della propria vita.

"You are not a fool,' dice Mary a Sartaj, e gli ricorda come abbia usato tutto ciò che sa di sapere per trovarsi dove qualcosa poteva cadergli in grembo (drop in his lap). Gli dice, come donna, che questa posizione di attesa ricettiva non è né passiva né folle.
Né Sartaj né Ganesh Gaitonde sono garantiti da un padre, anche se fino alla fine della vita o del libro non rinunciano all'illusione di averlo. Il distacco da un'autorità paterna che può legittimare il proprio essere non è una scelta, perché nessuno sceglie di rinunciare alla culla nella quale si sente sicuro, ma la conseguenza dello sguardo lucido sugli axis mundi di cui i nostri mezzi di comunicazione ci mostrano molti, troppi esemplari. L'axis fallico deve essere unico, non può includere quelli degli altri se non disponendoli gerarchicamente sotto al proprio.
Rinunciare a seguire l'insegnamento di Guru-ji riguardo al femminile, che secondo il guru va usato subordinandolo al maschile, implica una nostalgia infinita di padre, di patria, di stabilità dell'essere, e la scoperta  che la nostalgia vive senza certezza della meta.
In questa incertezza può accadere un incontro imprevisto, e la parola di qualcuno i cui parenti non erano nulla per i nostri parenti basta a rassicurarci, come Mary che dice a Sartaj che non è fool:

"Tu non sei un idiota" disse.
Era una dichiarazione, e Sartaj non ebbe più esitazioni. Allungò il braccio e le prese la mando, e rimasero seduti tenendosi per mano. [Kamble avrebbe riso di questo scambio,] Di certo nessun ghazal aveva mai dichiarato con fervore che l'amato non era un idiota, nessuna canzone d'amore di Majrooh Sultanpuri aveva mai sentito il bisogno di affermare una cosa del genere. Kamble credeva nel grande amore e nella grande tragedia, ed era giusto così. Ma Sartaj si sentì appagato: essere salvati dalla propria stupidità era la tenerezza più grande. Siamo tutti idioti, pensò, lo so di esserlo. Trovare una persona che ti perdona questo, è fantastico. È importante.
(Ib., pp. 776-777)

Mi piace pensare che questo è un amore in un una forma nuova, non la ribellione mortale degli amanti, come Dipika e il dalit povero, come Giulietta e Romeo o Laylah e Majnun, né il matrimonio che inserendosi armonicamente nella storia delle famiglie d'origine ne preserva la tradizione. Un amore contemporaneo, con le sue parole in sordina che scendono come un balsamo, come la maschera di bellezza che Sartaj e Mary si faranno a vicenda, alla fine del romanzo. Forse oggi i veri amanti non si sostengono a vicenda, né uno dirige l'altro, non si inseriscono nella tradizione né la combattono morendo, ma si perdonano per il loro smarrimento. Non trovano per questo né una ragione per vivere, né per morire, ma solo una compagnia che scalda l'anima, fino alla pagina bianca che mette fine alla loro storia.



3. Il  miracolo più grande

Dhàrma: - E qual è il miracolo più grande?
Yudhìshtira: - Ogni giorno la morte colpisce e noi viviamo come se fossimo immortali. Questo è il miracolo più grande.
(Peter Brook, The Mahabharata, GB 1989; trad. nostra)

L'essere umano vive in questo miracolo, e gli dà forma nell'arte.
Il racconto esiste solo quando il narratore e l'ascoltatore tollerano il limite del suo inizio e della sua fine, le due pagine bianche al principio e alla fine del libro. Le persone che vivono una condizione di grave sofferenza psichica spesso non possono guardare un film o leggere un romanzo, dicono di non potersi concentrare, o che non li interessa. Per la mia esperienza la loro ignoranza del miracolo più grande, corrisponde a una fuga dalla morte non meno che dalla vita, verso una meta che, se raggiunta, è un'atto [acting] che fatalmente le mostra unite: l'esito tragico della psicosi paranoica o melanconica è una ribellione al proprio annientamento realizzata dando la morte all'altro o a se stessi. Se pensiamo al racconto, l'esito paranoico vale in una storia incontenibile, narrata e interpretata da un narratore onnisciente che vuole dire cosa accade prima e dopo la pagina bianca. Nell'esito melanconico la storia si contrae progressivamente, fino a che tutti i suoi passaggi sono considerati insignificanti da un autore altrettanto onnisciente che si dissolve [fading] con loro, fino a quando le due pagine si congiungono, inghiottendo il soggetto.
Da una prospettiva psicoanalitica, la superiorità morale o intellettuale delle persone è una maschera che funziona come una seconda pelle, e non si può portare se non avendo accanto dei minus habentes, siano peccatori, allievi, figli bambini, malati. Chi manifesta qualche forma di superiorità morale o intellettuale rivela prima o poi che la sua potenza non esisterebbe se non avesse accanto qualcuno inferiore, in qualche modo bisognoso. Né esita a usare tutta la forza di cui dispone, combattendo o fuggendo, quando sente che la sua superiorità gerarchica è minacciata. Infinite sono le forme di gerarchia che si trovano ovunque, alla portata di tutti, più o meno raffinate e mascherate, più o meno grezze e scoperte, sostanzialmente uguali, in ultima istanza volte a mantenere una scala che all'ultimo gradino possa sfiorare il cielo, il paradiso, il benessere, l'immortalità, in una delle loro infinite forme.
Romanzo dei nostri anni, Sacred Games/Giochi sacri ci mostra senza pregiudizi come ai nostri giorni si sia disposti a qualunque sacrificio per ottenere la bellezza fisica, il danaro, la visibilità mediatica, come fossimo pronti a ribellarci in questo modo all'indebolimento del soggetto conseguente al tramonto dei grandi sistemi di legittimazione, religiosi o ideologici.
L'incontro fra Ganesh Gaitonde e Sartaj Singh non serve a nessuna formazione gerarchica, è un evento gratuito. Non serve, non è a servizio di nulla, è gratuito, è una grazia, che sfugge per sua natura alle trame che costruiamo quando misconosciamo il miracolo più grande di cui parla il Mahabharata. Trame immense, giochi sacri, che Gainesh Gaitonde ha costruito fino a diventare il bhai indù di Bombay, l'Arjun di Guru-ji, per poi comprendere che il progetto del grande guru internazionale è di distruggere Mumbai con un'atomica, per attribuire la responsabilità dell'attentato ai fondamentalisti islamici. Intende così aprirsi la strada verso il potere in India, per poterla rendere tutta induista, meravigliosamente religiosa, pulita, ordinata, legale, come gli ashram a forma di mandala che ha già costruito:

Voleva migliorare e trasformare l’India intera in questa oasi verde di pace, portarla avanti fino alla perfezione. Alcune zone di Singapore possedevano la pulizia che voleva lui, ma non c’era città al mondo che avesse questa simmetria, questa coerenza intima che equilibrasse con precisione negozi e centri di meditazione, e facesse scorgere il tempio centrale attraverso le arcate perfettamenet allineate della biblioteca e della lavanderia. Questi edifici e i cancelli azzurri sembravano il passato, i set dorati dei film mitologici, e invece erano il futuro di Guruji. Questo era il futuro che voleva portarci, il Satyug che voleva creare. (Ib., p. 1003)

Un albero immenso è caduto sulla cancellata di un ashram, e ha aperto il varco a una mandria di capre, in un altro gli uffici sono invasi da termiti e formiche rosse, mentre in un terzo ashram l'amministrazione è stata sconvolta da uno scandalo sessuale. La brutta vecchia vita resiste al titanico sforzo di chirurgia plastica che Guru-ji con il suo Arjun sta tentando, perché il logos della vita non è padroneggiabile. Non è necessario appartenere a una confessione religiosa per contemplare il miracolo più grande, anche se riconoscere il paradosso nel quale viviamo esige una maturità etica che i nostri nodi nevrotici e psicotici rendono quasi inaccessibile, come la realizzazione di un sogno. Forse appartenere a una religione attenua la difficoltà, assicurando che qualcuno, invisibile, inattingibile, ci renderà giustizia. Credere in Dio significa mantenere nella nostra immaginazione una parte ordinata e perfetta, grazie alla quale l'incertezza di tutte le altre sembra sopportabile, come un profumo celestiale che ci sembra di sentire nell'humus, nella melma di terra e pioggia. Ma i credenti sono in numero molto ridotto rispetto ai bigotti o ai benpensanti.
Guru-ji non è un accidente della cultura, una sua perversione da eliminare con un"azione eroica per poter raggiungere il lieto fine, ma la conseguenza inevitabile della fede, ogni volta che un soggetto si erge a interprete assoluto della volontà divina, legittimando se stesso e gli altri ad agire in suo nome.

Per un soffio la città di Bombay/Mumbai non scompare in un fungo atomico, come sono cadute le Twin Towers, come esplodono ogni giorno persone e case e villaggi. Un soffio permette di evitare un olocausto, di tornare a sentire la vita nel miracolo più grande, e nel romanzo di Chandra il soffio si libra dall'incontro gratuito fra i due protagonisti. Allo stesso modo in Red Earth il flusso dei racconti scaturiva dall'incontro mortale fra il giovane Abhai, studente indiano di ritorno dagli US, e il brahmino Sanjai reincarnato in una grande scimmia.

Gaitonde non ha mai avuto una donna, se non per il tempo che le comprava, e la moglie che non amava è morta col figlioletto in una delle battaglie che regolano i conti delle bande criminali. La sola donna che non ha sacrificato alla sua potenza di bhai di Bombay è Jojo, la sola che lo comprenda, la sola di cui comprende, da un semplice sospiro, se è di malumore o distratta. Entrambi sanno che il loro rapporto esiste a patto che non si incontrino, grazie al limite del telefono, il mezzo che hanno scelto per viverlo e delimitarlo.
Quando Ganesh Gaitonde si rende conto che non potrà impedire l'attentato atomico, vuole salvare Jojo, contro la sua volontà. Il suo potere gli consente di farla portare con la forza nel bunker, dove dovrà restare con a lui. Sono due esseri umani che non hanno mai rinunciato alla loro onnipotenza, ciascuno dei quali riesce a vivere ergendo dentro di sé un axis mundi che non può più essere spostato, indebolito, inclinato. Né Ganesh Gaitonde nè Jojo possono inchinarsi al destino o a un altro essere umano, e quando la donna non trova un mezzo per sottrarsi alla presa del suo amico, lo colpisce con il disprezzo per la sua virilità. La prevedibile collera di Ganesh è l'opposto complementare della violenza di Jojo, e l'arma impugnata, lo sparo con cui la riduce al silenzio è il solo modo che ha per rapportarsi a lei.
Morta Jojo, Ganesh Gaitonde è costretto a incontrarsi con se stesso, perché nulla e nessuno ormai lo separa dalla scoperta che la debolezza che ha fuggito è cresciuta dentro di lui per sommergerlo.
 
In un'antica storia sufi un giovane di Baghdad vede la Morte che lo fissa, e temendo che voglia prenderlo monta a cavallo e galoppa fino a Samarcanda, dove la trova ad aspettarlo. La Morte lo aveva fissato a lungo perché le era sembrato troppo lontano da Samarcanda, dove sapeva di doverlo prendere con sé. Nella tragedia di Edipo, eroe tragico per eccellenza nell'antica Grecia e chiave di volta mitica nella psicoanalisi, il protagonista fugge il destino di parricida incestuoso che gli ha rivelato l'oracolo di Delfi abbandonando la reggia dei sovrani che crede i suoi genitori. Sulla via di Tebe uccide il padre sconosciuto e divenendo re della città sposa la madre e genera figli con lei. Quando scopre che la sua fuga dal destino è stata una corsa verso il destino, Edipo si acceca.
Lo ritroviamo quando giunge vicino ad Atene, vecchio, stanco, mendico, con la sola luce della figlia sorella Antigone, e gli abitanti del demo di Colono inorridiscono di fronte alla sua miseria gravata dal carico di disgrazie che porta:

Non esser nati è condizione
che tutte supera; ma poi, una volta apparsi,
tornare al più presto colà donde si venne,
è certo il secondo bene.

(trad. di Umberto Albini e Vico Faggi; Sofocle, Le tragedie; Mondadori, Milano 1983; vv. 1224-1227)

La vittoria sul destino di Edipo che ascende al trono di Tebe si rivela come la sconfitta definitiva. Eppure Edipo dice che non sarà ricordato come empio, perché non è stata sua la scelta di uccidere il padre e generare figli con la madre. La catena delle generazioni che lo hanno preceduto, e il destino che ha raggiunto fuggendone l'orrore, ne ha fatto il vecchio misero e cieco che è ora.
In questa condizione di sconfitta giunge un nuovo messaggio dell'oracolo, dal quale si apprende  che la città che darà a Edipo un luogo per morire sarà vittoriosa, e sarà Edipo a scegliere questa città.
Edipo respinge Creonte, re di Tebe, che vuole portarlo via con la forza, e maledice il proprio figlio che giunge a supplicarlo di unirsi a lui, perché lo aiuti a realizzare il suo diritto al trono di Tebe. Edipo a Colono rigetta ogni legame di sangue, rifiuta di favorire uno dei suoi figli maschi, ricordando che il solo conforto che ha avuto nella disgrazia è venuto dalle figlie.
Non alla sua patria, Tebe, assegna la vittoria, ma ad Atene, la città governata da Teseo, di cui ri conosciamo la giustizia insieme a Edipo, l'uomo di dolore:

So bene che sono un uomo, e che il domani non appartiene più a me che a te . (Ib., vv. 567-569).

Sono uno di fronte all'altro vivi per un tempo di cui non scelgono l'inizio né la fine, e la loro comprensione del miracolo più grande rende possibile un riconoscimento che ha un valore superiore a quello dei legami di sangue e della posizione gerarchica in cui si trovano. Il re giusto non è superiore all"uomo di dolore.
Comprendendo il valore dell'uomo che ha combattuto il destino e ne è stato sconfitto, che è stato re e ora è un lacero mendicante, che ha trovato la soluzione dell'enigma della Sfinge ed è cieco per sempre, il re Teseo lo accoglie perché muoia in pace: questa è la ricchezza che rende invincibile la città.
L'utopia di Sofocle, che scrisse Edipo a Colono un anno prima di morire, vola nella memoria come un'eredità che possiamo accogliere all'inizio del terzo millennio
Dalla morte dell'eroe che si riconosce sconfitto, e si scioglie da ogni legame di sangue e di stirpe, sboccia l'utopia di una città che non si fondi sul sangue, sul rigetto dell'altro.
Atene non otterrebbe la salvezza se Teseo, riconoscendo la propria umanità, non accogliesse Edipo vicino alla morte, e Mumbai non si salverebbe dall'esplosione atomica se Ganesh Gaitonde e Sartaj Singh non si riconoscessero. Quando il grande gangster in incognita cercava di incontrare Guruji, e Sartaj gli aveva detto che gli sembrava di conoscerlo, Gaitonde aveva replicato:

"Mi dicono spesso che somiglio a qualcuno. Mia moglie ci rideva."
"Ci rideva? Adesso non lo fa più?"
Era molto attento, questo ispettore chikna e niente affatto ottuso come i sardar delle barzellette. Con lui bisognava stare in guardia. "E' morta" dissi con mestizia. "Uccisa in un incidente." Lui annuì e distolse lo sguardo. Quando tornò a fissarmi era ancora lo stesso maderchod di un ispettore, ma avevo colto un lampo di compassione in lui. Anch'io sapevo essere acuto. Nella mia vita avevo imparato a osservare le persone. "Anche tu hai perso qualcuno" dissi. "Chi, tua moglie?"
Mi rivolse un'occhiata penetrante, Era un uomo orgoglioso, ovviamente, e indossava l'uniforme. Non mi avrebbe detto niente. "Tutti perdono qualcuno" disse. "È quello che succede nella vita."
(Giochi sacri, p. 744)

Nella sconfitta, solo nel bunker, dopo l'estrema e vana difesa della sua identità, del suo axis mundi, uccidendo Jojo che vi si contrapponeva col proprio, Gaitonde ha bisogno della sola cosa alla quale non possiamo rinunciare. Non è la profusa bellezza della terra con i suoi mari, del cielo con i suoi soli, che sentiva Sanjay nel primo romanzo di Chandra, prima di cominciare i racconti, che deve bastare e spesso non basta. Non è nemmeno la posizione assegnata o conquistata nell'ordine gerarchico fra esseri umani, ma il desiderio di raccontare la propria storia, di lasciarla volare chissà dove, chissà per quanto tempo.

Perché si possa raccontare una storia occorrono un narratore e un ascoltatore, fra i quali possa scendere la grazia di una verità all'unisono, siano un re giusto e un mendicante carico di tutte le disgrazie,  siano un grande gangster e un ispettore di polizia.
Ganesh Gaitonde avrebbe potuto chiamare un giornalista del Mumbai Mirror, che starebbe stato avido ad ascoltarlo:

No, mi serviva una persona brava e semplice. Una persona che mi ascoltasse come un passeggero in attesa alla stazione, con partecipazione e gentilezza, per un paio d'ore, fino all'arrivo del treno. Qualcuno che mi avesse visto non solo come Ganesh Gaitonde, ma come essere umano. Fu allora che mi tornasti in mente tu, Sartaji Singh. Ricordavo il mio primo incontro con Guruji, la prima volta che mi ero seduto faccia a faccia con lui. Ricordavo come mi avevi aiutato in quell‘occasione, mi avevi parlato e - l‘ultimissimo giorno - mi avevi consegnato al mio destino. Ricordavo quel gesto di generosità, insolito per chiunque, incredibile per un poliziotto, e mi ero ricordato di te. Hai negli occhi la crudeltà del poliziotto, Sartaj, ce l'hai nella camminata tracotante, ma sotto quella studiata indifferenza batte il cuore di un uomo romantico. Nonostante le tue arie da sardarji, ti eri commosso. Le nostre vite si erano incrociate e la mia era cambiata per sempre. (Ib, pp. 1056-1057)

Se a questo punto volessimo trarre una morale dalla storia, potremmo celebrare l'unisono fra un criminale e un poliziotto, la verità che scende come una grazia per vie diverse da quelle ordinate dai ruoli e dalle posizioni gerarchiche, e ricordare il riconoscimento evangelico del proprio prossimo come specchio di sé. Dovrebbe bastare, ma non basta.
Lo psicoanalista Franco Fornari poneva come compito dell'analisi il ribaltamento della massima latina mors tua vita mea / vita tua mors mea. Osservando come al tempo dei grandi arsenali atomici, nella guerra fredda fra USA e URSS, gli uomini si trovassero per la prima volta di fronte a uno scenario in cui la distruzione dei nemici e di se stessi coincidevano, lo psicoanalista italiano si chiedeva se non fosse l'occasione per imparare a rinunciare alla violenza che esplode e si placa nella distruzione del nemico.
Lo scenario che si apre a distanza di pochi decenni sembra piuttosto risultare dalla riduzione dell'esito estremo della contrapposizione, frammentando il conflitto in molteplici scenari, così che si possa continuare a eliminare e convertire i nemici senza per questo scomparire insieme a loro. Quanto alla minaccia della fine della vita sul pianeta, causata dall'inquinamento dei popoli dominanti, ma ugualmente mortale per tutti, sembra sufficiente per alimentare a far il pio desiderio di un rinsavimento salutare, ma non per realizzarlo.
Sentendoci tutti piuttosto ingiusti, perché solo alle vittime, già defunte, appartiene con certezza una coscienza immacolata, continuiamo la nostra vita come gli abitanti di Sodoma e Gomorra, nelle città inquinate e ingiuste che non per questo smettono di commuoverci con la loro bellezza.
La contemplazione della bellezza della città in Sacred Games è accompagnata dalla consapevolezza che vederla è una scelta che dipende dalla propria sensibilità, non da un valore assoluto, da imporre agli altri. Accade a Ganesh Gaitonde quando torna a Bombay:

Sudavo copiosamente, ma stavo bene. Chiesi un bicchiere di succo di cocco e lo assaporai lentamente, gustando l’inconfondibile tanfo di Bombay nell’aria pesante, un misto di gas di scarico, inquinamento e acqua stagnante. Dietro di me una serie di condomini mi copriva le spalle mentre davanti c’era una strada sterrata fiancheggiata dai lampioni e poi dal buio del fogliame. Mi sentivo rinvigorito e la stanchezza del volo mi abbandonò lentamente mentre sentivo il canto dei grilli. Un branco di cani sbucò dall‘angolo uggiolando. Ero appagato. (Ib., p. 990)

Accade a Sartaj Singh, dopo aver finalmente sventato l'attentato atomico:

"Boss [...] Sei l’eroe del momento. Alzati ed esigi la parte di merito che ti spetta, altrimenti te lo soffierà uno di questi gaandu ufficiali della polizia nazionale. " Ma Sartaj non se la sentiva di dare consigli proprio a nessuno. Gli bastava starsene seduto alla luce degli schermi dei portatili e guardare il cielo cambiare colore fuori dalla finestra sul retro. Una volta qualcuno - non ricordava chi - gli aveva detto che il fantastico colore dei tramonti a Mumbai derivava dall’inquinamento che sovrastava la città, dalle masse di persone assiepate in uno spazio così ridotto. Sartaj non dubitava che fosse vero, ma i porpora, i rosa e gli arancio erano comunque belli e grandiosi. Uno poteva osservarli cambiare e scurirsi prima di scomparire nel nero della notte. (Ib., p. 1076)

Il miracolo più grande è per il soggetto la realtà più immediatamente percepibile, e allo stesso tempo è la cosa più difficile da accettare. La bellezza esiste solo se il nostro sguardo la coglie, ma il nostro sguardo non la crea. Abbiamo solo la nostra vita, ma non abbiamo scelto di averla.
Fra l'onnipotenza che spinge il soggetto verso il dominio paranoide, verso l'isolamento del protagonista assoluto della storia, e l'impotenza che ci fa percepire la nostra fragilità come insignificanza, e la nostra sparizione come unico senso, il soggetto tenta, nella mitica normalità, di garantirsi un equilibrio stabile, come se non fosse il frutto di tensioni opposte, incrociate, che si congiungono e si disgiungono guidate da una forza vitale, che può ugualmente sembrarci l'espressione di una luce superiore o di un buio cieco.
Resta il sentimento di verità del riconoscimento reciproco, dove Eros come forza di vita si manifesta con una semplicità che sovverte qualsiasi sistema di pensiero. Piccoli gesti, parole che non colonizzano il silenzio, ma lo abitano, e restano accanto, alla fine del libro, come invito a interrogarci su quante volte ciascuno di noi le ha sentite senza ascoltarle, e quante volte le ha dette inutilmente.
Le domande di Sartaj e di Gaitonde restano alla fine dei Sacred Games, ma qualcosa è successo, qualcosa è cambiato: forse la tensione eroica che vuol trovare risposte. Forse si è compreso che l'ideale che tende alla soluzione definitiva manifesterà prima o poi il suo asse di sopraffazione, come la volontà di Guru-ji di formare un India perfetta, che procede fra massacri, giustificati dalla perfezione stessa a cui aspira.

Sartaj alla fine è una persona normale, come Ulisse quando riprese la sua vita a Itaca, quella che nessun Omero può raccontare, è il libro dopo la sua fine, è l'invito a raccontare la propria storia, come a vivere la propria vita, lasciando che la mente metabolizzi il gioco sacro del romanzo, che i colori delle nostre emozioni, dei nostri risvegli e dei nostri giorni cupi, abbiano sfumature che non esisterebbero se non avessimo letto questo libro.

Sartaj scese dalla moto. Posò le scarpe sul pedale, una per una, e le spolverò con un fazzoletto fino a farle splendere. Poi si passò un dito attorno alla vita, lungo la cintura. Si diede un colpetto alle guance, e passò l'indice e il pollice sui baffi. erano splendidi, non aveva dubbi. Era pronto. Entrò e diede inizio a un'altra giornata. (Ib., p. 1162)

Dalla sconfitta tragica nella corsa contro il destino viene il principio della salvezza della città, se Gaitonde, come Edipo, non vuole la distruzione di tanti esseri umani affollati in un piccolo spazio, a Bombay come ad Atene. Ogni città rivela la sua bellezza se lo sguardo coglie cosa la rende commovente: le costruzioni di esseri umani separati gli uni dagli altri da secoli e da desideri diversi compongono un piano che neppure l'architetto più geniale, l'artista più grande e il dittatore più potente potrebbero eguagliare. Ciò che ci fa amare una città, o la città, è il senso del conflitto e dell'incontro fra generazioni e gerarchie, che la forma e la trasforma, invitandoci ad abitarla e a costruire a nostra volta.
Dopo Ganesh Gaitonde, pari a lui per simpatia e umanità, Sartaj Singh si libera dall'ansia di legittimazione che lo tiene legato alla figura paterna, quando per trovare la bomba deve detronizzare il suo capo Parulkar, dal quale pure aveva imparato tanto. E poi ritrova piangendo la radice, l'acqua sorgiva della sua nostalgia del padre, nel penultimo capitolo, ad Amritsar, per lasciarla all'infanzia, al sogno in bianco e nero che ci consola, alla memoria che costruisce l'essere.

L'incubo atomico è finito, e Sartaj mantiene la promessa di accompagnare la madre ad Amritsar, e camminando ricorda quando faceva lo stesso percorso da bambino, per mano al padre e alla madre. Allora non sapeva leggere i nomi dei martiri sikh, ora non può farne a meno:

Per che cosa piangeva? Piangeva per il capitano deceduto, ma anche per i suoi nemici, che lo avevano aspettato su quel fronte di ghiacci, ansimanti e con i polmoni rovinati per la mancanza d'ossigeno. Piangeva per i nomi sulle lapidi, e per i martiri sikh dei dipinti nel museo al piano superiore, che avevano opposto resistenza per difendere la fede ed erano stati torturati, smembrati e infine giustiziati. Piangeva per i seicentoquarantaquattro nomi della lista nel museo, per i sikh uccisi quando l'esercito aveva messo sotto assedio il tempio nel 1984, e piangeva per i soldati falciati dai proiettili su queste stesse lastre di pietra. Sartaj continuò a camminare. Si asciugò il viso e completò il giro intorno al sarovar. Sua madre era ancora lì, la schiena appoggiata contro un pilastro e gli occhi chiusi. Le passò davanti e ricominciò la parkama. Un vecchio lo guardò con aria gentile e incuriosita, e Sartaj si accorse di stare di nuovo piangendo. Non c'era modo di calcolare con esattezza quanto era stato sacrificato e quanto era stato guadagnato, c'era solo questo riconoscimento della perdita, del dolore sofferto e assorbito. Il calore saliva da sotto i piedi di Sartaj in un pizzicore gradevole, e continuò a camminare. Dava una certa pace girare intorno a questa Piscina del Nettare. Non si aspettava il perdono di Vaheguru, e neppure che la sua fede frammentaria e dubbiosa in Vaheguru gli desse il diritto di chiedere perdono. Non sapeva se era un uomo buono o cattivo, e neppure se le sue azioni nascessero dalla fede o dalla paura. Però aveva agito, e adesso camminare gli faceva male e al tempo stesso gli portava sollievo.  (Ib., p. 1152-1153)

Non si può fare nessun bilancio che faccia tornare i conti delle perdite e dei guadagni in un massacro, in una guerra, in un omicidio. Sartaj piange per i martiri della sua religione e per i loro nemici, e incontra se stesso come in un racconto di Borges-bhai, così Chandra chiama Jorge Luis Borges, nel quale si incontrano i due fratelli:

Abel y Caín se encontraron después de la muerte de Abel. Caminaban por el desierto y se reconocieron desde lejos, porque los dos eran muy altos. Los hermanos se sentaron en la tierra, hicieron un fuego y comieron. Guardaban silencio, a la manera de la gente cansada cuando declina el día. En el cielo asomaba alguna estrella, que aún no había recibido su nombre. A la luz de las llamas, Caín advirtió en la frente de Abel la marca de la piedra y dejó caer el pan que estaba por llevarse a la boca y pidió que le fuera perdonado su crimen.
Abel contestó:
-¿Tú me has matado o yo te he matado? Ya no recuerdo; aquí estamos juntos como antes.-Ahora sé que en verdad me has perdonado -dijo Caín-, porque olvidar es perdonar. Yo trataré también de olvidar.
Abel dijo despacio:
-Así es. Mientras dura el remordimiento dura la culpa.
(Jorge Luis Borges, Leyenda; in Elogio de la sombra, 1969)

Il perdono in Borges come in Chandra non è frutto di una superiorità etica, che è una specie di eroismo dell'anima, destinata a produrre nel tempo una violenza senza limiti.
Può semplicemente accadere, il perdono, senza il quale non si riconosce la somiglianza col diverso, né si considera la diversità del simile, grazie al gioco della memoria, quando ricordando quella nostra storia dolorosa, d'amore fallito, di lavoro appassionato e vano, di amicizia finita, non sappiamo più se abbiamo fatto la parte del cattivo o del buono, della vittima o dell'aguzzino.

Liberarsi del peso della colpa, e del rimorso, è vivere con una leggerezza che consente di caricarsi dei pesi che ci tocca portare, come questa incertezza insostenibile, così vera nelle parole di Sartaj: nessuno di noi, se non rinuncia ad ascoltare la voce fioca della ragione, sa se è buono o cattivo, se agisce per paura o per fede.
Nelle lacrime di Sartaj, nelle lacrime di un uomo, scorre la pietà che non è, non può essere riservata alle vittime della propria parte e rifiutata a quelle degli altri, perché vediamo i volti dei nemici come degli amici, e negare che abitiamo il mondo, pensare che la nostra città non sia la stessa della città di tutti gli altri, significa comprare sicurezza in cambio dell'anima

Per vivere questa incertezza, alla quale il flusso della vita non si oppone, occorre lasciare che i padri muoiano, liberandoli dalla nostra illusione che ci facciano scudo con una perfetta integrità, come quella del padre di Sartaj, con una inarrestabile ascesa verso il potere, come quella del suo capo Parulkar, o che possano spingere il mondo verso la perfezione, come Guru-ji.
La nostalgia del padre, se lo lasciamo libero di morire riconoscendo la sua fragilità e la nostra, lo fa tornare con noi, in un ricordo che non autorizza a vivere, in una memoria sempre viva. Considero il ricordo d'infanzia di Sartaj prima di lasciare Amritsar con la madre come un lungo addio al padre:

Quella lontana mattina d"inverno quando era venuto con Papaji e Ma', Papaji aveva cercato di convincerlo a immergersi nella piscina. Papaji si era tolto la camicia e i calzoni ed era entrato in acqua nei suoi kaccha blu. "Vieni Sartaj," lo aveva esortato. Però Sartaj si era nascosto dietro Ma' e si era rifiutato di entrare in acqua. "A uno sher come mio figlio un po' d'acqua fredda non può dar fastidio" aveva detto Papaji. "Vieni." Eppure non era del freddo che Sartaj aveva avuto paura. Era diventato improvvisamente timido, conscio di essere piccolo e magrolino a confronto delle spalle brune e massicce di Papaji, niente affatto uno sher.
Non voleva essere guardato da tutta quella gente. Perciò si era aggrappato a Ma' scuotendo la testa, e lei lo aveva assecondato: "Lascia stare il bimbo, prenderà freddo". E Papaji aveva riso ed era uscito dalla piscina rovesciando  l'acqua sui gradini, con il kara che spiccava sul polso possente.
Adesso però era estate, e Sartaj non era più timido. "Penso che entrerò in acqua" disse a Ma'. [...]
Sartaj unì le mani e immerse la faccia e i rumori si attutirono. Più in basso, molto più in basso, c"era una sorgente che portava al centro del respiro del mondo.
(Giochi Sacri, pp. 1153-1154)

Lasciare morire il padre, rompere i legami di sangue significa ritrovare insieme alla nostra fragilità bambina l'illusione della sua potenza invincibile. Significa rinunciare al sogno di diventare potente come credevamo che fosse il padre, o a cercare un padre che somigli a quello che avremmo voluto avere. Si scopre allora il miracolo più grande, perché Eros non disdegna la debolezza, avendo in sé la natura della madre, e che intreccia alla ricchezza del padre, per questo è l'invenzione più bella del mondo, sia frutto delle nostre inesauste fantasie o dono di un Dio.
Non gli accadrà più di sentirsi confident e fearless, in una gentle cradle, come Ganesh Gaitonde quando si sentiva amato da Guru-ji. Ma saprà riconoscere l'amore di Mary e per Mary, quando si sente perdonato da lei per la sua debolezza: To find one person who forgives you for this, that is big.
Alla fine dei Sacred Games resta la città col suo inquinamento, la sua ingiustizia, i criminali che hanno un codice d'onore e i poliziotti corrotti. Guru-ji era deciso a distruggerla, Sartaj, che ha raccolto le ultime parole di Ganesh Gaitonde, si è trovato a salvarla. Ne valeva la pena?
Nessun Dio, nessun padre resta a darci una risposta, se non vogliamo e non possiamo eliminare la nostra incertezza di fronte al mondo, i nostri dubbi sulla nostra natura e il nostro destino. Alla fine dei giochi sacri, prima della pagina bianca, non si pensa che la coppia che si è formata nel libro vivrà felice e contenta, né che nessuna felicità è possibile in questo mondo. Non si spera in una pace imminente né si prova angoscia per la distruzione inevitabile.
Possiamo solo cominciare una nuova giornata.



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NOTE

Sigmund Freud, Noi e la morte, Palomar, Bari 1993; p. 39. [Wir und der Tod; conferenza tenuta da Sigmund per i membri dell'associazione umanitaria austro-israelitica di Vienna B'nai B'rith, il 15 febbraio 1915]




Caino e Abele

Caino e Abele si incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero di lontano, perché erano entrambi molto alti. I fratelli si sedettero per terra, accesero un fuoco e mangiarono. Guardavano in silenzio, come la gente stanca quando finisce il giorno. In cielo si accendeva qualche stella, per la quale nessuno aveva deciso il nome. Alla luce del fuoco, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra, gli cadde il pane che stava portandosi alla bocca e chiese che il suo delitto gli fosse perdonato.
Abele chiese:
- Sei tu che mi hai ucciso o io ho ammazzato te? Non ricordo, stiamo qui vicini come prima.
- Ora so che davvero mi hai perdonato, - disse Caino - perché dimenticare è perdonare. Cercherò anch'io di dimenticare.
Abele allora disse:
- È così. Finché dura il rimorso dura la colpa.
(Jorge Luis Borges, Leyenda; in Elogio de la sombra, 1969; traduzione nostra)



Ricevo da Claudia Chellini il 3 luglio 2008 questa nota:

Perdono e tolleranza


tasāmuħ SMĦ samħ mutasāmiħ samāħ
reciproco perdono

generoso
indulgente
generosità

In questa riflessione, che lega il pianto di Sartaj ad Amristar con la sua capacità di riconoscere "l'amore di Mary e per Mary", si intrecciano, trama e ordito di una stessa tela, i concetti di perdono e tolleranza nei confronti dell'altrui imperfezione e della propria.
In arabo tasāmuħ indica ciò che in italiano viene normalmente tradotto con tolleranza. In realtà la parola araba fa riferimento ad un campo semantico molto diverso da quello dell'italiano.
Se infatti tolleranza è etimologicamente legata al latino tollo, nel suo primo significato di porto, sopporto il peso, come a esprimere la fatica del sopportare l'altrui diversità (rispetto a noi, al nostro ideale); tasāmuħ vuol dire "reciproco perdono"; e si forma dalla radice SMĦ.
Una breve ricerca sul dizionario mostra un'interessante costellazioAl momento di questa ne di parole che si diramano da questa radice: i significati si sviluppano da generoso (samħ)  fino a quello di indulgente, tollerante (mutasāmiħ)  passando attraverso la polisemia di samāħ che contiene in sé i concetti di generosità; indulgenza, tolleranza; perdono; autorizzazione, permesso.
Dall'accostamento fra la parola araba tasāmuħ e il suo corrispettivo italiano tolleranza, dunque, si ottiene un intreccio semantico e concettuale in cui l'apertura e disponibilità all'altro e la possibilità/capacità di sostenerne la diversità acquistano una pregnante, reciproca profondità di senso. (Claudia Chellini)



Ringrazio Héliane Ventura per la traduzione in inglese di questo testo, Claudia Chellini per la nota, Vikram Chandra per avermi trasmesso il suo apprezzamento per questo saggio.
Penultima revisione: 7 novembre 2018
Ultima revisione 8 ottobre 2022