ADALINDA GASPARINI                PSICOANALISI E FAVOLE
DISPONIBILE ONLINE Silvia Albertazzi e Adalinda Gasparini
IL ROMANZO NEW-GLOBAL
STORIE D'INTOLLERANZA, FIABE DI COMUNITÀ
Prefazione di A. Faeti
Postfazione di Sebastiano Tilli

Pisa Edizioni ETS 2003


       INDICE
  • PREFAZIONE - Sogni al bivio, finzioni al crocevia,
    Antonio Faeti
  • INTRODUZIONE - Tutto questo deve bastare
    Adalinda Gasparini
  • PRIMO CAPITOLO - Il regno sterile
    A. Gasparini - Nati per incantesimo
    S. Albertazzi – Bambini di mezzanotte
  • SECONDO CAPITOLO - Attacco al regno
    A. Gasparini - Dal cielo, dalla terra, dal mare e dalle tenebre
    S. Albertazzi – Angeli sterminatori
  • TERZO CAPITOLO – Il regno senz'anima
    A. Gasparini – Muta d'accento e di pensier
    S. Albertazzi – Una lotta a morte con la morte
  • CONCLUSIONE – Folgorati dalla vita
    Silvia Albertazzi
  • POSTFAZIONE – Cosa c'è di più assurdo della razionalità ?
    Sebastiano A. Tilli
  • BIBLIOGRAFIA

È possibile un dialogo fertile fra letteratura e psicoanalisi?
L’annosa questione, a cui hanno corrisposto di volta in volta, e a seconda degli orientamenti teorici, diverse linee di approccio, è tuttora aperta e controversa.
Tuttavia l’interessamento della psicoanalisi per la letteratura, e l’arte in genere, raramente è riuscito ad andare oltre un’ermeneutica ripetitiva, come tendenza ad interpretare aspetti dell’opera (o della personalità dell’autore stesso) sulla base di simbolismi e categorie di lettura parziali già precostituiti nella teoria stessa, cosa che non ha certo contribuito ad avvicinare le simpatie dei letterati alla psicoanalisi, accusata di patologizzare l’anelito creativo.
Eppure, come notava anche Giorgio Saviane, un letterato o un critico che oggi ignorasse il contributo della psicoanalisi farebbe sorridere, come un fisico che insegnasse senza tener conto di Einstein e della quantistica.
Allora un dialogo è forse possibile in una diversa prospettiva, in una posizione di ascolto reciproco, e, da parte dello psicoanalista, in una interrogazione del discorso letterario, più che in una mera applicazione interpretativa.
Il che non significa rinunciare al proprio «sapere», ma almeno sospendere un certo uso «colonizzante» del sapere in questione.
Ciò comporta appunto un dialogo. È ciò che avviene in questo denso saggio sulla letteratura postcoloniale, assunta nella dizione «new global» non per opportunismi d’occasione, ma nel senso del dischiudersi di un campo di parola che rompe la stessa contrapposizione fra una produzione pretesa storica e legittimata culturalmente (quella occidentale, per lo più) e l’opera cosiddetta ingenua, naif, folkloristica, quando non proprio «primitiva».
Un saggio originale, ove il discorso artistico e il suo contrappunto analitico sembrano suonare in un giusto equilibrio armonico. E non solo per il fatto, già di per sé sorprendente, di una stretta collaborazione fra due autrici di diversa formazione e provenienza: appunto, letteraria l’una, psicoanalitica l’altra.

INTRODUZIONE
Tutto questo deve bastare

Adalinda Gasparini

Nel romanzo di Vikram Chandra, Terra rossa e pioggia scrosciante, una scimmia in punto di morte ricorda che in una vita precedente è stata un essere umano, e trovandosi in una casa indiana tenta di dirlo, inutilmente, perché dalla sua gola di scimmia escono solo suoni rauchi. Ma vedendo il padrone di casa alla macchina da scrivere scopre rapidamente come usarla, e, pur non conoscendo l'uso del tasto per le maiuscole, la usa per placare il terrore dei suoi ospiti:

- non avere paura di me, sono sanjay, nato in una rispettabile famiglia brahmana. mi consegnai a yama nell'anno novecentoundici o, secondo il calendario inglese, nel milleottocentottantanove dopo cristo, senza dubbio a causa del cattivo karman accumulato durante quella vita sono rinato in queste sembianze e ora sono stato risvegliato dalla ferita subita. non voglio farti alcun male. sono solo molto stanco. non sono uno spirito malvagio. per favore aiutami a tornare nel letto. (Chandra 1998, 16)

Poco dopo cade un silenzio assoluto, perché Yama, terribile dio della morte, verde di pelle e dai capelli nero giaietto, viene per portarlo con sé: la scimmia prega gli dei di salvarla dal cappio inesorabile e carezzevole della morte, e Hanuman, dio delle scimmie e protettore dei poeti, accogliendo il suo appello fronteggia Yama:

- È un poeta che ha chiesto la mia protezione.
- Un facitore di versi burleschi che si appella a un vecchio abitante degli alberi - disse Yama sbuffando. - Lèvati dai piedi.
Lo sai chi sono, Yama? - sibilò Hanuman rizzandosi sulle zampe; all'improvviso torreggiò al di sopra del Dio, le sue labbra rosse si contrassero fino a scoprire i denti ingialliti, e i muscoli si tesero come cavi elettrici sotto la bianca pelliccia.
- Sono Hanuman; io vivo grazie alle voci di uomini e donne e alle fantasie di bambini; ti sfido. Sputo sulle tue goffe ironie e le tue meschinità. (Ivi, 23)

La scimmia che era Sanjay ha bisogno di un po' di tempo per raccontare la sua storia, altrimenti il suo cattivo karman ne provocherà una nuova reincarnazione in forma animale, ma Yama si oppone alla richiesta:

- Non voglio sapere cosa accadde, - replicò Yama, - il più delle volte c'ero anch'io. Tutti vengono a me. So come andarono le cose.
- Io non ripeterò la vera versione dei fatti. - mi affrettai a balbettare. - Mentirò. Costruirò un sogno finemente colorato, una storia di passione e gioia, un'enorme menzogna fatta per intrattenere e istruire e illuminare. (Ivi)

Finalmente Hanuman e Yama si accordano: la scimmia resterà in vita, come Shahrazàd, finché racconterà storie appassionanti. Le batterà alla macchina da scrivere, e il giovane Abhay le leggerà: se metà del pubblico, inizialmente composto dagli dei e dalla famiglia, poi sempre più vasto, fino a costituire una piccola folla, si annoierà per più di cinque minuti, la scimmia dovrà morire. Così la scimmia che era Sanjay passa la notte pensando e riflettendo alla storia che sta per raccontare:

Poi rimasi coricato e sveglio, tendendo l'orecchio agli scricchiolii e al fruscio del vento fra le piante fuori dalla finestra, volgendo di tanto in tanto lo sguardo al trono nero nell'angolo, una lastra di oscurità più scura nell'oscurità; deboli brillantini di luce vi guizzavano dentro; mi sforzavo di riandare al passato e riportare alla luce ricordi convertibili in storie, ma riuscivo a pensare solo alla ricchezza del mondo, alla sua verdeggiante profusione: il delizioso profumo che esala dalla regina della notte quando i suoi fiori si schiudono lentamente, il gracidio delle rane, la luce argentata della luna e le ombre misteriose, lo stormire delle cime degli alberi e il soffuso diffondersi delle voci, la carezza di morbide rotondità concrete e rassicuranti, nell'incavo della mano. Soprattutto pensavo: siamo fortunati, ed è strano che impariamo a odiare perfino questo, che dimentichiamo simili doni e cerchiamo di liberarcene; le lenzuola sono fresche e lisce sotto di me, e di ciò sono riconoscente; sì, tutto questo deve bastare, sentire queste cose e sapere che tutto questo coesiste, la terra con i suoi mari, il cielo con i suoi soli. (Ivi, 26)

Il cappio di Yama è carezzevole, e tutto questo può non bastare, perché la morte ha un carattere assoluto che le storie vere e false, quelle che tengono, che non fanno annoiare, non conoscono. Thanatos, dio greco della morte, è figlio della Notte e fratello di Ypnos, Sonno e Sogno. La morte e il racconto hanno una relazione privilegiata, come il sonno e il racconto: i bambini ascoltano storie per scivolare dolcemente nel Sonno, come i genitori leggono un romanzo. Dal Sonno simile alla Morte, il coma, ci si può svegliare se qualcuno racconta storie: accadrà alla fine del libro di Chandra.

Ricchissimi di scambi sono il sogno e il racconto, che si intrecciano in un antico discorso sul favoleggiare, puntando alla pregnanza, agli echi che si creano, alle voci molteplici che si riverberano e ne riprendono variandole trame e figure: quando la morte di Socrate viene rimandata di un giorno per la festa di Apollo, il filosofo compone favole alla maniera di Esopo. Ai suoi allievi spiega che aveva sempre interpretato un suo sogno ricorrente, che lo incitava a comporre ed esercitare musica, come un'esortazione a continuare ciò che già faceva, ‘reputando che la filosofia fosse musica altissima' (Fedone, IV, a). Ma questa volta, avendo ricevuto in dono un altro giorno di vita, Socrate decide di non partire per il regno dei morti senza aver interpretato in modo nuovo il suo sogno:

[...] pensando che il poeta, se vuol esser poeta, ha da comporre favole e non ragionamenti, e io non ero un favoleggiatore, ecco perché quelle favole che avevo più alla mano e che sapevo a memoria, quelle di Esopo, mi misi a poetare di codeste, le prime che mi vennero in mente. (Ivi, b)

Per Socrate e per la scimmia di Chandra il racconto scaturisce dalla percezione della vita come dono, sentimento della vita che segnala il passaggio di Eros nel terreno del linguaggio, e come l'arte è grazia, che scioglie il soggetto dalla contrattazione mercificata, sia concretistica, sia ideologica. Alla scimmia e a Socrate accade di liberarsi liberando, come agli attanti fiabeschi: ne parla Italo Calvino introducendo le Fiabe italiane, rispetto alle quali si è posto come ultimo anello di una lunga catena di narratori e raccoglitori appassionati. Le fiabe, scrive Calvino, sono vere, sono una sorta di mappa dell'esistenza, un ‘catalogo dei destini' umani nelle loro diverse condizioni e soprattutto dei passaggi, della crescita come incessante trasformazione:

E in questo sommario disegno tutto: la drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale; la persecuzione dell'innocente e il suo riscatto come termini d'una dialettica interna ad ogni vita; l'amore incontrato prima di conoscerlo e poi subito sofferto come bene perduto; la comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioè d'essere determinato da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo; la bellezza come segno di grazia, ma che può essere nascosta sotto spoglie d'umile bruttezza come un corpo di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l'infinita possibilità di metamorfosi di tutto ciò che esiste. (Calvino 1979, I, 16; corsivo mio)

Favola o fiaba, dal latino fabula, che come il greco mythos significa parola e racconto, fino all'Ottocento designava qualsiasi storia priva di riscontro oggettivo. Il vescovo Jacopo da Varagine, e il suo vasto pubblico di credenti dal XIII secolo in poi non avrebbe mai posto tra le favole la storia di santa Cristina, chiusa in una torre da un padre che voleva impedirle di fuggire non con un principe straniero ma abbracciando la nuova fede cristiana. Quando di fronte alla sua ostinazione il padre ordina di straziare il suo corpo con uncini di ferro, Cristina prende i brandelli della propria carne e li getta addosso al padre con disprezzo. Il padre muore e la persecuzione viene continuata da un certo Giuliano, il quale:

...comandò che le fossero gettati addosso due aspidi, due vipere e due colubri; ma le vipere le si arrotolarono ai piedi. gli aspidi le circondarono il seno e i colubri le leccarono il sudore intorno al collo. Disse qualcuno a un incantatore: "Serviti delle tue arti per eccitare quelle bestie!" Ma le bestie si rivoltarono contro l'incantatore e lo uccisero. Allora Cristina comandò ai serpenti di andarsene nel deserto, poi resuscitò il morto. Allora Giuliano ordinò di strappare le mammelle della fanciulla da cui sgorgò latte invece di sangue. Infine le fece tagliare la lingua; ma Cristina per questo non perse la parola e prendendo un pezzo della sua lingua la gettò in faccia a Giuliano che fu percosso in un occhio e subito perdette la vista. (Jacopo da Varagine, 409-410)

La parola vera non può essere soffocata, e l'istituzione che pretende di riuscirci condanna se stessa: un segmento narrativo del martirio di Cristina è nella storia di Giordano Bruno, che durante il suo supplizio avrebbe tagliato con i denti e gettato sui suoi persecutori la propria lingua. Si tratta qui di una verità metaforica, che si diffonde attraverso la storia, e questa verità ci giunge intatta, anche se ormai non possiamo considerarla, come fu un tempo, ‘divina'. Nè ci sembra una verità scientifica, come al suo tempo e oltre, il potere venefico della donna mestruata, descritto dallo scienziato rinascimentale Paracelso:

Ad una sua semplice occhiata, uno specchio si ricopre di chiazze e si guasta; allo stesso modo, se essa guarda una ferita o una piaga, la fa suppurare e impedisce la sua guarigione. Anche il suo fiato, come il suo sguardo, può guastare, corrompere e rendere inservibili molte cose, e così pure il suo tocco. Vedrete, infatti, che se essa maneggia del vino durante il periodo mestruale, questo vino si trasformerà immediatamente, assumendo un dubbio sapore. (156-157)

È facile sorridere o indignarsi leggendo Paracelso, anche quando afferma, in pieno accordo con Aristotele e tutti gli altri imparziali ricercatori, che nel liquido spermatico è presente, minuscolo ma completo, il futuro essere umano, al quale la donna, come la terra al seme di grano, fornisce solo il nutrimento. Turba un po' invece pensare che solo un secolo fa si è riconosciuto che la donna contribuisce alla nuova vita non solo con la gestazione e il parto, ma con il cinquanta per cento del corredo genetico, con l'ovulazione. Non esiste osservazione svincolata dai bisogni affettivi, e le affermazioni scientifiche o religiose hanno sapore di verità, e possibilità di diffondersi, se corrispondono alla rappresentazione che il soggetto e la sua cultura si danno per vivere. La matrice della conoscenza scientifica, come delle ideologie e dei sistemi religiosi, è la stessa del delirio e del sogno, e se ne differenzia solo per il condiviso e costante confronto con l'esperienza: nel nostro tempo ci illudiamo che esista un metodo critico sufficiente a ignorare l'inconscio, la sua tirannia sui processi cognitivi, la sua natura pulsionale, il principio economico che domina la realtà psichica.
Come ultimo esempio, tanto piccolo quanto significativo, di questo primato, possiamo leggere quanto nei vocabolari contemporanei si dice della clitoride, come nel Vocabolario Treccani, del 1997:

In anatomia, organo erettile femminile impari e mediano, omologo al pene virile, però rudimentale, situato nell'angolo anteriore della vulva. (grassetto mio)

Se la definizione non corrispondesse al bisogno di sostenere la millenaria rappresentazione della donna come minus habens, in quanto raffrontata al meglio fornito modello maschile, si dovrebbe poter trovare la reciproca, per la quale il pene potrebbe essere definito come omologo alla clitoride femminile, però ipertrofico.
In molte lingue una favola può essere una cosa non vera, o una menzogna, ma anche una realtà particolarmente bella e felice, per quanto rara: nella vita di ciascuno si possono dare giorni o almeno momenti favolosi. Se ci soffermiamo su questa ambivalenza possiamo osservare che la favola può funzionare come ponte tra la rara realizzazione di un desiderio e ciò che essendo irreale, falso, non può esistere. Su questo ponte di parole e di strutture narrative transita il discorso umano che si tende e oscilla tra questi due poli, grazie al sentimento della vita come dono, che la scimmia che era Sanjay prova distesa nelle lenzuola fresche, dove giunge il profumo della regina della notte, prima del giorno in cui potrà cominciare a raccontare.
La grande illusione di essere al centro dell'universo, caduta col sistema copernicano, e quella di essere in posizione originariamente differente e privilegiata rispetto al mondo animale, finita con l'evoluzionismo darwiniano, hanno costituito secondo Freud due ferite narcisistiche per la coscienza occidentale. E Freud stesso si considerava responsabile di aver inferto la terza ferita, descrivendo l'inconscio, che il soggetto cosciente non può padroneggiare. Se il progresso scientifico da Galileo a Darwin è pensabile come una progressiva sottrazione di spazi descrittivi della realtà umana alla religione, nel cosmo e nella natura, con Freud il soggetto non conquista spazi nuovi, ma perde l'illusione di dominare la realtà psichica, e con essa anche la conoscenza oggettiva del mondo esterno si configura come una continua avventura, la cui meta non può mai costituire un approdo certo. Il concetto di pulsione, il primato dell'affettività sui processi cognitivi, l'analogia tra i meccanismi paranoici e ossessivi da una parte e le costruzioni religiose e ideologiche dall'altra, obbligano l'essere umano, colto ed equilibrato a piacere, a rinunciare all'illusione di venire a capo della propria complessità.
E insieme a questo, si manifesta appieno la multiforme solidarietà tra i diversi piani della rappresentazione umana, sogni notturni, racconti popolari, deliri e costruzioni o
interpretazioni analitiche:

Sono stato sedotto dall'analogia. Le formazioni deliranti dei malati mi sembrano equivalenti alle costruzioni da noi costruite nel trattamento analitico: tentativi di spiegazione (Erklärung) e di ricostruzione (Wiederherstellung), che in condizioni di psicosi non portano ad altro che a sostituire una parte di realtà, attualmente rinnegata, con un'altra ugualmente rinnegata tempo prima. Compito della singola ricerca è di scoprire gli intimi rapporti tra i materiali, rispettivamente, del rinnegamento attuale e della rimozione di un tempo. Come la nostra costruzione è efficace solo in quanto restituisce un frammento di biografia andato perso, così anche il delirio deve la propria straordinaria forza di convinzione alla parte di verità storica, inserita al posto della realtà respinta. Pertanto anche la follia ricadrebbe nella formula enunciata tanto tempo fa per l'isteria: il malato soffre di ricordi. (Freud 1937; traduzione di A. Sciacchitano; Briefcase legamesociale)

Seguiamo un'altra seducente analogia: come il nevrotico e il folle di Freud, la scimmia che era Sanjay soffre di ricordi, al punto che chiede e ottiene un supplemento di vita per liberarsene liberandoli, sotto forma di racconti, mescolando vero e falso. Il romanzo di Chandra e lo scritto di Freud sono separati da quasi sessant'anni: per meglio dire, quasi dodici lustri legano la scimmia che era Sanjay all'inventore della psicoanalisi, in un nastro di parole che lega, affascinante quanto il cappio di Yama, che separa.
La scimmia che era Sanjay ha dalla sua parte sia Hanuman che Freud: se lo vuole, può ricordare, e ricordando accade che Eros si svegli, nella percezione di delizia del lenzuolo su cui si giace, del profumo dei fiori della notte, del sentimento della vita come dono. Yama, o Thanatos, col suo cappio di seta, è in Freud la condanna alla ripetizione, il rifiuto di qualunque possibilità di liberarsi liberando, la ripetizione di una storia tragica, insopportabile per sé e per gli altri.
Non si ha conoscenza se non delle rappresentazioni che ci costruiamo, e che allo stesso tempo ci costruiscono, formando la realtà psichica, per quanto possiamo esercitare una ricerca rigorosa. La metafora costituisce una rappresentazione particolare, ad alto valore di scambio, che ha sull'eguaglianza il vantaggio di restare insatura, come la metonimia, che caratterizza la catena di senso del sogno notturno e del delirio, svincolato dallo scambio e dalle relazioni come luoghi culturali, simbolici.
In questa prospettiva l'indagine sul rapporto tra sogno e fiaba e letteratura, inaugurato da Freud con scritti insaturi e fecondi, ha un versante volto a elucidare i caratteri del rappresentare stesso attraverso figure e narrazioni collettive, siano fiabe, miti o romanzi, e un altro versante che riguarda il contributo psicoanalitico alla comprensione della struttura del racconto, della sua storia, della sua fortuna.
Dal momento in cui le fiabe sono state pubblicate, esse sono state rimosse in una stanza separata: quella dei bambini, de peccerille, come recita il titolo de Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, che per linguaggio e temi non era né è affatto fruibile da un pubblico infantile. Oppure le fiabe sono state dedicate alle donne, come Le mille e una notte, all'inizio del Settecento, fino a costituire, nel mito romantico e positivistico, l'espressione orale del popolo, che ha ricevuto la stessa collocazione dei bambini e delle donne: tutti minus habentes, rispetto al maschio occidentale colto, privo di superstizioni e di illusioni. Oppure plus habentes, in un rovesciamento complementare che lascia tutto invariato, quando si acclamano i miti cosmogonici degli aborigeni australiani come forma di vera saggezza, in contrapposizione all'aridità della concezione occidentale. Tutto viene ribaltato o restaurato, estratto d'improvviso come un coniglio dal cappello, pur di non riconoscere ciò che lega ogni realtà umana, e il bambino all'adulto, e l'uomo alla donna: le differenze sono variazioni sul tema dell'umano, la sua interrogazione radicale, il desiderio inappagabile, la sofferenza e il giubilo, nella loro alternanza impadroneggiabile. I canti con i progenitori che creano il mondo per gli aborigeni australiani rispondono allo stesso bisogno che ci spinge a credere che la scienza e la tecnica troveranno, basta volerlo, la soluzione alla malattia, all'ingiustizia, forse alla morte stessa: il bisogno di una storia che ci permetta di continuare a vivere sperando di trovare un senso nella nostra presenza accanto agli altri. Senza disporre, a guardar bene, di una certezza maggiore sulla via da scegliere, nei momenti cruciali della vita, di quella del principe Ivan, che dopo aver consultato inutilmente due vecchi saggi per avere un'indicazione che lo facesse giungere all'estremo dei reami, dove viveva la bellissima figlia dello zar serpente, ottenne dal terzo un gomitolo: da gettare al limite del bosco, da seguire dove si fosse srotolato. La nostra condizione rispetto alla conoscenza forse è solo quantitativamente diversa da quella dei nostri progenitori di fronte al cielo notturno, che secondo i paleostorici costituì il primo campo di osservazione scientifica:

La volta celeste che vedono è un'illusione, un inconcepibile guazzabuglio di immagini di oggetti che esistono ancora e di altri che non esistono più, senza parlare di quelli che esistono già e non sono ancora visibili. Il reale del passato viene quindi a inquinare il reale del presente, e il reale del presente tarda a mettersi in evidenza. Il cielo si prende gioco dei sensi e fuorvia la ragione. (Bouvet, 15)

I nostri progenitori pensavano quanto noi di saperne abbastanza per aprire l'avventura della conoscenza, mescolando in misure riconoscibili solo a posteriori osservazione e illusione, percezione e magia, e poi potere, controllo, piacere, delirio, sogno, costruendo storie, tante storie, abbastanza feconde da generarne altre, formandosi e trasformandosi incessantemente. Che si avvolgono e salgono, fragili e potenti come un rampicante, intrecciandosi, cercando spazio per sbocciare insieme. Solo la favola e il sogno lo possono raccontare, e i romanzi postcoloniali, il cui andamento ne segue o ne accoglie il senso variegato e cangiante, nell'oscillazione che è il rischio di vivere, e di riconoscere la vita come dono.



TERZO CAPITOLO
Adalinda Gasparini. Muta d'accento e di pensier

(Il testo di questo capitolo è stato presentato il 3 ottobre 2002 a Spilimbergo - PD -  nel II Convegno AISLI, ed è stato pubblicato in Roots and Beginnings. Proceedings of the 2nd Conferenze. AISLI. Atti del II Conv., 3-6/10/02; Venezia: Cafoscarina 2003. Vedi anche: A psychoanalytical Perspective: Muta d'accento e di pensier)

 

La donna è mobile, qual piuma al vento: come se tutto il peso fosse concentrato nella parte anatomica esclusiva dell'uomo? La stessa levità attesta nella donna una chance in più, che potrebbe consentirle, almeno in parte, di sfuggire alla castrazione... forse allude a questo il proverbiale punto più del diavolo. Il maschile invidioso misconosce la ricchezza femminile e la fa dipendere da un'assenza: mancando di quell'organo prezioso, così consistente, non avrebbe timore di perderlo, ricca del nulla che oppone al pieno fallico di cui sarebbe dotato il maschio.

Ma la romanza dalla quale viene il nostro tema inscena un paradosso, dato che a dare la definizione è il Duca di Mantova, libertino impunito: nell'opera la mutevole figlia di Rigoletto porta invece il peso della sua esistenza al punto di morirne, fedele alla propria scelta, per mano del padre. Non sorprende che la censura asburgica abbia insistito tanto per evitare che Verdi mantenesse al suo posto nella vicenda il Re che si diverte (Victor Hugo, Le roi s'amuse), perché l'opera popolare mette in scena il segreto del potere, anche di quello più legittimo, regale, incarnato al tempo proprio dall'impero austro-ungarico. Il potere patriarcale implica il silenzio della donna, ottenibile sia con la zavorra della convenzione matrimoniale, sia con i tendaggi che isolano le amanti nelle alcove. Ciò che conta è che abbia parola solo quando l'uomo gliela concede, per poi togliergliela a suo insindacabile giudizio. È lo stesso dominio che esercitò Romolo, quando uccise il fratello che, trovandolo piccino, aveva saltato ridendo il suo solco per la fondazione della città eterna.
Non si vuol certo sminuire la sensibilità degli scrittori, maschi, alla levità aleatoria senza la quale l'opera d'arte non esiste:


L'evocazione intende essere il pendant negativo della creazione. Anch'essa afferma di suscitare il mondo dal nulla. Né con questa né con quella ha nulla a che fare l'opera d'arte. Essa non esce dal nulla, ma dal caos. Ma essa non si strappa dal caos, come il mondo creato  secondo l'idealismo della teoria dell'emanazione. L'arte non "fa" nulla del caos, non lo compenetra; e altrettanto poco è in grado (come fa, invece, l'evocazione magica) di mescere, da elementi di quel caos, l'apparenza. Ciò è operato dalla formula. Ma la forma lo incanta - per un istante - in mondo. Ecco perché nessuna opera d'arte può sembrare del tutto libera e viva senza diventare pura apparenza e cessare di essere opera d'arte. La vita che in essa fluttua deve sembrare irrigidita e come fissata nell'istante. […] Ciò che impone un arresto a questa apparenza, fissa il movimento e interrompe l'armonia, è l'inespresso. Quella vita costituisce il mistero, questo irrigidimento la validità dell'opera. (Benjamin, W., Angelus Novus; Einaudi, Torino  1976 - Schriften, Frankfurt-am-Main, 1955;  tr. it. R. Solmi; 211-212)

 
Perché Benjamin continua accostando l'esercizio dell'arte al potere sulla parola femminile?

Come l'interruzione mediante una parola di comando può trarre, dalle tergiversazioni di una donna, la verità proprio nel punto che le interrompe, così l'inespresso costringe l'armonia tremante a fermarsi, ed eterna (con questa obbiezione) il suo tremito. (ivi, 212)


Sia sulla natura, sia sulla donna, sul bambino come sull'analfabeta, e sui popoli colonizzati, il potere consiste anzitutto nella prerogativa esercitata dallo scienziato, dal maschio, dal genitore, dall'istruito, dal colonizzatore, di consentire e interrompere il discorso dell'altro. 
Lo stesso gioco accade nelle Mille e una notte
, dove Shahriyàr, sultano delle Indie, è stato tradito dalla sposa che credeva fedelmente innamorata, e la sua ferita è così grave e dolorosa che pensa di rinunciare al trono. Poi, dopo aver constatato che nessuno, neppure i potenti demoni, può controllare la donna, decide di tornare a regnare. La donna è mobile, constata amareggiato il sultano delle Indie, e siccome tutto il suo potere e la sua magnificenza non sono bastati né basteranno a tenerla ferma, per non correre il rischio di subire altri tradimenti trova un'estrema interruzione: ogni sera sposa una vergine e al mattino la fa soffocare dal suo visir.
Il regno è minacciato di distruzione dal suo cuore, dal rappresentante del potere, che non tollera contraddizione e mobilità. Per tre anni ogni giorno muore una fanciulla, la città è in lutto, e il visir costernato viene interrogato da sua figlia, Shahrazàd
, che:
 

...Aveva letto i libri, le storie, le gesta dei re antichi, e le notizie dei popoli passati, tanto che si dice avesse raccolto mille libri di storie attinenti alle genti antiche, ai re del tempo che fu, e ai poeti. Costei disse al padre: - Cos'hai che ti vedo turbato, angustiato e afflitto? C'è pure chi ha detto a tal proposito:

 Di' a chi sopporta un'angustia: l'angustia non dura.

Come si dilegua la gioia, così si dileguan gli affanni.

All'udir ciò dalla figlia, il visir le narrò da capo a fondo l'accaduto. Ed ella: - Per Dio, padre mio, fammi sposare questo re. O vivrò, o servirò, sacrificandomi, da riscatto alle figlie dei musulmani, e sarò causa della loro salvezza da lui. (Le mille e una notte, prima versione integrale dall'arabo diretta da F. Gabrieli, Einaudi, Torino 1972, 4 voll.; I, 7)

 

Come Harun ar-Rashid, favoloso califfo, il terminatore Shahriyàr soffre di un'insonnia cronica, che nelle Mille e una notte pare compagna del potere. Shahrazàd fin dalla prima notte di nozze gli propone un racconto, nell'ora che precede l'alba, e al mattino il visir non riceve l'ordine di uccidere la sua stessa figlia come tutte le altre spose: il sultano ha sospeso la condanna fino a quando non saprà la fine della storia. Così, notte dopo notte, Shahrazàd mantiene il suo alito vitale, l'accento, il pensiero.
Se chiediamo perché Shahrazàd
rischiasse la morte, molti rispondono che voleva salvare il sultano dalla sua stessa crudeltà, a riprova dell'universale attribuzione alla donna di un masochismo strutturale, sostenuto in passato anche in area psicoanalitica, che ci sembra fondata come la sua pretesa mobilità. Né d'altra parte abbiamo intenzione di considerare qui Shahrazàd come una femminista ante-litteram, perché non vogliamo lasciarci sfuggire un fatto molto semplice: il racconto vive della figlia del visir come del sultano, e l'uno non esiste senza l'altra. La comprensione della storia cornice delle Mille e una notte passa per un particolare decisivo, che non è rilevabile né da letture patriarcali-maschiliste né femministe: di fronte al sultano terminatore Shahrazàd sceglie da sé un limite, non al proprio pensiero ma all'accento, al suo racconto, quando decide di narrare solo un'ora prima dell'alba. Alle prime luci del nuovo giorno si lascia cadere nel silenzio. Il modello di ogni narratrice rappresenta sia la levità femminile, che snoda favole intrecciate e incastonate le une alle altre, quasi senza fine, sia l'interruzione maschile, delimitando il suo dire, le sue storie, con la cesura più simbolica dell'immaginario umano: l'opposizione tra notte e giorno, metafora dell'identità, della coscienza che tramonta e sorge ogni giorno, come il sole, metafora della polarità maschile-femminile, morte-vita, freddo-caldo, umido-secco...
Nella coppia maschile-femminile, in tutte le sue infinite metaforizzazioni, si articola l'identità stessa, la sua permanenza, la sua labilità, la sua complessità irriducibile. L'oscurità, l'inconscio, la sospensione del controllo e della logica della coscienza, sono personificate dalla donna come notte, come morte: introdotta a causa della colpa di Eva, o portata fra gli uomini da Pandora, la morte è la donna come terra che accoglie i cadaveri. 
Fra morte e racconto c'è un'intima solidarietà. Shahrazàd
, che sa raccontare per mille e una notte avvincendo il suo sposo, affronta il corpo a corpo con la morte connaturata al potere, che Shahriyàr mette in scena: non potrebbe vincere se non avesse dentro di sé il limite che il sultano non riconosce, pensando di sfuggire al confronto con il tradimento, la perdita. Se il detentore del potere rifiuta la castrazione, esercita un potere consacrato a Thanatos, e la pulsione di morte condanna lui e la sua città alla letterale e ripetuta eliminazione della figura femminile, che incarna l'anima lieve, sfuggente. Shahrazàd racconta dunque, un'ora prima dell'alba, e le sue storie di demoni, amanti sfortunati, prodigi e palazzi che sorgono in una sola notte, avvince il sultano.
La narratrice non può salvare l'ascoltatore, come lo scrittore non può salvare il lettore: come il sultano può decidere, a suo piacimento, di far soffocare Shahrazàd
, così il lettore può chiudere il libro. Ma lo scrittore sa anche che può intrattenerlo, appassionarlo, e spera che il gusto per le storie riapra la porta a Eros, il grande demone. Eros e Thanatos, la coppia che nella psicoanalisi segna la rinuncia a un ideale salvifico, sia medicalistico, sia spiritualistico, è sorgente e trama delle narrazioni.
Verso le storie del sultano delle Indie e della figlia del suo visir, che circolava in Europa dalla conquista musulmana, potrebbe avere un debito Boccaccio per la storia cornice del Decameron: nella prima raccolta di racconti moderni l'autore si rivolge al suo pubblico con parole simili a quelle che Shahrazàd aveva detto al padre angustiato:

E sì come la estremità della allegrezza il dolore occupa, così le miserie da sopravvegnente letizia son terminate. (Boccaccio, G., Decameron, De Agostini, Novara 1982, 2 voll. ; I, 17)

 
Boccaccio apre il Decameron con la grande distruttrice, e non si tratta solo dell'orrore per la pestilenza e della pietà per la perdita di tanti esseri umani, ma dello sgomento di fronte alla fragilità dell'ordine e del potere, quando la legge, scritta e non scritta, sembra essersi dissolta:

E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta, per li ministri ed esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di famigli rimasti stremi che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascuno licito quanto a grado gli era d'adoperare. (Ivi, 19-20)

 
L'accettazione del limite, come ingresso nel mondo simbolico, nella cultura umana, è rappresentata nel racconto proprio da questa morte che dissolve le illusioni. La perdita di ogni ideale assoluto lascia spazio a qualcosa di nuovo, né vero né falso, e vero e falso allo stesso tempo: il mito, la parola, il racconto. Al posto della fede salvifica e dell'ideale eroico di una città fondata col sangue dell'altro, che chiede sempre nuovo sangue, si può abitare, per un tempo limitato, un luogo creato dall'arte stessa della parola, perché non c'è Tebe senza peste, perché l'empietà e l'esercizio del potere sono intimamente connessi.
Come l'antica raccolta araba sgorga dal lutto per la morte di tante fanciulle, quella che apre la letteratura moderna sgorga dal lutto per la peste. La peste imperversa anche a Tebe, e per questo l'eroe solutore di enigmi, Edipo, è costretto a cercare la verità: le sue nozze regali sono incestuose e il suo potere viene dal parricidio, lui stesso è causa del morbo.
Una sacerdotessa, Diotima di Mantinea, riesce a sospendere la peste ad Atene per dieci anni, ed è lei a raccontare a Socrate
nel Simposio la storia più bella su Eros, la sola storia importante nella filosofia greca ad essere narrata da una donna. Diotima non ha il potere di eliminare la malattia che è connaturata al potere, ma può sospenderla: crediamo che per questo sia suo il discorso più bello su Eros, il grande demone.
Il regno dove la morte domina è come il regno sterile, a proposito del quale abbiamo citato Glissant, quando si interroga sul processo di creolizzazione, se possa darsi senza violenza (Glissant, É., Poetica del diverso; Meltemi, Roma 1998 - Introduction à une poétique du divers, Paris, 1996; tr. it. F. Neri; 42. Vedi: S. Albertazzi e A. Gasparini, cit., pp. 51 sgg.). Un corpo a corpo tra esseri umani, siano individui, siano culture, senza violenza, è una fantasia salvifica, perché essendo costretti, come l'emigrante nudo, a entrare nel campo del linguaggio, subiamo lo scarto tra significante e significato, e proprio la tolleranza, la sopportazione di questo scarto ci permette di entrare nel campo della parola e del simbolico. Al massimo è ottenibile una sospensione temporanea della violenza, come accade nel lavoro analitico, nel racconto: nel lavoro della parola, luogo di relazione. Per entrare in questi luoghi, che hanno a che fare con il complesso fenomeno descritto da Freud
come sublimazione, il soggetto narrante, come Shahrazàd, si delimita da sé, per lasciare all'altro, al diverso, ascoltatore o lettore, uno spazio per il suo proprio racconto. In questo spazio si coltiva la consapevolezza che, cadute le illusioni, il soggetto esiste solo nel campo della cultura, del mondo simbolico, e questo sospende la violenza, pur senza poterla eliminare. Deve bastare, come bastò sospendere la pestilenza a Diotima, esperta della natura di Eros.
La scimmia di Terra rossa e pioggia scrosciante
per evitare di reincarnarsi in una forma animale ha bisogno di una sospensione della condanna, e questo è il tempo del racconto. Deve narrare storie che non annoino il suo pubblico se vuole vivere, come Shahrazàd col sultano: la sospensione è nella possibilità che si rinnovi una relazione appassionante fra narratore e ascoltatore. Nel romanzo di Chandra scimmia e uomo devono narrare insieme, non solo perché Abhay racconta le sue storie americane ogni volta che la scimmia si ferma, ma perché la scimmia che era Sanjay ricorda le parole ma non può articolarle, mancandole gli organi di fonazione, e così scrive a macchina (Chandra, V., Terra rossa e pioggia scrosciante, Instar Libri, Torino 1998 -Red Earth and Pouring Rain, London, 1995; tr. it. A. Nadotti e F. Galuzzi).
Quando il rapporto gerarchico tra l'uomo e l'animale che lo imita, come l'uomo imita Dio, cade, il racconto sgorga. Non c'è gerarchia nell'arte del racconto, attraverso il quale scimmia ed essere umano, uomo e donna, colonizzato e colonizzatore, trasformano il corpo a corpo distruttivo in una relazione d'amore.
Quando il romanzo è alla fine, e la scimmia sta per morire, nella folla degli ascoltatori scoppiano tumulti. Al movimento di mare, alla comunità arcipelagica che partecipa al gioco della narrazione, subentra la violenza prodotta da un'ideologia per la quale deve “esserci una sola idea, una voce, una cosa, una una una (ivi, 738), e allora Saira, la bambina che è stata fin dall'inizio presente nella storia, lascia la mano della scimmia Sanjay e scende fra la folla per placare il tumulto, ma una bomba cade dal cielo. Saira viene colpita ed entra in coma, un sonno simile alla morte la rende muta, e la scimmia Sanjay, che aveva deciso di non parlare più, rompe il silenzio, e col dito tremante traccia una parola sul polso di Abhay:

- Aiutala.
- Come?
- Raccontale una storia. (Ivi, 739)

 
Abhay sa che i medici nell'ospedale stanno curando al meglio Saira, e i genitori la vegliano con sollecitudine, ma sa che il sonno simile alla morte confina col mistero, e raccoglie l'eredità della scimmia, la stessa di Shahrazàd:

 

Devo essere impazzito, forse mi arresteranno. [...] Mi darete ascolto? Mi lapiderete, mi rinchiuderete? Non importa, io devo raccontare una storia. [...] Racconterò una storia che crescerà come un loto rampicante, si avvolgerà su se stessa e si espanderà senza fine, finché ciascuno di voi entrerà a farne parte, e gli dei verranno ad ascoltare, finché tutti noi parleremo in un'armoniosa confusione che contiene il passato, ogni attimo del presente, e il futuro infinito. E la grande musica di quel suono primigenio raggiungerà Saira, che si metterà a sedere sul letto, si libererà dalle bende e salterà giù con le mani sui fianchi e ridendo chiederà, cosa succede, eh? Cosa sono quei musi lunghi, volete fare una partita a cricket? [...] Giocheremo fino al tramonto, liberi e spensierati. Poi siederemo in cerchio, in innumerevoli cerchi, e diremo, dacci la tua benedizione, Ganesha; resta con noi, amico Hanuman, e tu Yama, vecchio furfante, puoi stare a sentire, se credi; e con queste parole ricominceremo tutto daccapo. (Ivi, 740-741)

 
Così finisce il romanzo, con il trionfo della parola che, se non può eliminare la condanna, la può sospendere. Le Mille e una notte hanno molteplici finali, ma sono anche senza fine: mille e uno era per gli arabi un numero magico, come millanta nella tradizione popolare toscana. Solo la pubblicazione della raccolta indusse gli scrittori, europei e arabi, a partire dal XVIII secolo, a completare la raccolta con materiali ad essa fino a quel punto estranei, che vanno dalle fiabe di Aladino o Alì Babà a cicli epici e cavallereschi: così si realizzò alla lettera il numero magico, mentre i manoscritti arabi più antichi che abbiamo contengono racconti per poche centinaia di notti. Nel finale della prima versione, settecentesca, il sultano si rivolge così alla sua sposa:


“Riconosco, amabile Shahrazàd, che sei incomparabile nei tuoi piccoli racconti: da tanto tempo con essi mi rallegri; hai placato la mia collera, e io rinuncio di buon grado, a tuo favore, alla legge crudele che mi ero imposto; ti rimetto interamente nelle mie grazie, e voglio che tu sia considerata come la liberatrice di tutte le fanciulle che dovevano essere immolate al mio giusto risentimento”. (Galland, A., Les mille et une nuits, Garnier-Flammarion, Paris 1965; 3 voll. III, 433; Editio Princeps 1704-1717)

 
L'ascoltatore ringrazia la narratrice per aver mitigato la sua crudeltà e il suo risentimento, abbastanza da non uccidere più neppure una fanciulla. Nel finale di una delle edizioni arabe ottocentesche, Shahrazàd chiede al sultano se può esprimere un desiderio, e al suo assenso si fa portare i loro tre figli, uno dei quali cammina, l'altro va carponi, e il terzo prende ancora il latte dal suo seno:

- Se tu mi uccidi, costoro rimarranno senza madre e non troveranno una donna che li allevi come si deve.
Allora il re pianse e stringendosi al petto i figliuoli disse: - Shahrazàd, per Allàh, io ti avevo perdonato ancor prima che venissero questi tre bambini, perché ti ho trovato casta, pura, sincera ed illibata. (Le mille e una notte, cit., IV, 615)

 
Il senso della raccolta, l'arte del racconto, consiste solo nella sospensione della condanna a morte, e il suo annullamento, sia dovuto all'ammirazione per l'arte della narratrice, sia alla sua maternità, è una razionalizzazione analoga a quella che ha fatto incrementare il numero dei racconti fino a mille, per concretizzare il numero magico che dà titolo alla raccolta. Il sultano e la tradizione razionalizzante esigono una soluzione definitiva, la narratrice e la sacerdotessa si accontentano di una sospensione: ma cos'altro è la vita se non la sospensione di una condanna a morte? Ignorare questa condanna, tentare di evitarla, implica una tale alleanza con la morte che la vita viene consegnata a Thanatos con largo anticipo. L'ideologia salvifica che Sanjay sente nella parola che lo perseguita dalla poetica di Aristotele, katharòs, katharòs, katharòs... (Chandra, 404), che spinge la folla al tumulto per la convinzione che ci sia una sola verità, sono alla base dell'identità a radice unica di cui parla Glissant (cit.). L'arte del racconto non può guarire questa malattia, che è la condizione umana, ma mitigarla, perché fluisca la vita.
Mentre nel romanzo realistico il soggetto vince la morte, con qualche soluzione religiosa o ideologica, oppure ne è vinto, rappresentando insieme alla fine dell'illusione la fine della speranza, nella narrativa fantastica occidentale ci si colloca, scrittore e lettore, fuori dal problema della morte, mantenendo la rigida partizione vero/falso, storia/favola, che caratterizza la nostra letteratura realistica come la nostra coscienza, che obbedisce al principio di non contraddizione. Nei romanzi del nuovo mondo, come nella fiaba e nel sogno notturno, i generi si mescolano, si creolizzano: in Terra rossa e pioggia scrosciante
la descrizione fantastica del trono di Yama è nelle stesse pagine in cui realisticamente la scimmia non può parlare perché il suo apparato vocale è inadatto. E alla fine la piccola Saira è in coma, curata da medici reali, ma il suo sonno ricorda quello della Bella Addormentata, e un atto d'amore, come il dono di un racconto, può sperare di svegliarla. La favola si intreccia alla vita vera, e il realismo, che non si accorge della molteplicità di registri necessaria a rappresentare la realtà umana, esaurita la sua funzione, sconfina in una sorta di manierismo a servizio dell'identità continentale. Come la scimmia lo chiede ad Abhay, possiamo rivolgere la domanda al lettore: “Conosci superstizioni più assurde della razionalità?” (Chandra, 156)  
Nelle storie del nuovo mondo la morte è un personaggio, come Yama
, oppure è la condizione nella quale sta per entrare l'io narrante, come in tanti romanzi di Salman Rushdie. Se il soggetto lavora prevalentemente per tener lontana la morte, l'impegno titanico gli impedisce di vivere e amare. Il controllo aborrisce la mescolanza imprevedibile dell'amplesso col diverso, dal piano più letterale a quello più astratto, e porta a una rigidità che somiglia alla morte.
Neppure il potere può fare a meno delle storie che sospendono la peste e la condanna a morte, per questo il sultano delle Indie non uccide la figlia del suo visir. In una delle tante piccole storie narrate da Shahrazàd
si racconta del grande califfo Harun ar-Rashìd, che in una delle sue notti insonni passeggia nel proprio palazzo, dove vivono le trecentosessantacinque concubine (Le mille e una notte, cit, II, 391-392).  Ne incontra una che gli piace moltissimo, che però è ebbra, e quando il califfo l'attira a sé la donna gli chiede di rimandare l'incontro alla notte dopo. Ma quando il califfo le fa annunciare la sua visita, lei gli manda a dire: “Il giorno cancella le parole della notte” (ivi). Essendo in compagnia di tre poeti, Harun ar-Rashìd ordina loro di improvvisare una poesia che contenga quella frase. I primi due recitano versi di circostanza, e hanno in dono una borsa di danaro, poi tocca ad Abu Nuwàs, che nella sua poesia descrive l'incontro notturno, e la promessa della schiava, fino alla frase con cui rifiuta il califfo. Allora Harun ar-Rashìd, accusandolo di averlo spiato nella notte, ordina che venga punito col taglio della testa:  il grande poeta protesta che ha passato tutta la notte nella propria casa, può dimostrarlo, e che solo dalla frase ha capito di cosa doveva essersi trattato. E cita in sua difesa il Corano, la sura dei poeti, per ricordare con la massima autorità religiosa che la natura del poeta non può essere valutata col riduttivismo oggettivante del potere:

Quanto ai poeti, che i traviati seguono, non vedi tu come essi, in ogni valle, vadano errando, e discorrono di ogni cosa come insensati? E come essi dicono quello che non fanno? (Corano, Sura XXVI)

 
Vero e falso sono, fin dall'origine del racconto, parte dello stesso gioco. Mentre il detentore del potere, come l'eroe civilizzatore, vantano un mandato e una rivelazione a vario titolo divina, unica e assoluta, il poeta cerca il sapore della verità, che si gusta solo lavorando sia il vero che il falso. La grandezza del potere del califfo consiste sia nella sua decisione, ogni volta che è necessario, di tagliare la testa di chi incrina il potere, come Romolo uccide Remo, sia nella sua tolleranza per i poeti, che non rientrano, grazie alla loro erranza, nel suo gioco di dominio. Vero e falso si escludono nella logica di non contraddizione, mentre nella realtà psichica hanno uno spazio comune, e possono distinguersi pur restando termini dello stesso procedimento, come nella costruzione analitica che con un'esca di menzogna può catturare una carpa di verità.
I miti, come le fiabe, formano un arcipelago di isole e di nomi, che si legano e si sciolgono, e di origini multiple che non si contraddicono a vicenda: nessuna origine assoluta è possibile per storie che fioriscono le une con le altre. Il mito del realismo riduzionista, più o meno benevolo, liquida come primitivo questo arcipelago immaginario di miti e di origini multiple, e pone se stesso al grado più alto dell'evoluzione, come il bambino convinto che i genitori si siano incontrati solo per far nascere lui. Rinunciando all'illusione di una legittimazione assoluta, il poeta segue un desiderio di raccontare e di ascoltare, suo e degli altri, e ha fiducia nella reciproca possibilità di comprendersi, su isole su cui si può sostare, transitando. Abitare l'arcipelago mette il desiderio di spostarsi su altre isole, di continuare la migrazione, perché solo il mito dell'origine divina fornisce l'illusione di bastare a se stessi.
Il discorso potrebbe continuare all'infinito, perché accettando il giubilo e la sofferenza della creolizzazione l'identità atavica e le culture compatte si snodano, come una sfera illusoria che scollandosi si riveli un toro, all'interno del quale passa il vento, senza fine. Il toro topologico, un cilindro le cui basi coincidono, simile a un salvagente o a una ciambella, è una figura geometrica utile a raffigurare il soggetto e la realtà psichica. In topologia, le figure, pensabili come oggetti di una pasta illimitatamente estensibile e comprimibile, non si differenziano per le loro dimensioni, ma per il loro rapporto con lo spazio: una sfera, grande a piacere, può ridursi per deformazione continua a un punto, a un cubo, a qualunque figura sia regolare che irregolare, purché senza buchi. La sfera è compatta e lo spazio la contorna: può rappresentare l'identità a radice unica, senza la quale l'imperativo aristotelico che ossessiona Sanjay
non avrebbe senso. L'ideale della purezza, senza colpa o imperfezione, fondato da un'originaria legittimazione assoluta, o da conseguire seguendo un ideale salvifico, spinge il soggetto come la sua cultura a colonizzare incessantemente, sia la propria realtà psichica, sia i minus habentes a qualunque titolo, donne, bambini, analfabeti, primitivi, folli. Pensare la soggettività come una sfera corrisponde alla convinzione che il soggetto sia consistente, compatto, e non muti d'accento e di pensiero.
Nella concezione psicoanalitica, nella rilettura lacaniana di Freud
in particolare, è invece l'identità, la condizione stessa dell'uomo come essere di parola, sottoposto allo scarto tra significato e significante, a essere strutturalmente un non-pieno, e il toro col suo buco rappresenta la mancanza come una dimensione che non può mai essere colmata. Nessuna deformazione continua può rendere sfera una ciambella, occorrerebbe un'operazione discontinua, di incollaggio, per chiudere il buco centrale, per far corrispondere il soggetto all'ideale della purezza. Ed è proprio un lavoro disperato e illusorio di incollaggio, di rimozione della mancanza costitutiva della condizione umana, quello delle culture continentali. Nella nostra cultura, come in certe forme addomesticate di psicoanalisi, la mancanza viene proiettata sulla femmina in primo luogo, secondo un gioco speculare per cui la vanità e la vacuità femminili esistono per far emergere la potenza fallica. Il foro come è della donna è del bambino, dell'analfabeta, del primitivo, e, soprattutto, del folle. Grazie all'umanità composta di esseri che non dispongono del potere fallico, minus habentes - la minorità, la menomazione, indica la castrazione - gli altri, colonizzatori, benefattori e salvatori, eserciti regolari o terroristi, mantengono l'illusione di possederlo. Votati a Thanatos, costretti a ripetere atti di fondazione che richiedono tanto più sangue e vita quanto più è fragile l'illusione alla quale obbediscono, diramano ordini e costruiscono definizioni: soffocano la parola come Shahriyàr uccideva le sue spose al mattino. Le storie postcoloniali, così intime con fiabe e miti, dissolvono la compattezza illusoria dell'identità, ed Eros fluisce nella mobilità metamorfica dello scambio, che comprende riconoscimento e distacco, in un frangersi di onde sulle rive. 
Dominare la donna, toglierle parola e vita, significa far patire a lei morte e castrazione, nell'illusione di allontanarle da sé: ma soffocare la donna significa eliminare la passione per la verità. Si potrebbe dire che la poetica di Édouard Glissant è dal lato del femminile non meno che da quello maschile, quando preferisce la traccia alla via certa, e l'arcipelago al continente:

La traccia sta alla via come la rivolta al comando, come il giubilo alla tortura. [...] Non si segue la traccia per sfociare in percorsi comodi, la traccia è tesa verso la propria verità che è quella di esplodere, di sfaldare completamente la norma seduttrice. [...] Attacchiamo tutti dentro di noi i frammenti delle nostre storie offuscate, ma non al fine di costruire un nuovo modello di umanità da contrapporre, in modo prevedibile, agli altri modelli che siamo costretti ad imporci. Ecco la devianza che non è fuga o rinuncia, ma la nuova arte di sciogliere il mondo.
La traccia non ripete il viottolo a malapena segnato su cui si incespica, né il viale ornato che si chiude su un territorio, sulla grande proprietà. È un modo opaco di imparare il ramo e il vento, essere se stessi derivati dall'altro, il granello di sabbia nel vero disordine dell'utopia, l'insondato, l'oscurità dentro la corrente di un fiume inarrestabile. I paesaggi antillani ricordano altri paesaggi ed ogni incontro vi insinua la sua traccia singolare, torrenti e fiumi, stabilendo correlazioni; corrono fragili e ostinati, questi bracci di linguaggio che si interpellano. Colline e pianure degradano in racconti, frantumano l'inspiegato del mondo. Non mancate a questo nuovo tema che si sforza, non vi offendete per i vocaboli insolenti, né per quelli che avete urlato coperti di troppe terre, di troppi spazi. Risuonano dell'improbabile e del rischio che condividiamo. Il pensiero della traccia promette alleanze al di fuori dei sistemi, rifiuta il possesso, si apre su questi tempi frammentati che le umanità di oggi moltiplicano fra di loro, tra scontri e meraviglie.
Ecco è l'erranza violenta della poesia. (Glissant, cit., 55-56)

 
Questa erranza, di cui parla il Corano, non ha nessun rapporto con la moda new-age, che sta alla cultura dominante come la letteratura fantastica sta alla letteratura realistica: separata, complementare, la lascia intatta, risiedendo in qualche suo interstizio senza trasformarla. Pensiamo piuttosto alla natura della ricerca scientifica, molto vicina all'arte del racconto, quando non pretende, asservita a un'ideologia, di dar conto in maniera esaustiva della 'vera realtà'. Che conosce il limite, sapendo di poter illuminare solo un intervallo, appena un segmento del proprio campo di ricerca.
Al termine di Al di là del principio del piacere, saggio oscuro e fecondo, dove Eros
e Thanatos prendono forma come coppia cruciale nella psicoanalisi, Freud dichiara con umiltà e orgoglio la propria erranza:

A questo punto sorgono innumerevoli altri quesiti cui non siamo in grado attualmente di dare una risposta. Dobbiamo aver pazienza e attendere che si presentino nuovi strumenti e nuove occasioni di ricerca. E dobbiamo esser disposti altresì ad abbandonare una strada che abbiamo seguito per un certo periodo se essa, a quanto pare, non porta nulla di buono. Solo quei credenti che pretendono che la scienza sostituisca il catechismo a cui hanno rinunciato se la prenderanno con il ricercatore che sviluppa o addirittura muta le proprie opinioni. Del resto possiamo consolarci per i lenti progressi della nostra conoscenza scientifica con le parole di un poeta: "Ciò che non si può raggiungere a volo, occorre raggiungerlo zoppicando ... La Scrittura dice che zoppicare non è una colpa". (Freud, S., Al di là del principio di piacere; OSF, vol. IX; Boringhieri, Torino 1977 - Jenseits des Lustprinzips Frankfurt a. M. 1920;  tr. it. A. M. Marietti e R. Colorni; 248)

 
Ci piace sottolineare, giubilando per la traccia di creolizzazione, il fatto che l'ebreo Freud rimandi alla Scrittura citando da un makamat di al-Hariri, testo della tradizione araba.
L'erranza forse è sempre ricerca innamorata, viaggio che si stacca dall'identità continentale, luogo dell'origine legittimante, e la sua meta, che solo le fiabe rappresentano come raggiungibile, è il proprio oggetto d'amore. Raggiungibile solo lontano lontano, in una vicenda di tanto tempo fa, la possibilità di colmare il vuoto esiste solo in un oltre inattingibile nella realtà quotidiana: ma non per questo il sogno e l'immaginario che lo descrivono smettono di costituirci e trasformarci. L'oggetto d'amore del finale felice delle fiabe, è anche la fine della fiaba, la pagina bianca della narrazione: nessun racconto sgorga dalla pienezza, neanche se immaginaria.
Ma anche immaginare di raggiungere l'oggetto d'amore prevede una ricerca lunghissima, le cui scansioni simboliche hanno un rigore geometrico simile a quello delle selci, ricorrenze nascoste (Caillois, R., Ricorrenze nascoste; Sellerio, Palermo 1986 - Le champ des signes.
Rècurrences dérobées, Paris 1978 ;  tr. it. A. Zanetello), come nella fiaba del principe dei Tre cedri di Basile (Basile, G., Il Pentamerone ossia la fiaba delle fiabe; tradotta da B. Croce, prefazione di I. Calvino, Laterza, Roma-Bari 1974, 3 voll. - ed. or. 1634-1636), rinarrata da Carlo Gozzi nell'Amore delle tre melarance. Questo erede al trono rifiutava le nozze, al punto che se il povero re, suo padre, gli ricordava il dovere di assicurare una discendenza, scappava lontano cento miglia. Ma un giorno il principe che non voleva una sposa si tagliò un dito, due gocce di sangue caddero sulla sua ricotta, e si innamorò tanto di quel gioco di colori, che decise di partire alla ricerca della bella bianca come la ricotta e rossa come il sangue. Dopo aver viaggiato per tutti i paesi noti, come Tittone passò alle terre sconosciute, fino all'isola delle Orche, dove ricevette tre cedri, o tre melarance (Basile, cit., III, 427-434; per l'analisi della fiaba di Tittone, vedi Il romanzo new-global, cit., pp. 81 sgg.). Quando aprì il primo frutto vide apparire una fanciulla meravigliosa, che gli chiese da bere, e subito scomparve, e così la seconda: il principe si disperò, deciso a morire se avesse fallito anche la terza prova.

 E tagliò il terzo cedro ed uscì una fata, dicendo come le altre due: “Dammi da bere!”; e il principe, ratto, le porse l'acqua, ed ecco gli restò in mano una fanciulla tenera e bianca come una giuncata, con certe strisce di rosso che pareva un prosciutto d'Abruzzo o una soppressata di Nola: cosa non vista mai al mondo, bellezza fuor di misura, bianco di cui non fu mai maggior bianco, grazia che era sopragrazia della grazia... (Ivi, 595-596)

 
La mancanza di Eros che si rappresenta nel rifiuto delle nozze può assumere una forma assai più radicale di melanconia, quando una principessa non ride mai, come quella di Vallepelosa, già ricordata per la storia cornice del Cunto di Basile (ivi, I, 3 sgg.; vedi in questo stesso testo, pp. 41 sgg. e 146 sgg.).
Nel romanzo antico di Apollonio re di Tiro
, tradotto in inglese nell'XI secolo e ripreso da Shakespeare in Pericle principe di Tiro, il re e la principessa sua figlia vivono nell'incesto, e l'enigma viene proposto per tenere lontani i pretendenti, che se falliscono la prova vengono giustiziati, come i poveri innamorati di Turandot (cfr. Gasparini, A., "Il motivo dell'enigma. Trasformazioni e costanti del discorso interiore" in AA.VV.,  Rappresentazioni - Studi psicoanalitici, ETS, Pisa 1994).
Il legame incestuoso tra padre e figlia è attestato dal fatto che l'uno o l'altro, o entrambi, tentano di fermare il tempo, nell'illusione di tenere lontana la morte. Spetta al racconto sciogliere questo irrigidimento della vita, perché sia possibile l'incontro tra i diversi per eccellenza, l'uomo e la donna.
L'anima, il soffio incorporeo, lieve, mobile al punto che può transitare tra il mondo dei viventi e il mondo dei morti, non smette di disturbare il controllo del potere. E se la donna personifica l'anima, può toccare al suo personaggio sia la parte di colei che racconta e ottiene tempo di vita dalla peste e dalla condanna a morte, sia la parte di colei che condanna a morte, come Turandot
, sia quella di chi dorme un sonno simile alla morte stessa. In questo caso sarà l'uomo ad animare un racconto imprevisto, a portare Eros sulla scena. Nelle fiabe c'è una parità dei sessi che non concede nulla né al maschilismo né al femminismo, perché le fiabe devono poco alle maschere storiche che il femminile e il maschile assumono, giocando su un piano intrapsichico, strutturale, per l'umano che, articolandosi in generi, tende a rappresentarsi.
Consideriamo una fiaba come un sogno, come una rappresentazione della realtà psichica del sognatore, o del soggetto collettivo che narra e ascolta. In questo senso possiamo dire che Shahriyàr, come uccide le fanciulle, così soffoca il suo proprio lato sensibile, vibrante. La principessa di Vallepelosa (cit.), anima melanconica, non è figura più significativa per la psicologia della donna che per quella dell'uomo, rappresentando una funzione ricettiva incantata, addormentata, che con l'amore che ottiene o sente può svegliarsi e svegliare l'altro, liberarsi liberando.
C'è una fiaba di Baasile che racconta di un re, questo re acchiappò una pulce che lo aveva morso, e invece di ammazzarla la nutrì con tanta cura che la pulce diventò enorme: allora la fece scuoiare, ne ottenne una bella pelle e decise che avrebbe dato la sua unica figlia in sposa solo a chi avesse indovinato di che animale era.

Pubblicato dappertutto questo bando, la gente accorse a torme fin dagli estremi del mondo, per trovarsi allo scrutinio e tentare la propria fortuna. E chi diceva ch'era pelle di gatto mammone, chi di lupo cerviere, chi di coccodrillo, e chi d'un animale e chi d'un altro. (Basile, cit.; I, 59-60)

Il motivo della figlia promessa a chi supererà una prova di difficile nominazione, variante dell'enigma che abbiamo già osservato, è nel romanzo australiano di Murray Bail, Eucalyptus, dove il padre, vedovo come nelle fiabe, regna su una proprietà in cui ha piantato una varietà immensa di eucalipti, e ha una sola figlia, bellissima (Bail, M., Eucalyptus; Mondadori, Milano 1999 - Eucalyptus, London 1998 - tr. it. I. Landolfi). Non sapendo come controllare la figlia che richiama corteggiatori da ogni parte del mondo, fa sapere che concederà la sua mano a chi saprà nominare tutti i suoi eucalipti. Il compito impossibile e l'enigma valgono come una sorta di strozzatura dell'esistenza, attraverso la quale occorre passare per evitare che la sterilità sia definitiva. La mancanza dell'unione è sofferta e voluta: la coppia costituita dal padre e dalla figlia vuole e non vuole che il tempo trascorra, che la generatività porti nuove nascite e nuove morti. Molti falliscono, finché si presenta un certo Mr Cave, che ha l'età del padre, capace di nominare con meticolosa calma ogni albero senza un errore. Durante la prova in cui Mr Cave e il padre di Ellen appaiono sempre più simili, Ellen incontra un giovane che partendo dai nomi degli alberi, che conosce sia in latino che in inglese, le racconta storie brevi e interrotte, giorno dopo giorno, apparendo e scomparendo fra gli alberi. Ellen poi da sola ripensa alle storie, le ripercorre cercando di capire questo incontro:

 

Immobile, Ellen cercava di dare una forma a quelle storie, cercava di vederle dall'alto seguendo i contorni della piantagione, come se questo potesse diventare un disegno segreto.
Molti racconti avevano per protagoniste figlie o donne in cerca di marito. Una donna trova un uomo, e poi accade qualcosa che li separa. L'unione non dura. Certo, notava, esistono più storie di donne che di uomini. Non c'era bisogno di contarle. Una figlia in realtà non diventa mai una donna autonoma. E i padri, nel mondo delle storie, si comportano in modo severo e inflessibile. Molti dei suoi racconti ruotavano attorno ai padri, magari a quei padri che si erano dimenticati delle figlie, il che introduceva una nota di autentica tristezza. Perché le raccontava tutto ciò? Le donne, si rese conto a un certo punto, cercano o aspettano sempre qualcos'altro, qualcosa di indefinibile, un sovrappiù, una soluzione che giunga loro dall'esterno. Quelle donne inseguivano il concetto di speranza. Sembra che fosse la loro "forma di obbedienza". Ellen non poteva fare a meno di rispettarle. Una per una, quelle donne agivano con una sorta di leggerezza, obbedendo alla loro idea di fedeltà ai sentimenti. (Bail, cit., 205-206)

 
La leggerezza della donna è una forma della sua fedeltà: questa comprensione maschile accomuna Murray Bail e il suo giovane protagonista, che sono fra i pochi a non essere fuggiti terrorizzati di fronte al vaso di Pandora: il mito racconta che gli uomini, prima estasiati di fronte alla bellissima creatura, furono presi da orrore per i crucci, i dolori e la morte usciti dal suo vaso. Solo chi conosce la vera natura della mutevolezza femminile, e per questo non cede mai completamente né alla seduzione né al terrore, può accorgersi che in fondo al vaso  c'è il dono più grande: la speranza.
Nella fiaba di Basile,
dopo tanti pretendenti che avevano fallito, superò la prova e ottenne la principessa un orco orrendo, che dopo aver portato la principessa nella sua casa le portava da mangiare carne umana, finché sette fratelli dai poteri magici la liberarono. Nel romanzo la parte dell'orco tocca a Mr Cave, ma quando supera la prova Ellen si ammala. Se fossimo in una fiaba, si direbbe subito che si tratta di una malattia d'amore, e i medici si dichiarerebbero impotenti a curarla. Nemmeno nel romanzo qualcuno sa guarire Ellen, e non basta che provino a raccontarle storie, perché non sono appassionanti. Quando il medico provò a raccontare, “...era come se non si rivolgesse a lei, come se parlasse a se stesso, così Ellen presto si distrasse” (ivi, 218). Poi toccò al maestro di scuola, che arrivato in punta di piedi lesse brani da un libro di storia britannica: “...quando le chiese se voleva che continuasse l'indomani, Ellen scosse la testa” (ivi, 219). Il meticoloso Mr Cave aveva capito che il suo successo nella nominazione delle piante bastava per ottenere Ellen dal padre, ma non per averla, e quindi provò a raccontare la storia di quando era stato sul punto di sposarsi. Aveva portato la fidanzata al banco dei pegni perché scegliesse un anello, ma lei, dopo aver tirato fuori una manciata fedi nuziali, si era messa a strillare che voleva un anello diverso da quelli:

“Non capivo che cosa intendesse. Poi scappò via, lasciandomi lì, con una manciata di anelli nuziali in mano. È successo quale anno fa”.
Ellen aveva la bocca aperta e guardava da un'altra parte.
“Di tutto quel che mi è successo nella vita” Mr Cave si sfregò le mani “questa è la sola storia che mi venga in mente”. (Ivi, 221)

 Mr Cave nomina le cose come gli alberi, senza chiamarle in vita, non le accarezza, non sa cos'è un anello, né una donna, e non conoscendo se stesso non conosce la potenza del nome. Come gli aborigeni australiani pensano che il mondo sia stato creato dagli dei con il canto, così nella Bibbia è la parola divina a chiamare il mondo ad esistere. E come il primo atto di Adamo è nominare gli animali, mentre Eva accanto a lui lo ascolta, così ogni essere umano è tale nell'articolazione della parola vera, dando il suo contributo al lavoro del linguaggio.
Quando Ellen si avvicina tanto alla morte che sembra la sua fine, il giovane sconosciuto torna accanto a lei con la grazia di un principe di fiaba, e la guarisce rivelandole di aver vinto la prova. Il realismo si intreccia alla figura fiabesca, perché il giovane ha vinto la prova dato che ha fornito, prima ancora del bando, le etichette richieste dal padre di Ellen per tutti i suoi eucalipti, etichette di alluminio col nome di ogni albero, in latino e in inglese, prima ancora che fosse emanato il bando con la prova impossibile.

In tono molto pratico, e senza abbassare la voce, le cinse i fianchi: “Non ho fatto neppure un errore”.
Ellen continuava a non saper cosa dire. Ma ancora una volta si rendeva conto di come stava bene insieme a lui. Sentì la forza della sua stretta: aveva già deciso.
Dovette spiegarle meglio: “A ogni albero ho dato il nome giusto. Un lavoro difficile, ma non impossibile. E adesso eccomi qui. Potrei issarti su una spalla e portarti via con me, tra gli alberi”.
Disse anche altre cose. Si trattava di decidere e partire insieme. E. confluens. (Ivi, 236)

 
In Eucalyptus il senso dei miti cosmogonici degli aborigeni e della creazione biblica attraverso la parola si saldano, intrecciandosi alle fiabe, fiorendo in una giocosa identità aperta al senso del nuovo: perché l'uomo, perché la donna, perché il padre, e poi perché la città e il deserto... se fedeltà e leggerezza sono comprese, si può attingere al dono dimenticato in fondo al vaso di Pandora.







CONCLUSIONE
Folgorati Dalla Vita

Silvia Albertazzi

"La catena dell'umanità [...] è la trasmissione della parola, e dell'esistenza, di bocca in bocca e poi di sguardo in sguardo" (Said 1991, 44). Qualsiasi lettore, autore o critico di letteratura postcoloniale si trova confrontato con la resa narrativa di questa asserzione di Said. Anzi, si potrebbe affermare che non esiste romanzo nelle cosiddette ‘nuove letterature' in cui non appaia, in primo piano o anche solo sullo sfondo, almeno una rappresentazione della "catena dell'umanità", ovvero del passaggio del testimone – narrativo, linguistico, ma anche esistenziale e umano – da un personaggio all'altro, da genitore a figlio/a, da insegnante a discepolo/a, da moribondo/a (o addirittura morto/a, fantasma) a vivente, lungo la scala delle generazioni, oltre la vita e la morte. Esempio paradigmatico è Il cromosoma Calcutta di Amitav Ghosh, thriller fantascientifico la cui azione si svolge su diversi piani cronologici e spaziali, in differenti secoli e paesi, secondo un sapiente gioco di intrecci narrativi che solo sull'ultima pagina - malgrado il lettore ne abbia forse avuta più volte premonizione nell'arco della vicenda - si svelano essere determinati dallo snodarsi della catena dell'umanità, ovvero dal passaggio di testimone tra morti e vivi, nel tentativo di acquisire l'immortalità.

C'erano voci dappertutto, adesso, nella stanza, nella sua testa, nelle sue orecchie, era come se una folla di persone fosse in quella stanza con lui. E gli dicevano: "Siamo con te; non sei solo; ti staremo vicini".
Si appoggiò allo schienale della sedia e sospirò, come non sospirava da anni (Ghosh 1996, 285)

Il personaggio scelto per traghettare la storia di Ghosh verso l'immortalità, per contagiare, cioè, gli altri protagonisti con il germe della vita, accoglie in sé, al termine della vicenda, vite, desideri, amori ed esperienze di altri, che ad altri dovrà passare, in una sorta di baratto incrociato, secondo un contagio che non si può fermare e che per Ghosh, come è suggerito dal sospiro finale di Antar, ha valenza decisamente positiva. Al contrario, in un fortunato romanzo statunitense uscito nello stesso periodo del Cromosoma Calcutta, Il miglio verde di Stephen King, il protagonista, per una sorta di contagio miracoloso, acquisisce lunghissima vita, ma non l'immortalità. Anche Paul Edgecombe rivela solo alla fine della sua lunga storia di essere stato toccato da un miracolo, usando un'espressione presa a prestito da quel linguaggio medico-scientifico che costituisce il registro dominante della narrazione di Ghosh: "mi inoculò vita", dice, riferendosi all'uomo che gli ha donato eccezionale longevità. E precisa, subito dopo: "mi folgorò di vita, si potrebbe dire" (King 1996, 545). Ma se quel "folgorò", in corsivo nel testo, può esprimere anche positività nella traduzione italiana, basta volgersi al testo originale per fugare ogni ambiguità: "He electrocuted me with life", si legge in inglese, con preciso e voluto riferimento all'electrocution, la morte per scarica elettrica, cui è condannato il personaggio dotato di poteri paranormali che infonde vita quasi eterna al protagonista. Se poi si aggiunge che quest'ultimo, guardia carceraria, nulla potrà fare per salvarlo dalla sedia elettrica, pur avendone scoperto l'innocenza, ci si rende conto di tutta la tragica ironia implicita nel dono di un'esistenza oltre i limiti dell'umano. "Verrà anche la mia ora [... ] afferma Edgecombe, "ma avrò desiderato la morte molto prima di quando mi troverà." (ivi) e conclude, con riferimento metaforico al corridoio su cui si affacciano le celle dei condannati alla pena capitale, "Tutti noi dobbiamo una morte, non ci sono eccezioni, lo so, ma certe volte, oddio, il Miglio Verde è così lungo" (ivi, 547).
Siamo tutti debitori di una morte, tutti condannati a morte in attesa di esecuzione, tutti morti in permesso. Eppure, nella narrativa postcoloniale, l'assunto viene capovolto: "Ciascuno di noi deve una vita alla morte" (Rushdie 1984, 42) si legge ne I figli della mezzanotte. E quella vita è fatta delle emozioni, delle banalità, delle passioni, delle vittorie e delle sconfitte che ci passiamo l'un l'altro, attraverso le storie, attraverso il contagio del linguaggio, attraverso le parole che trasferiscono sentimenti, coscienze, gioie e dolori. Così se per l'occidentale il contagio narrativo è maledizione – pensiamo all'archetipo dell'invitato a nozze coleridgiano, costretto suo malgrado a disertare la festa per ascoltare il vecchio marinaio dall'occhio scintillante – per il soggetto postcoloniale è fonte di vita, di immortalità. Del resto, per l'occidentale "contagio" è un termine negativo: "contagiare di vita" è una contraddizione in termini. Il narratore che passa ad altri il testimone di una storia può addirittura finire con l'essere assimilato a un vampiro, come accade in un racconto italiano. In questo caso, c'è un solo modo per liberarsene: raccontare la sua storia.

Presto egli sarà nei vostri sogni, che lo vogliate o no. [...] ha molta pazienza. Sfrutta i momenti di debolezza, entra nei tempi morti, nei vuoti mentali. Non permettetegli di entrare in voi troppo a lungo. È un vampiro, un particolare genere di vampiro: il cauchemar, l'incubo soffocatore.
Raccontate di lui prima che infranga le vostre ultime resistenze e vi rapisca con i sogni la vita stessa. Raccontate di lui e sarete liberi, come io lo sono da ora. Restituito a me stesso. (Manfredi 1988, 194)

Si racconta, dunque, per liberarsi di un incubo, non per dividere con altri un sogno. Si passa il testimone non per portare avanti – e vincere – una gara a squadre, ma per disfarsi di un elemento di disturbo. Il passaggio delle parole di bocca in bocca enfatizza soltanto la situazione di scacco del soggetto occidentale, la sua crisi. Diverso è, ovviamente, il discorso per le storie concatenate degli autori postcoloniali, di cui il già citato finale di Terra rossa e pioggia scrosciante sembra essere l'esempio più emblematico: se durante tutta la lunghissima narrazione del romanzo, Sanjay e Abhay si sono passati il testimone in una interminabile staffetta, giunti alla fine della(e) storia(e) e della vita terrena di Sanjay, essi non interrompono il racconto, che passa ad altri narratori, e ad altri ancora: "finché ciascuno di voi entrerà a farne parte, e gli dei verranno ad ascoltare, finché tutti noi parleremo in un'armoniosa confusione [...] e con queste parole ricominceremo tutto daccapo" (Chandra 1998, 741). Chi entra a far parte della narrazione non è solo chi la ascolta o chi la racconta a sua volta ad altri: anche il lettore ne diviene parte integrante, fino a parlare in essa e con essa, realizzando l'assunto di Said secondo cui "nessun testo è mai finito, poiché le sue possibilità vengono continuamente estese, da ogni nuovo lettore" (Said 1991, 157). In questo senso, come chi ascolta il narratore tradizionale, il lettore, condividendo una storia, trae forza ed energia vitale. Lungi dal privarlo delle ultime resistenze, il racconto gli dà nutrimento; attraverso il sogno, la vita non gli viene rapita, ma restituita. Come accade alla vecchia Monimala in Banana-flower, i sogni instaurano la catena dell'umanità, alterando lo scorrere del tempo e ripristinando una durata atavica.

Nei sogni non sei mai sola, tutte le persone che hai conosciuto, vive o morte, vengono a parlarti, nei sogni. Sono tutti così gentili e amichevoli, hanno tantissimo tempo a disposizione. Non hanno fretta, non ti fanno fretta [...] Come si fa sopravvivere a farina di riso tanto a lungo, se non ci sono i sogni a nutrirti? (Sharma 2001, 132)

La narrazione, dunque, ha funzione terapeutica: i sogni aiutano a vivere, prolungano la vita. Questo "potere di redenzione della scrittura" non è proclamato solo dagli autori postcoloniali: chi ha letto il saggio On Writing di Stephen King, per esempio, sa con quanta passione King affermi il valore salvifico della narrazione, ovvero l'importanza, per lo scrittore moderno, di "recitare la parte di Sheherazade [sic]" (King 2001, 167). È lontana l'idea di una letteratura che vale solo per se stessa, che non ha altre finalità che il bello, in ossequio al luogo comune snobistico dell'arte per l'arte. Come scrive Brink, non è tanto triste quanto pericoloso "avere dimenticato questo per tanto tempo" (Brink 1998, 122) perché "Le configurazioni possono essere intercambiabili, ma i miti persistono [...] L'universo è fatto di storie; sono loro le funzioni d'onda della nostra esistenza" (ivi, 378). E allora, viene da domandarsi insieme alla protagonista de La polvere dei sogni, "Perché chiedere la verità, qualunque possa essere, se puoi avere l'immaginazione?" (ivi). Gli stessi autori occidentali, del resto, da tempo vanno affermando l'inutilità della ricerca del vero e del verosimile in narrativa: "non importa che un storia sia vera o falsa", ha affermato un autore spagnolo, Antonio Muñoz Molina, "conta solo saperla raccontare" (Muñoz Molina 1999, 375), e il newyorkese Paul Auster ha aggiunto: "nessuna storia è falsa finché una sola persona ci crede" (Auster 1995, 145). Ma dai narratori postcoloniali impariamo, inoltre, che proprio dividendo insieme agli altri l'immaginazione si contribuisce alla crescita della conoscenza; che un sogno, una volta raccontato, non è più patrimonio privato (ovvero ossessione) del sognatore; che, come ha affermato un altro famoso scrittore spagnolo, Javier Marías, "le storie non appartengono soltanto a chi le inventa, ma una volta raccontate appartengono a chiunque. Si ripetono di bocca in bocca e si modificano e si deformano, nulla viene raccontato due volte nella stessa forma né con le stesse parole" (Marías 1998, 136). Non si tratta, quindi, di "chiedere la verità", ma di condividere l'immaginazione, sapendo che, in ultima analisi, "il mondo dipende dai suoi relatori" (ivi).
E dai relatori postcoloniali dipende un mondo che noi occidentali ancora non conosciamo – non conosciamo abbastanza o non conosciamo per niente – ma che attraverso le loro parole dobbiamo imparare a immaginare, perché per leggere un romanzo, una storia, è necessario saperne evocare il contesto, colmando con la fantasia gli inevitabili vuoti che da esso ci separano nello spazio, nel tempo e nell'esperienza. E alla fine, se ci riusciamo, "impariamo qualcosa sull'umanità rispondendo ai mondi evocati con le parole nella cornice narrativa del romanzo: impariamo la straordinaria diversità delle risposte umane al nostro mondo e la miriade di punti di intersezione di quelle varie risposte." (Appiah 2001, 225)
La fiaba non è che un "punto di intersezione" delle varie risposte al nostro mondo. Non è un caso che, introducendo Il miglio verde, Stephen King affermi che, volendo creare in quel romanzo "un mondo praticamente dal nulla", non conoscendo molto né del tempo né dei luoghi in cui voleva ambientare la narrazione, aveva deciso, "per non soffocare il fragile senso di meraviglia [...] trovato nella [...] storia" (King 1996, IX), non di fare ricerche sull'argomento, e di dare alla vicenda un "sapore non [...] realistico, bensì favolistico" (ivi). Nella prefazione del 1995 alla versione in volume dello stesso romanzo, precedentemente apparso a dispense, così come nella nota finale del 1996, King confessa esplicitamente di aver preso a modello Charles Dickens. Con un tocco di (falsa?) modestia, egli afferma di non ritenersi il nuovo Dickens e aggiunge che questa definizione si addice meglio, probabilmente, a John Irving e Salman Rushdie. Senza dubbio non si può negare un'apparente aria di famiglia, soprattutto sul piano delle tematiche relative al romanzo di formazione, tra il padre di David Copperfield e l'autore delle Regole della casa del sidro, dove ai piccoli ospiti dell'orfanotrofio di St. Claud's vengono lette pagine dickensiane per favorire il sonno - "storie di orfani [...] che altro leggere a un orfano?" (Irving 1985, 35). Ma il nocciolo fortemente trasgressivo della narrazione di Irving mostra quanta strada – e quanto tempo – separino i due scrittori. E se forse per entrambi gli autori, le regole, sempre stabilite da chi non è chiamato a metterle in pratica, sono fatte per essere distrutte, è solo per il contemporaneo americano, però, che la sostituzione delle regole del cuore a quelle della convenzione può portare all'esaltazione della truffa e della menzogna a fin di bene, all'uso di un canovaccio vittoriano per narrare una storia che più antivittoriana non è dato immaginare: abortista, a-religiosa, anticonvenzionale e dissacratoria. Diverso è il caso di Rushdie, che da Dickens non eredita tanto le tematiche quanto la capacità di usare al meglio il tono favolistico per raccontare vicende ancorate alla realtà storica. Egli stesso spiega nelle sue interviste:

Una delle cose che pensavo, quando iniziai a scrivere, è che molti dei termini usati in diverse parti del mondo per descrivere il genere che mi interessava dicevano sostanzialmente la stessa cosa. Fabulismo, surrealismo, realismo magico: scrittori così lontani quanto Calvino, Roth, Márquez o Kundera dimostravano che il realismo del romanzo non è una questione di tecnica né di mimesi della realtà: è una questione di intenti. Se si vuole catturare il reale, bisogna avere il coraggio di lasciarsi alle spalle le regole della scrittura realistica. Il mondo cominciava a non rispondere più ai criteri della realtà, il mondo in sé diventava abnorme, e richiedeva allora un'abnorme scrittura per essere descritto. (Rushdie in Barillari 2002, 15)

L'abnormalità della scrittura rushdiana sembra concretizzare quella che Glissant ha definito "poetica dell'orale scritto", e che si fonda sulla durata, l'accumulo, il ritorno e la ripetizione, i ritmi dell'assonanza e l'oscurità, intesa come "eco del caos-Mondo" (cfr. Glissant 1997, p. 114). È veramente quella di Rushdie e degli altri scrittori postcoloniali "la voce di un mondo in procinto di crearsi" (Fuentes 1997, 26) che non soggiace ad alcuna regola precisa, ma mescola mistero, curiosità, logica e irrazionalità, testimonianza e magia, com'è delle fiabe e dei sogni. È al caos-Mondo, al caotico mondo nuovo nel suo farsi, che danno voce, a ogni latitudine, Rushdie e compagni, non per mettere ordine nella confusione di una realtà in gestazione, ma "per divertirsi con le vertigini, per creare casino, per goderne, per rimestarlo" (Taibo II 2002, 377), consapevoli di "essere ben lontano dall'illusione che quando la vita diventa profondamente incoerente arrivi il romanzo a metterci una pezza" (ivi) e al tempo stesso sicuri che "Il romanzo, come la realtà reale, come le storie che conosciamo tutti e le storie che ci capitano sempre, è pieno di parentesi, buchi, ellissi che ballano saltellando da una parte e dall'altra senza desiderare concretizzarsi, senza voglia di spiegarsi." (Ivi)
A proposito dei "romanzi scritti al di sotto del 35° parallelo", Milan Kundera ha parlato di "una nuova grande cultura romanzesca caratterizzata da uno straordinario senso del reale cui si accompagna una fantasia sbrigliata capace di infrangere tutte le regole della verosimiglianza" (Kundera 2000, 40). Si tratta, egli ha anche aggiunto, di romanzi scritti "in un altro modo" ovvero "varcando la frontiera del verosimile. Non per evadere dal mondo reale [...] ma per afferrarlo meglio" (ivi, 60). A ben riflettere, questo è quanto accade anche nei sogni: si esce dal reale per capire il reale. È ovvio ricordare a questo proposito le osservazioni di Saleem Sinai sulla nascita dell'India indipendente, "una terra mitica, in un paese che non sarebbe mai esistito senza gli sforzi di una fenomenale volontà collettiva – se non in un sogno che tutti accettavamo di sognare" (Rushdie 1984, 126). Si potrebbe affermare, senza forzare troppo l'assunto rushdiano, che tutta la narrativa postcoloniale è sogno collettivo, un sogno che tutti – autori, lettori e personaggi – accettiamo di sognare insieme. In questo senso, i romanzi sin qui esaminati rendono ragione dei famosissimi versi shakespeariani:

[...] noi siamo della stoffa
di cui sono fatti i sogni; e la nostra piccola vita
è cinta di sonno.
(La tempesta, IV, i, 158-160)

Non a caso, Prospero pronuncia queste parole nella più ‘raccontata' tra le commedie shakespeariane, in quella Tempesta in cui il racconto appare attività compulsiva dei protagonisti, quasi a voler suggerire che il racconto stesso è sogno, le storie narrate sono della stessa materia, impalpabile e volatile, dei sogni. E tuttavia, la differenza tra il sogno narrato occidentale, da Shakespeare a Stephen King, e quello del mondo nuovo, dalle Mille e una notte ai racconti riuniti all'inizio del terzo millennio dall'australiano David Malouf sotto il titolo shakesperiano La materia dei sogni, si gioca tutta intorno a quel sonno che cinge la "nostra piccola vita": sonno di morte, solitario, per l'occidentale; sonno condiviso, o notti di veglia rischiarate dai racconti magici, per l'Altro. Del resto, mentre Prospero con la stoffa dei sogni crea l'immaginario tardo-rinascimentale (e colonizza quello coloniale, rappresentato da Calibano), lo scrittore postcoloniale usa il racconto – il sogno – piuttosto come una moneta di scambio, per acquistare granelli di immmortalità.

"... raccontando storie passiamo noi stessi agli altri", ha affermato Vikram Chandra. "Trasformare le proprie esperienze in racconti per il piacere dei lettori è un modo di creare un legame col pubblico. È un atto di intimità. La cosa strana è che si crea intimità con degli estranei. Il rituale della narrazione è lo stesso attraverso le culture; sedere accanto al fuoco, narrare una storia è uno dei rituali più antichi, è come spezzare il pane con qualcuno." (Chandra 2000)

Esiste un legame profondo tra persone che spezzano il pane insieme: due che condividono lo stesso pane "sono uno amico dell'altro anche se non si sono mai visti prima" (Dorfman 1999, 138). È questo il mistero dell'intimità con estranei di cui parla Chandra, ma anche della compartecipazione sociale che ci lega a sconosciuti in virtù di una sorte comune, l'essere etimologicamente compagni, com-pañeros, dei nostri simili. Per lo scrittore postcoloniale, dividere metaforicamente il pane narrativo con qualcuno diviene atto politico, nella consapevolezza della diversità del suo modo di essere e di raccontare, del suo stesso status di narratore, rispetto all'occidentale. Quanto scrive il martinicano Patrick Chamoiseau può valere per tutti gli autori extraeuropei che abbiamo incontrato in questo volume:

La mia parola di Narratore è oscura come la notte in cui intervengo. Vedo la distanza dal romanziere occidentale che scrive alla luce del giorno. L'espressione di quest'ultimo è ufficiale, attesa, stimata, e percepita come tale; egli riflette i valori della condizione umana; ci spiega le nostre anime [...] in una lingua eletta, in una Storia comune, nella certezza scritta di un territorio. Quella del Narratore [...] diffonde il suo mandato nell'oscurità di una differenza d'uomini; non ha legittimità antica, ma avvolge cosciente e incosciente nelle grazie liberatrici d'un riso che non proviene da alcuna terra comune. (Chamoiseau 1997, 171)

Il lettore occidentale non può che stupirsi di fronte alla ricchezza della scrittura postcoloniale e prorompere, come Miranda, in un'esclamazione di sbalordimento per il "meraviglioso mondo nuovo" creato dagli autori delle letterature ‘emergenti'. Tocca al critico il compito pragmatico, forse politicamente scabroso, ma ideologicamente irrinunciabile, di ribattere allo stupore del lettore ricordando, come Prospero a Miranda, che quel mondo magnifico è nuovo solo per chi lo guarda da una prospettiva eurocentrica, mentre in realtà, come ebbe acutamente a rilevare Carlos Fuentes, scaturisce "dagli antichi confini di quanto la centralità europea giudicava eccentrico" (Fuentes 1997, 166).
" 'Tis new to thee", dunque, "È nuovo per te" (Tempesta, V, i, 185). Per te, hypocrite lecteur postimperiale – mon semblable, mon frère.



Penultima revisione 4 novembre 2018
Ultima revisione 3 ottobre 2022