ADALINDA GASPARINI                PSICOANALISI E FAVOLE
Percorsi incantati. Viaggi, viaggiatori, percorsi di crescita nella letteratura per l'infanzia L'OROLOGIO E LA GEMMA,
OVVERO LA COTICA CLAMOROSA
AA.VV.
Einaudi Ragazzi, Torino 1999


L'educatore deve acquisire una cultura psicoanalitica,
in assenza della quale l'oggetto della sua ricerca,
il bambino, rimane un enigma inattingibile.

(Sigmund Freud)



1. La vaghezza di Longiano

Un gruppo di insegnanti di scuola dell'obbligo, prevalentemente di scuola elementare, è con me nel castello di Longiano, nel giugno 1997. Hanno ascoltato le conferenze del corso nei due anni precedenti, e nel settembre 1996 erano presenti quando nel teatro di Longiano ho raccontato di Re porco e dei bambini narratori. Tra i duecentocinquanta insegnanti presenti nel teatro settecentesco, circa venti hanno seguito il mio breve seminario, e hanno individuato la possibilità di continuare a incontrarsi durante l'anno scolastico per sperimentare... che cosa?
E qui comincia la vaghezza, sia come bellezza, prima di tutto del luogo in cui ci siamo incontrati, con la rocca malatestiana, il teatro, le colline della Romagna, mentre la vaghezza dell'esperienza potrebbe connotarsi come grazia di un lavoro nella scuola, ma anche dissolversi come nebbia. La vaghezza della mia proposta psicoanalitica nella scuola è da pensare come un oggetto topologico, una palla o un toro, la cui superficie può estroflettersi, invaginarsi, estendersi fino a favorire un principio di dialogo tra psicoanalisi e istituzione, o contrarsi fino a un punto, e, quasi senza dimensione, scomparire.
Per fortuna il linguaggio come è preciso è fluido, e mi soccorre nel momento in cui devo dire qualcosa di questo lavoro di Longiano.
Certo la vaghezza come bellezza rigermoglia dai bambini che avendo ascoltato la fiaba la riscrivono o la disegnano, confortando l'insegnante che non si è ritratto di fronte all'incertezza, ai contorni mobili, sfumati, della proposta psicoanalitica. Allora il principe porco in Romagna quando incontra una sposa che lascia che tutto sporco si strofini contro le sue vesti, e poi lo copre perché non prenda freddo nella notte, per umanizzarsi si leva la cotica, come ha scritto un bambino di terza elementare.
E lo splendore dei corpi e delle anime, giovani e principesche sotto lo sguardo di questi bambini, come nelle fiabe è tutto nuovo e antico: questo è il valore che i simboli custodiscono e che sempre può rifiorire.

2. La cotica clamorosa

La storia di Re Porco, che ha dei punti di contatto con la più celebre fiaba della Bella e della Bestia, presenta con sapienza e leggerezza il gioco affettivo senza il quale nessuna unione tra maschile e femminile è possibile#. Prima di questo incontro, grazie al quale cadrà per sempre la romagnola e universale cotica, il principe che era in tutto un porco aveva sposato altre due belle fanciulle, che però aveva ucciso la prima notte di nozze sentendo che volevano pugnalarlo appena si fosse addormentato. Con la terza sposa l'incontro d'amore miracolosamente accade, come del resto senza un po' di magia non ci si può incontrare e amare, e la nuova forza dissolve la preoccupazione per l'identità, per l'abito, mettendo fine alla separazione causata dalla diversità.
È di un alunno di terza elementare la descrizione perfetta della dinamica dell'accettazione del principesuino da parte della terza sposa:

Quando vide una fanciulla così ma così bella sporco e puzzolente prese la rincorsa e le girò intorno lei la fanciulla si chinò e lo grattava e la regina li disse con la fanciulla ma non lo metti da parte e le rispose di no, lo baciò e lo accarezzò. La notte la fanciulla lo tenne forte, la notte precedente si tolse la pelle da porco e vienì fuori un giovane bellissimo e vissero insieme felici e contenti.

Si noti la scansione temporale, il ritmo della trasformazione, che il bambino vuol significare con la parola precedente, che non è nel suo lessico quotidiano, ma noi comprendiamo bene, e non abbiamo bisogno di sostituire seguente a precedente. Ascoltiamo il suo racconto, certi che imparerà, perché il prima e il dopo nella fiaba indicano un ritmo possibile, umano, per procedere dal caos al cosmo, dall'infelicità e dalla maledizione iniziale, che significa il peso della condizione umana, al lieto fine più dolce del miele, che è utopia, speranza, e comunque segno di un desiderio immortale.
Alle concezioni razionalistiche della realtà, per le quali le cose sarebbero riducibili a oggetti misurabili e pesabili, e che rispetto alla mente sono sistemi conoscitivi più magici della cabala e dell'astrologia, sfugge irrimediabilmente la fiaba come tutto il simbolico. Gli sciocchi indicano ai bambini come separare le figure e i luoghi, disegnandoli e ritagliandoli per disporli su un cartellone: gli immaginari da una parte, i reali dall'altra. Eppure basta che l'insegnante lasci emergere la sua propria vaghezza, e racconti una fiaba come questa, e poi chieda ai bambini di scrivere o disegnare qualcosa, da non valutare, da non classificare, da non correggere, e almeno uno nella classe gli rivelerà che sono piuttosto gli adulti a ignorare la differenza tra ciò che vediamo e tocchiamo da svegli, nel mondo dell'esperienza che ci accomuna tutti, e ciò che si manifesta nel luogo privato del sogno notturno o della fantasticheria, come nel sogno a occhi aperti o nell'angoscia. I bambini dichiarano il loro bisogno di un'area di gioco dove possano articolare le loro rappresentazioni private, oniriche, angoscianti, come le loro speranze migliori, con le parole che imparano dagli adulti, e ci rassicurano sul fatto che l'esistenza delle fate non modifica le loro percezioni dei banchi e delle pareti dell'aula. Noi adulti dovremmo ammettere che siamo incerti su cosa sia la vera realtà, o almeno che dubitiamo spesso della sua stabilità, e della nostra identità stessa: solo così potremmo consentire ai bambini la molteplicità dei loro piani di rappresentazione, di cui hanno un profondo bisogno per crescere.
La bambina che parla ora coglie la relazione tra ciò che è repellente e ciò che è bellissimo, proponendoci un contenuto profondo che possiamo considerare una luce nella notte del culto dell'immagine idealizzata:

Io avrei voluto essere Rosabianca perché ha voluto amare il porco anche se era sporco e puzzulente, ma alla fine ha avuto il meglio.
A me ha colpito molto quando c'erano le fate perché fanno gli incantesimi, perché nel mondo vero la magia non esiste e a me piacerebbe ancora un mondo dove ci fossero le fate a fare gli incantesimi.

A proposito del bisogno di attraversare piani di rappresentazione fantastici e simbolici, parla chiaro anche il disegno di una bambina di terza elementare, dove si vede la scena iniziale, in cui tre fate fanno ingravidare la regina sterile, ma il loro incantesimo prevede che il principe nascerà come un porco. La bambina, di terza elementare, ci presenta la regina e una sola fata, entrambe magrissime. Ma sull'abito della regina ci sono fiori come sulla Primavera di Botticelli, particolare ricorrente nei disegni, e la fata ha delle grandi ali, che compensano la sua femminilità lesa. In alto ha scritto:

E' il momento che mi è piaciuto di più perché mi sembra impossibile che la fata possa leggere nel futuro

La didascalia ci apre alla comprensione dell'identificazione, che funziona in una oscillazione feconda tra possibile e impossibile. Proiettare la propria istanza di crescita, il proprio desiderio, sui personaggi delle fiabe è un processo normale come quello dei francesi che si sono sentiti vittoriosi come i giocatori di calcio della loro nazionale: in un gioco di rappresentazione Rosabianca e Re Porco invitano i bambini a muoversi con loro, come la squadra che ha vinto i mondiali invita la Francia, e i bambini lo accolgono, per donare alle antiche figure le loro nuovissime parole.
L'accettazione nella fiaba comincia dai genitori: quando anziché un bambino nasce un porcellino il re padre vorrebbe buttarlo in mare, ma poi riflette che per quanto brutto è sempre figlio suo, e decide di farlo allevare come si deve. Questo è il primo e indispensabile senso dell'amore, il solo che quieta: che i genitori amino il bambino perché è il loro, non perché è adeguato a un'aspettativa più o meno sensata. Può anche disattenderla, nascendo con la cotica e le zanne, ma i genitori sanno che è il loro unico figlio, e lo amano. Retorica moralistica? no, verità psicologica, così come sanno bene questi bambini, che non parlano per dimostrare nessuna convinzione morale, né psicoanalitica, né didattica. Riporto le didascalie di alcuni bei disegni, cominciando da un alunno di seconda media:

La principessa fa i complimenti a suo figlio anche se non è poi così perfetto:
- Sei carino! lo sai?
- Grazie!

È ancora un maschietto, questa volta di terza elementare, a disegnare una rappresentazione gioiosa della relazione tra padre e figlio; accanto al porcellino, sul quale spicca un cartello con la scritta MAIALE, c'è il re che lo accarezza, e nel fumetto dice:

Ciao ciao bello amore del papà
Il porco saltava in braccio alla sua mamma e con il suo grugnetto la baciava

Una bambina delle elementari, dopo aver disegnato il principe che torna a palazzo dopo essere stato a rotolarsi nel letamaio, e va dalla madre che siede sul trono e sorride elegante, scrive:

Il porco saltava in braccio alla sua mamma e con il suo grugnetto la baciava

Molti bambini hanno rappresentato il luogo dove va a rotolarsi il principe porco, e in due disegni compaiono delle siringhe. Un bambino oltre alle siringhe, tra lo sporco preferito dal principe prima di umanizzarsi, ha raffigurato dei flaconcini: sono medicine, come psicofarmaci? o contengono pasticche di quelle in uso nelle notti del sabato delle quali noi, gli adulti, gli educatori, non vogliamo capire nulla? con la pazienza che hanno i bambini quando vogliono farsi capire dagli adulti ha messo anche un cartello con la scritta: DROGA. Da questo particolare si potrebbe partire per comprendere come sia inadeguata un'educazione che pretende di convincere i bambini che il mondo che abiteranno se seguiranno alla lettera le indicazioni degli adulti sarà bello, giusto, e facile da comprendere: lo sporco amato dal principe animale è la consuetudine con gli aspetti oscuri, magmatici, ambigui, violenti, della nostra natura. Ignorandoli o negandone l'esistenza non c'è crescita possibile, perché ci costituiscono insieme alle aspirazioni più nobili. Il bambino che ha disegnato un cumulo di spazzatura, rifiuti, ha trovato una rappresentazione per la droga, di cui sente spesso parlare: nella fiaba c'è spazio per raccontarla, in un tessuto narrativo che ne prevede l'elaborazione. Questo bambino, come tutti i bambini, anche se non riescono a dircelo, sa in qualche modo che per crescere avrà bisogno di qualcosa che gli educatori non gli danno, sente che la vita può avere il sapore di un'avventura meravigliosa, ma anche manifestarsi come una tragedia mortale, per quanto glielo nascondiamo, illudendolo che andrà tutto bene, come se vivere la sessualità o elaborare le pulsioni aggressive potesse essere semplice e non implicare molta sofferenza. Leggiamo in Freud:

Che l'educazione odierna nasconda al giovanetto l'importanza che avrà nella sua vita la sessualità non è l'unico rimprovero che si deve rivolgerle. Essa pecca anche nel non prepararlo alle aggressioni di cui è destinato a diventare l'oggetto. Introducendo la gioventù nella vita con un atteggiamento così sbagliato, l'educazione si comporta come se si equipaggiassero di vestiti da estate e di carte dei laghi italiani persone che partono per una spedizione polare. (1929, Il disagio nella civiltà; trad. it. Opere, vol. X, Boringhieri, Torino 1978; p. 620, n. 1)

Per quanto Freud si facesse ben poche illusioni, forse non avrebbe immaginato che la nostra impostazione educativa sarebbe rimasta, settanta anni dopo, altrettanto ottusa rispetto alla necessità di offrire ai bambini e ai ragazzi occasioni e strumenti per comprendere la complessità della propria mente e per affrontare la drammaticità dell'esistenza. Ma torniamo ai bambini per consolarci, osservando quanto, nonostante noi, riescano ad elaborare: se lo facciamo riusciremo a rinunciare a concezioni della crescita che pretendono di misurarla e definirla con sicurezza. La vaghezza sarà allora sia bellezza che incertezza, un'incertezza feconda.
Un bambino di quinta elementare disegna una camera regale che, come tante altre, per i comodini e l'armadio a quattro stagioni, sembra proprio la camera di tutti i genitori, e nel lettone è sdraiata la sposa, che, vestita un po' come una contadina, invita il principe dicendo nel fumetto:

Amore mio sdraiati vicino a me

E lui, che è proprio un porcello, per quanto incoronato, si alza sulle zampe posteriori e dice:

Puu! Puu! mia dolcezza

Nel disegno di un'alunna di seconda media il porco le svela il suo segreto, col solito fumetto, manifestando un'altra valenza della coppia d'opposti animale e umano, sporco e pulito, brutto e bello:

Io non sono un porco ma sono un ragazzo educato

L'animalità nella stessa fiaba viene anche rifiutata, come dal padre quando sta per buttare al mare il neonato porcino, perché è davvero repellente. Se pensiamo al film disneyano in cui la Bestia incontra la Bella, dobbiamo ammettere che si tratta di un personaggio poco repellente e per nulla perturbante. Mentre un bambino di terza elementare è consapevole della vera difficoltà ad accogliere questa dimensione, ben presente nelle fiabe antiche, e racconta a suo modo del principe porco che andò dalla madre a chiederle di procurargli una sposa, e appena entrato a palazzo:

...perse tutto il letame dietro di sé

Con quella specie di disgustosa incontinenza il principe animale difficilmente sarebbe riuscito a sposarsi, e la madre non sembra proprio incoraggiante:

...la regina rispose che il porco era stupido e che nessuno volesse sposarlo perché era sudicio sporco e puzzolente.

Alla non accettazione delle prime due spose, che nascondono un pugnale sotto il cuscino per farlo fuori, corrisponde la violenza della bestia, che le trafigge con le zanne. Su questo punto i bambini mi hanno fornito moltissime rappresentazioni della possibile equivalenza tra l'azione di penetrare sessualmente e di uccidere: le spose giacciono sul lettone a pancia in su, prima o dopo l'atto violento, con ferite sanguinanti che per la loro ubicazione, al petto o nell'area genitale, non lasciano dubbi, come non lasciano dubbi le braccia aperte e l'abbandono a volte rappresentato anche sul volto, e in qualche caso tutt'altro che sofferente. Il porco, grosso e ghignante, o minuscolo e spaurito, trionfante o semplicemente soddisfatto, guarda il corpo femminile che sta per trafiggere o che ha appena trafitto brandendo un pugnale, una spada, un oggetto comunque che non lascia dubbi sul suo significato simbolico.
Così in un disegno il porco, colorato di un bel rosa acceso, dice nel fumetto:

GRU! GRU! GRU!

E la sposa si illude di evitarne l'animalità rivolgendogli contro l'arma nascosta:
ADESSO LO MMAZZO! EH, EH!!!

Oppure, quando lui si avvicina al solito lettone, gli dice senza tanti complimenti:

... la regina rispose che il porco era stupido e che nessuno volesse sposarlo perché era sudicio sporco e puzzolente.
sei troppo pusolente.

È solo l'accoglienza della parte animale, raccontano i bambini come gli antichi narratori, che permette la trasformazione della violenza sadica e masochistica in un abbraccio umanizzante. Così la terza moglie, che non porta il pugnale per uccidere la bestia, può anche non essere proprio tranquilla, come racconta una bambina di terza elementare:

Alla prima notte lei aveva paura ma quando arrivò si scrollò di dosso la pelle e venne fuori un bellissimo fanciulo

Difficile immaginare un desiderio di tenerezza materna, proiettato nella futura sposa, più eloquente di questo, espresso da un bambino della stessa età:

Ma però quando il porco andava a letto Rosa bianca lo copriva.

Se il miracolo dell'incontro accade, l'umanizzazione, la trasformazione della bestia, viene con magica facilità, come sanno questi bambini delle elementari:

...e così il Porco si levò le pelli lerce e diventò un bellissimo principe

... alla notte, all'ora dell'ultimo sonno, Principe Porco si toglieva la cotica

... la sposa Rosabianca rimase sorpresa dalla belezza del Re Porco e infilandosi sotto le coperte la Regina Rosabianca lo abbracciò con amore

Inizialmente solo la sposa Rosabianca assiste alla trasformazione, e il principe torna porco al mattino, fino a che, dopo la nascita di un bellissimo erede, le sembra giusto invitare il re e la regina a vedere come il loro figlio sia uno splendido principe. Guardando un disegno non riuscivo a capire perché il bambino avesse rappresentato la coppia genitoriale come ladri che con due grosse pile dirigevano i coni di luce sul letto dove dormivano il loro figlio e Rosabianca. Nella camera c'è fra l'altro un appendiabiti delizioso, al quale sono appesi, come capita, jeans, camicie, manti guarniti di ermellino, e le due principesche corone. Finalmente capii: nella fiaba letta dall'insegnante si racconta che il re e la regina accesero le torce e entrarono nella camera del figlio, e il bambino, conoscendo le torce solo come pile, le aveva disegnate. Il re e la regina gioiranno della trasformazione arrivando in punta di piedi, furtivi come ladri, ma efficacissimi.
La sostanza non cambia se varia un po' il nome della protagonista, cosa che capita normalmente nelle fiabe, e la grazia espressiva non soffre se la sintassi e l'ortografia sono un po' imperfette:

Rosa bella disse con la Regina e il Re che Re porco di notte si togliesse la pelle sporta di letame e se la togliesse per andare a letto. Il Re e la Regina con il lumino e andarono a vedere e videro che la pelle di letame sul pavimento.

Se subito correggessimo sporta con sporca, insieme alla imperfezione se ne andrebbe la vaghezza che ci consente di fantasticare un'ipotesi interpretativa: l'animale è un contenitore di sporco, e quindi la sua pelle è una sporta di letame, come è sporca di letame. Così è la fiaba, come ogni narrazione imperniata sui simboli: pur avendo una forma definita, che sia un testo stampato o una versione tramandata in un gruppo, il suo contatto con la vaghezza è tale che nell'intimità di chi la racconta e di chi l'ascolta subito attiva questa vaghezza, favorendo la rinarrazione, le varianti, gli arricchimenti, e quindi le trasformazioni del testo.
Il re e la regina al lume delle torce, o delle pile, trovano la pelle porcina, o cotica, sul pavimento, e dopo averla fatta distruggere abdicano e sale al trono re Porco, che regna per sempre felice con Rosabianca, nella pace e nella prosperità generale.
Che bellezza diventare re, signori del proprio spazio e del proprio tempo, vivere una lunga armonia tra le proprie parti, quelle più umili rappresentate dal popolo e quelle più alte rappresentate dai sovrani! lasciando fluire questi pensieri un bambino ha trovato un nuovo aggettivo, e così sappiamo che il Porco fu ...un re virturioso. Anche la folla festante diventa qualcosa di diverso e molto evocativo nel finale di questa bambina:

...al mattino dopo fece sedere sul trono il Principe che nominò Re Porco davanti alla folla clamorosa.


[La parte seguente è inedita]

3. Note psicoanalitiche per insegnanti

Lavorando nella scuola mi incontro regolarmente con la richiesta da parte degli insegnanti e dei genitori di confermare le loro opinioni sui disagio o sulla buona salute psichica di qualche bambino. Mi scontro con un vizio, che fa considerare tutti gli psico-qualche-cosa come specialisti che forniscono il loro autorevole avallo a giudizi altrui, o indicano soluzioni prive di dubbi. Capisco che il disagio induca angoscia negli educatori, e che per questo prenda quasi sempre forma una specie di fuga dalla verità: l'educatore ha imparato a parlare di carenze affettive ma non sa nulla della sua propria ambivalenza affettiva. Termini come questi, di conio psicoanalitico, sono entrati in ambito educativo, ma vi circolano come monete false, tanto che si parla oggi di un bambino che ha carenze affettive per giustificare la sua marginalità nel processo di apprendimento come alcuni decenni fa si parlava dell'inferiorità socio-economica della sua famiglia. Gli insegnanti credono di manifestare buona volontà se lamentano la loro impreparazione riguardo al simbolismo delle fiabe, che i bambini presentano nei disegni, ma in realtà, se si limitano a questo, dichiarano semplicemente che non è affar loro comprenderli: non sono specialisti. Quelli che prendono sul serio se stessi e i bambini fanno piuttosto attenzione a come tutti si esprimono con entusiasmo dopo aver ascoltato la fiaba, in particolare gli alunni che di solito sono più svogliati e distratti. Scoprono che avere un buon livello di linguaggio in relazione alle classificazioni vigenti a scuola non significa sapersi esprimere, e vedono bene che la grammatica formale non coincide con la grammatica dei sentimenti: ci sono troppi bambini che si ritraggono dall'apprendimento scolastico perché il loro modo di esprimersi viene dichiarato sbagliato, perché ne soffrono come un amante che alla sua dichiarazione d'amore si senta rispondere anzitutto con la correzione di una forma verbale. Trovando uno spazio più adatto nell'ascoltare una fiaba antica, che parla, come quasi tutti i bambini sanno, a differenza degli adulti, del gioco affettivo, proprio i meno bravi disegnano e scrivono senza risparmiarsi.
Lo sa bene l'insegnante di matematica e scienze di una scuola media toscana, che durante un incontro di aggiornamento in cui avevo chiesto se ricordavano apprendimenti improvvisi e sorprendenti, mi raccontò di Eratostene. Voleva spiegare non so cosa sugli angoli, alla fine di una lezione aveva detto ai suoi alunni di fare, chi lo volesse, una ricerca su Eratostene, e siccome l'aveva fatta anche un bambino del gruppo dei meno bravi, lo aveva invitato ad esporre il suo lavoro. Lei e tutta la classe erano rimasti senza parole sentendo l'ampiezza e la precisione del bambino, che non solo esponeva ampiamente la storia di Eratostene, che per primo ha scoperto un certo metodo di misurazione della terra, ma anticipava quei collegamenti con la geometria già spiegata in classe che l'insegnante voleva proporre. Per questo exploit, al quale era seguito un bel miglioramento nel suo interesse per le lezioni e nel suo profitto, il bambino era stato soprannominato Eratostene. È sempre rischioso ipotizzare il gioco psichico che rende conto di questi miracoli, ma è giusto comprendere che spesso consideriamo miracoloso ciò che non riusciamo a spiegare: la psicoanalisi, a partire dalla paralisi di Elisabeth von R. curata da Freud, è una scienza in quanto riesce a dar conto con chiarezza di trasformazioni negative o positive che per le altre scienze sono incomprensibili. Tornando all'insegnante di Eratostene, dissi agli insegnanti quale poteva essere l'interpretazione di quel sorprendente miglioramento nel rendimento del bambino. Nella pubertà un bambino deve definire i propri genitori per crescere, in questo caso la possibilità di misurare con una geniale invenzione la terra poteva aver significato per il bambino una nuova possibilità simbolica di conoscere, misurare, contenere, una madre altrimenti avvertita come caotica, troppo grande. L'insegnante di scienze guardandomi come se avessi avuto la palla di cristallo, disse che il bambino aveva in effetti problemi di anoressia.
Sull'anoressia mi pongono spesso domande, sia perché è una patologia molto presente, sia perché la sua esistenza stessa è paradossale: come si spiega che un bambino, o, più spesso, una bambina, una ragazzina, non senta fame? perché? Noi fuggiamo dalla verità quando ne attribuiamo la causa alla moda che propone un'ideale di magrezza, mentre l'ideale estetico è una delle articolazioni del discorso anoressico, non la sua ragione profonda. Ed è così tragica la stretta fra l'amore e l'odio, con la madre, con la vita, con il proprio stesso corpo, che le buone intenzioni del nutrimento forzato o dei suggerimenti estetici o moralistici non hanno nessuna efficacia, e talora fanno danni.
Chi vuole saperne di psicoanalisi può trovare facilmente libri e corsi dove cominciare ad apprendere, come può andare da un analista e iniziare un percorso di conoscenza di sé: ma nella questione della scuola sarebbe sufficiente che gli insegnanti si aprissero alla vaghezza dell'espressione, che ascoltassero prima di correggere, che non dividessero la classe, secondo manie fobico-ossessive al servizio di miopi canoni socioculturali, la  in bravi e non bravi, dotati e non dotati. Basterebbe che sapessero qualcosa di psicoanalisi, per capire le fiabe, che come i sogni sono semplicemente figure veritiere della psiche o anima, e metterebbero in gioco questa comprensione quando sono in classe. Allora, senza nulla togliere all'efficacia dell'apprendimento, l'aula potrebbe trasformarsi, apparentemente per una magia, in uno spazio concreto concesso alla complessità dell'anima, in un contenitore dove i bambini possono crescere, e non solo accettare di essere più o meno utilmente ammaestrati.
Nell'ultimo incontro di Longiano io e gli insegnanti, che avevano già ampiamente sperimentato il racconto della fiaba in classe, procedevamo su toni di questo tipo, auspicando che il nostro lavoro continuasse, e questo purtroppo non è stato possibile. Ma so che si sono accorte della propria capacità di vedere ciò che prima consideravano insignificante, e forse proprio in questo momento una di loro sta ascoltando con gioia l'espressione virturiosa di un bambino, che applicando le regole dovrebbe rendere virtuosa prima di averne compreso il senso.
Gli insegnanti di Longiano portavano a quell'ultimo incontro la percezione di questa complessità come di una ricchezza espressiva da non eludere. Per nutrire la loro nuova attenzione proposi un piccolo fenomeno quotidiano e comune a tutti, considerato normale, non perturbante: le fobie alimentari. Non conosco una sola persona che mangi tutto, c'è chi seziona la carne nel piatto per non trovarsi in bocca le parti grasse o callose, chi non assaggerebbe mai un'ostrica, chi trova ripugnanti le rane, ci sono coloro che trovano disgustoso mangiare la trippa, o bere il latte se non è macchiato dal caffè, c'è chi non mangia nulla che sia verde: più o meno estesa, almeno una fobia alimentare è presente in ciascuno di noi, così come in ogni cultura c'è una separazione, nell'insieme delle cose oggettivamente commestibili, tra alimenti leciti, buoni, e alimenti proibiti, ripugnanti. Non avevo nessuna intenzione di interpretare il senso di queste separazioni, mi bastava mostrare che ogni persona per nutrirsi deve separare dall'insieme dei cibi considerati buoni almeno una cosa che, anche se altri la mangiano con piacere, le provoca una specie di fastidio, di ripugnanza, di disgusto. Mi limitai a spiegare che il cibo è una rappresentazione della madre, e per questo abbiamo bisogno di distinguere, secondo molteplici criteri, individuali e collettivi, il cibo buono dal cibo cattivo. Le separazioni meno giustificabili in senso oggettivo rappresentano la possibilità di controllare a livello immaginario, quasi simbolico, un terrore inconscio di mangiare qualcosa che potrebbe avvelenarci, o qualcosa di proibito, tabù, come la carne di maiale per i musulmani e gli ebrei.
Proprio perché appare immotivata alla coscienza, la fobia nel gioco della mente realizza una strategia, uno stratagemma, che, con una fatica e una rinuncia minime, protegge da un'angoscia, come quella di incorporare qualcosa di pericoloso. L'oscura consapevolezza di questo senso presente nelle piccole fobie alimentari fa sì che i genitori normalmente le rispettino, e spesso rimangono costanti per tutta la vita. Oppure scompaiono, o si trasformano, in momenti di crescita, mentre si trasformano con noi le nostre strategie per contenere l'angoscia.
A questo piccolo discorso comune sulle fobie seguì una breve pausa, e un'insegnante di scuola elementare mi mostrò un libro tutto realizzato dai suoi bambini: appena lo aprii mi parve così bello che decisi di dedicare a questo il finale di quell'ultimo incontro.
Credo che un insegnante degno di questo nome, se ha occasione di esplorare il panorama concettuale della psicoanalisi, non sia portata a considerarla estranea, intravedendo piuttosto la possibilità di trovarvi nomi utili per descrivere esperienze e fenomeni che ha già osservato.
Il tunnel sottomarino è un libro pop-up realizzato da due terze elementari in un anno di incontri settimanali, e tutti i bambini sono stati veramente artefici e realizzatori della fiaba. Sono certa che è così per più motivi: il primo è che, oltre ai rari grandi poeti, solo i bambini, purché sia dato loro modo di esprimersi, trovano soluzioni narrative e figure simboliche ricche, tanto nuove quanto legate alla tradizione. Il secondo è che occorre un gruppo al lavoro per realizzare l'equilibrio e la sapienza psicologica che caratterizza le fiabe tradizionali, nelle quali il lieto fine non è una idealizzazione o una forzatura moralistica, ma il risultato di una trasformazione e di una crescita che richiede lo scambio e il confronto fra molti. Che l'insegnante li abbia seguiti stimolandoli ad esprimersi senza forzarli moralisticamente si può dedurre anche dalla rappresentazione degli adulti, che appaiono decisamente negativi. Quando l'artefice della trama è adulto, non può rinunciare ad almeno un personaggio adulto positivo, mentre questi bambini sembrano mettere il dito nella piaga della nostra inadeguatezza.
Riporterò ora integralmente il testo del libro.

4. Il tunnel sottomarino

In un'isola in mezzo all'oceano sorgeva un castello abitato da un re e una regina malvagi. Essi, con l'aiuto di un mago, avevano costruito un tunnel che collegava l'isola ad un bosco. Nel bosco vivevano degli animali mostruosi, ma buoni, che erano accuditi da alcuni gnomi. Il re e la regina catturavano i mostri per collezionarli e anche per venderli.
Il mago in testa aveva un cappello lungo e blu con tante stelline. I capelli erano fatti di alghe verdi e gli occhi erano rossi e rotondi. La barba era grigia e lunga con delle alghe e dei pesciolini vivi o morti impigliati. Indossava una tunica blu e in mano teneva una bacchetta magica tutta gialla.
La regina si chiamava Anita: era bella, con i capelli castani legati da una fascia con al centro un diamante azzurro. Intorno al suo collo splendeva una collana di perle che le illuminava il viso in cui brillavano due occhi scuri e malvagi; indossava un vestito lungo, giallo e verde. Il re in testa portava una corona d'oro, i suoi capelli erano castani e contrastavano con una lunga barba grigia che scendeva fino ad arrivare alla cintura. I suoi occhi erano azzurri, il naso lungo e appuntito, la sua bocca non sorrideva mai. Era cattivo e si sentiva solo.
I mostri erano veramente brutti a guardarli: il loro muso era di diversi colori, tutto scombinato. Infatti il naso era al posto dell'occhio, la bocca al posto dell'altro occhio. Avevano mani lunghe con unghie grigie, oppure cortissime ed attaccate al tronco. Il re e la regina avevano un figlio bello e gentile; poiché egli non era d'accordo col progetto dei suoi genitori riguardo agli animali del bosco, essi l'avevano rinchiuso nel castello della torre da ben 13 anni all'età di 7 anni. Ora era cresciuto e gli abiti erano diventati troppo piccoli per lui. Era molto bello e forte; aveva due splendidi occhi azzurri, la carnagione rosea e i capelli biondi e ricciuti.
Un giorno il re, dopo avergli portato a mangiare come di consueto, si dimenticò di chiudere la porta. Il principe allora uscì dal castello e passò dal tunnel sotterraneo arrivando nel bosco. Per sfuggire ai genitori ed al mago che stavano cercandolo, si rifugiò in un albero cavo e vi trascorse la notte. Al mattino si svegliò col canto degli uccelli, si guardò intorno e vide degli stivali magici grandi e gialli che gli gnomi avevano portato per aiutarlo.
Li calzò e si sentì invincibile. Decise di ritornare al castello per liberare i mostri e per sconfiggere il mago che, con le sue magie, aiutava il re e la regina nelle loro cattive imprese. Arrivato al castello superò con un balzo due terribili piante carnivore che facevano la guardia alla fine del tunnel. Incontrò il mago che lo riconobbe subito e che cercò di ucciderlo con una scarica elettrica. Il principe alzò gli stivali, la scarica tornò indietro e polverizzò completamente l'avversario. Entrò nel castello e con una robusta corda legò i suoi genitori e li portò nella torre più alta che era stata la sua prigione per tanti anni.
Prese le chiavi che chiudevano le gabbie dei mostri e li liberò; attraversò il tunnel riportò gli animali nel bosco e tutti furono festeggiati dagli gnomi che cominciarono a ballare e a fare capriole dalla gioia. Ad un tratto il principe sentì una vocina che chiedeva aiuto: alzò gli stivali magici ed un mostro si trasformò in una bellissima fanciulla dai capelli biondi. Il principe se ne innamorò, la prese per mano e la portò al castello, fino alla torre dove aveva rinchiuso i suoi genitori. Fece capire loro gli sbagli che avevano commesso ed essi promisero che non avrebbero fatto più del male a nessuno, neppure agli animali mostruosi che in realtà possedevano una qualità meravigliosa: la bontà. Il re e la regina, dopo la morte del mago cattivo, si erano come risvegliati da un brutto sogno. Infatti essi non erano malvagi ed avevano agito sempre sotto l'influsso del mago dai capelli verdi che odiava tutte le creature della terra e voleva diventare il padrone del mondo. Al castello si celebrarono le nozze fra il principe e la bellissima fanciulla; furono invitati gli gnomi e gli animali del bosco che per l'occasione fecero il bagno nel mare e si presentarono agli sposi con dei colori brillanti, mai visti prima. Formarono un grande cerchio dandosi la mano, luminoso e bello come l'arcobaleno; circondarono il principe e la principessa e tutti insieme si sollevarono nel cielo fino a toccare le nuvole. Poi atterrarono in mezzo a tanta allegria e da quel giorno vissero tutti felici e contenti.

La mia lettura psicoanalitica, come quella che avevo proposto alle insegnanti di Longiano, non tende in alcun modo a svelare elementi di disagio individuale: l'uso diagnostico dei disegni o dei testi deve essere limitato all'ambito del lavoro analitico, che è possibile solo quando ci sia una richiesta d'intervento del soggetto. In ambito educativo la psicoanalisi ha il suo senso più fecondo se favorisce l'attenzione e l'accoglimento della ricchezza espressiva, perché sia compresa l'importanza del gioco affettivo nella crescita del soggetto come nei processi di apprendimento. La mia ipotesi di interpretazione ha senso come esercizio per lo sguardo dell'educatore che intenda avvalersi della psicoanalisi per ascoltare e capire i bambini, e si limita ad alcuni degli oggetti interessanti che il testo presenta.
L'isola in mezzo al mare potrebbe essere intesa come un nucleo familiare il cui equilibrio è fondato sulla chiusura. Può permanere a patto di negare lo scambio con l'esterno, e per farlo la coppia genitoriale deve farsi guidare dal mago, una sorta di super-esperto con l'aiuto del quale costruisce il tunnel sottomarino, la sola via di scambio con l'altra terra. Ma ciò che è fuori dall'isola si manifesta come animale e deforme, da imprigionare o da vendere, e in questa condizione, che ci ricorda le ideologie del colonialismo e del razzismo, l'educazione si rappresenta come imprigionamento. L'ordine degli adulti che si sono isolati impedisce il riconoscimento del diverso, dell'estraneo, e quindi anche l'accoglimento della diversità, della specificità nuova di cui ogni bambino è portatore. L'istanza particolare del bambino viene trattata come gli animali deformi, imprigionata. L'insegnante ci disse che i bambini discutevano a lungo la scelta dei colori, degli aggettivi, e in genere di ogni particolare, fino a che non trovavano una soluzione soddisfacente: la regina aveva gli occhi scuri e malvagi, il re era cattivo e si sentiva solo. Questa solitudine di cui patisce il re è l'unica connotazione umana positiva della coppia genitoriale, un difetto nell'ordine rigido rappresentato, che, se non basta perché il sovrano si opponga al mago, è però sufficiente a distrarlo: solo grazie al lapsus del padre il principe può iniziare il suo cammino verso la liberazione. Si noti che è il re, la figura paterna, e non la regina, a portare da mangiare al figlio prigioniero. Anche sulla durata della prigionia i bambini avevano discusso a lungo, ma non per perdere tempo, come poteva sembrare: sette e tredici sono numeri significativi, ricorrenti nelle storie magiche, e sommandosi formano un numero tondo, come un'età completa nella quale la maturità può manifestarsi. A sette anni poi i bambini entrano appieno nel gioco istituzionale, e avendo allargato le loro relazioni affettive dalla famiglia al gruppo sociale della scuola manifestano pensieri diversi da quelli limitati al mondo dei genitori.
Nel descrivere il giovane principe i bambini gli attribuiscono una sola somiglianza con la coppia genitoriale: gli occhi azzurri come quelli del padre che lo nutre e che si distrae, liberandolo. È interessante il particolare degli abiti, che rappresentano l'identità, che con la crescita gli è diventata piccola, stretta. L'identità data dai genitori, rimasta immutata nella prigionia, si evidenzia come inadeguata sul corpo che comunque è cresciuto. Il percorso di uscita, attraversò il tunnel sotterraneo, simbolizza una seconda nascita, e nascendo come soggetto adulto il principe può trovare nel bosco una figura positiva della madre, l'albero cavo, che lo ospita senza imprigionarlo. Gli gnomi che si prendono cura degli animali o del mondo sotterraneo, come i sette nani di Biancaneve, sono figure spesso soccorrevoli nella tradizione narrativa, capaci di mediare tra il mondo civilizzato e il mondo selvaggio. Dopo che la nuova nascita ha reso fruibile l'albero cavo, rende accessibile una potenza maschile, quella degli stivali magici, gli stessi che consentivano di fare sette leghe con un passo a Pollicino. Trovare scarpe adatte al proprio piede, che conferiscono sicurezza e rapidità al movimento, simbolizza anche la maturità sessuale, aspetto non secondario nella crescita. Calzando gli stivali magici il principe si sente invincibile, e quindi in grado di affrontare e trasformare i fantasmi negativi delle figure genitoriali. Il mago richiama l'onnipotenza del controllo, la sapienza antica che si contrappone al giovane, impegnandolo in un combattimento vitale. Il giovane principe diventerà guida del suo mondo affrontando e abbattendo l'antica guida, con la quale condivide le prerogative magiche. Grazie agli stivali magici il principe aveva superato anche le piante carnivore, che in un disegno sono verdi e hanno una gigantesca bocca dentata: il soggetto affronta e vince l'angoscia legata al fantasma divorante del materno e del femminile in genere. La rappresentazione del femminile vorace, reinfetante, fatale, è una figura ineludibile nella crescita: per fortuna si può trovare un albero cavo, un re che lascia una via d'uscita, e poi la potenza vitale e attiva dei piedi ben calzati.
Il mago riconosce nel principe il proprio avversario e cerca di ucciderlo con una scarica che potrebbe ricordarci anche l'elettroshock, ma qui vale come potenza distruttiva invisibile, impossibile da combattere se non con la potenza conferita dagli stivali magici, che il principe brandisce alzandoli, con un gesto di cui è difficile contestare il simbolismo sessuale. Ciò che prima era temuto come letale, il mago come parte onnipotente della figura paterna, può essere affrontato quando il soggetto dispone della propria potenza, e non teme di usarla. Ucciso il mago, la coppia genitoriale, pur restando abbastanza malvagia da dover essere imprigionata al posto del principe nella torre, è affrancata dall'onnipotenza, ed è quindi possibile che avvenga una trasformazione.
Ma prima vengono liberati i mostri e gli animali, e tra questi, nel bosco, una figura femminile nuova geme, vuole nascere: il principe che è nato attraversando il tunnel la fa venire alla luce in forma umana, grazie alla magia di cui dispone. Nella fiaba la magia imprime alla trasformazione un ritmo prodigioso, che rappresenta l'effetto della parola vera nel soggetto. Il principe costituisce una nuova coppia col femminile umanizzato, e come da solo aveva distrutto il mago, con la principessa accanto può trasformare la coppia genitoriale, che sembra svegliarsi da un sogno cattivo. Da una parte c'è la gioia degli abitanti del bosco, dall'altra la promessa del re e della regina, esautorati, perché la crescita del nuovo soggetto instaura un nuovo regno. E quando finalmente promettono che non perseguiteranno più nemmeno gli esseri mostruosi, la storia dice chiaramente qual era il pregio delle figure informi, non ancora umane, che non potevano venire alla luce, che non avevano accesso alla coscienza: in realtà possedevano una qualità meravigliosa: la bontà.
Si esplicita a questo punto anche l'onnipotenza del mago, quando viene detto che, con i suoi disumani capelli verdi, e la sua barba dove impigliava elementi germinali, pesciolini, vivi e morti, voleva diventare il padrone del mondo, come tanti antagonisti di storie e film, anche per adulti.
Con le nozze felici del principe e della principessa gli abitanti del bosco si immergono nel mare, in un bagno che vale come un battesimo, dopo il quale diventano vividi i loro colori. Le risorse degli esseri fino ad allora esclusi dalla coscienza sono ora disponibili, e il finale rappresenta un sogno di creatività gioiosa. Tutti sono invitati, e formano un cerchio intorno alla nuova coppia regale, e nella compiuta armonia che realizzano, con la ricchezza di tutti i colori dell'iride, è possibile salire in alto, fino a toccare le nuvole. Per tornare alla terra, al luogo dell'uomo, che, una volta bonificato, è così bello da abitare.

5. Approfondimento

Se la mia ipotesi interpretativa può indicare in questa fiaba dei bambini una rappresentazione della loro difficoltà a crescere e del cattivo lavoro degli adulti, corriamo il rischio che ha fatto naufragare l'antipsichiatria, quando, per rendere dignità umana al paziente schizofrenico, ha criminalizzato la famiglia, la madre in prticolare. Immaginare che in un gioco di relazione da una parte ci siano i buoni e dall'altra i cattivi è il miglior modo per fuggire dalla verità: i bambini hanno bisogno di noi come noi abbiamo bisogno dei bambini. Idealizzandoli come buoni e innocenti perderemmo ogni possibilità di comprendere gli strumenti che la psicoanalisi può offrire agli educatori. Per la psicoanalisi la fiaba, come il mito, come il sogno notturno, non rappresenta il soggetto in relazione alle persone reali della sua vita, come i genitori. Queste forme espressive, centrate sui valori simbolici, raccontano la storia del soggetto come protagonista, attante, che cerca e indaga e agisce, della sua coscienza, si potrebbe dire, e delle sue proprie figure intrapsichiche, che possono richiamare la madre o il padre, e prenderne le sembianze, ma per significare la funzione che assolvono all'interno della personalità. Il bambino attribuisce l'onnipotenza e il controllo crudele alle figure genitoriali, ma si tratta di lui, della sua cieca volontà di dominare gli altri e di asservirli, che è tanto più presente quanto più soffre per la sua impotenza, con la quale si scontra quotidianamente, perché è piccolo, perché è chiuso fuori dalla camera dei genitori, perché ci sono troppe cose che non capisce della vita ed è terribilmente impaziente.
In questo senso quando si parla di funzione paterna e di funzione materna, non ci si riferisce né al padre e alla madre concreti, e nemmeno a connotazioni necessariamente appartenenti a un sesso anziché all'altro. Un padre che allatta il neonato col biberon assolve indubbiamente una funzione materna, come una madre che trasmette al figlio un vero rispetto per la legge esprime una funzione paterna.
Non solo quando sta crescendo fisicamente, ma per tutta la vita l'essere umano deve incontrare e a volte trasformare il diverso, la bestia, ciò che si presenta deforme, e se è vero che deve trovare delle guide e degli esempi, è altrettanto vero che buona parte del percorso dovrà affrontarla solo, nella propria intimità.
Se l'isola della nostra fiaba può rappresentare la famiglia come viene percepita dal soggetto, può essere interpretata come assetto della coscienza, secondo una metafora che ricorre in psicoanalisi. L'isola è dominata dalle figure genitoriali che l'onnipotenza del bambino stesso, personificata dal mago, rende ostili e inaccessibili. A causa della proiezione della sua onnipotenza sui genitori il bambino si trova imprigionato, e il cibo che gli viene portato dopo i sette anni non è il nutrimento primario, che è materno, ma il nutrimento simbolico, che lo mette in rapporto col linguaggio comune a tutti, legato alla funzione paterna.
Gli esseri animaleschi e mostruosi che vivono nel bosco possono essere compresi come oggetti creativi che i genitori controllano essendo adulti, e l'invidia del soggetto glieli fa pensare come oggetti vitali aggrediti dall'onnipotenza. Ma come sono temute e aggredite in quanto proprietà esclusive dei genitori, le creature potenziali del bosco sono desiderate, perché solo permettendo che vengano alla luce il controllo onnipotente cesserà, e al posto della sterilità e dell'assetto rigido scorrerà la vita. Dalla torre in cui è prigioniero, il principe domina anche la scena, proiettando la sua distruttività sui genitori, che sono comunque re e regina: cattivi, ma belli e potenti, con i segni della ricchezza simbolica nell'oro e nelle gemme che indossano. La solitudine del re padre si rivela a questo punto come un penoso isolamento della funzione paterna positiva, la sola che può aprire al mondo. 
È questa funzione che fa allentare il controllo, e la prigione casualmente e fortunatamente aperta rende possibile la nuova nascita e la crescita. Il mago dalla barba verde, apparentato al pescatore che voleva friggere Pinocchio, va abbandonato per incontrare gli esseri viventi del bosco, gli elementi creativi di cui ha bisogno il bambino per crescere. I mostriciattoli del bosco sono tratti dalla contemporaneità: nei disegni compaiono, ricordando nell'insieme i mutanti della fantascienza; c'è fra gli altri una specie di Incredibile Hulk, un marziano, e anche un disastrato cantante con la scritta RAP. Ma per le figure magiche, il cui intervento è determinante, sia perché si prendono cura di questi esseri disgraziati, sia perché attendono il principe per fornirlo dell'oggetto magico, i bambini hanno preferito gli gnomi, che appartengono a una tradizione antica. I simboli più rassicuranti, senza i quali la trasformazione non avviene, sono quelli che ci legano a un'antica tradizione, che per ogni essere umano può rifiorire. Gli gnomi sono fuori dal conflitto con le figure genitoriali, perché il loro tempo è diverso da quello degli esseri umani, e perché sono adulti e bambini allo stesso tempo. Potenti ma separati dall'uomo, proprio per questo possono fornirgli un aiuto indispensabile, come i demoni o le divinità locali, restando sempre ad abitare l'immaginario e il fantastico, senza mai invadere lo spazio comune a tutti.
Quando il soggetto supera l'invidia verso la coppia genitoriale, che lo imprigionava, può sconfiggere il mago, ovvero rinunciare alla sua propria onnipotenza, grazie alla potenza vitale degli stivali delle sette leghe. Al desiderio del bambino/mago/onnipotente, di dominare il mondo, subentra il desiderio di regnare come coppia. Quando questa trasformazione si compie, cosa abbastanza rara, ci si può alzare fino alle nuvole, per poi tornare sulla terra e vivere in armonia, godendo della molteplice e variegata ricchezza della vita.
Molte altre cose si potrebbero dire su questa fiaba, e molte altre interpretazioni sarebbero possibili, ma in nessun caso un'interpretazione può esaurire il senso di una struttura simbolica, come la fiaba di magia, come il sogno.
Il mio obiettivo a Longiano è che un messaggio almeno sia ascoltato e ricordato dall'educatore, di questi suggeriti dal Tunnel sottomarino: non servono a crescere storielle edificanti e moralistiche, dove tutti sono belli e buoni, come se i problemi e i conflitti dipendessero solo da equivoci o incomprensioni temporanee. I bambini sanno, come noi, che la vita è molto difficile, e come il bosco contiene elementi minacciosi, mostruosi, mescolati a elementi creativi e ricchi di colori scintillanti. Il porco è un re virturioso, ciò che rischia uccide può trasformarsi in amore, e i genitori che imprigionano sono anche i genitori che permettono che giunga il tempo per nascere come adulti.
Ogni bambino andrà comunque nel bosco per crescere, come ci siamo andati noi, che lo ricordiamo o no, consapevolmente o inconsapevolmente. La psicoanalisi non serve né a evitare il percorso, né a renderlo facile. Ma saper ascoltare i bambini e rendersi conto di cosa stanno vivendo può fare la differenza necessaria perché trovino un albero cavo in cui ripararsi o perché al momento giusto la porta resti aperta.
Per concludere vorrei copiare la soluzione dei bambini di Savignano, che hanno attinto alla tradizione:

Stretta la foglia, larga è la via
dite la vostra, che ho detto la mia.

Ma al finale classico mi piace aggiungere una cosa scritta dal fisiologo J. Von Uexküll, che è stata ripresa da un altro scienziato, il matematico René Thom:

Il meccanismo di qualunque macchina, come un orologio, è sempre costruito in maniera centripeta, nel senso che tutte le parti dell'orologio - sfere, molle, ruote - devono dapprima esser finite per essere in seguito montate su un supporto comune.
Al contrario, la crescita di un animale, come il tritone, è sempre organizzata in maniera centrifuga a partire dal suo embrione; dapprima gastrula, si arricchisce poi di nuove gemme che si evolvono in organi differenziati.
Nei due casi, esiste un piano di costruzione; nell'orologio, domina un processo centripeto, nel tritone, un processo centrifugo. Secondo il piano, le parti si riuniscono in virtù di principi del tutto opposti.
(cit. da René Thom, 1972, Stabilità strutturale e morfogenesi; trad. it.: Einaudi, Torino 1980; p. 223)

La macchina cresce in maniera opposta al vivente: ma quale dei due modelli di crescita guida i programmi scolastici e i criteri della didattica? E la psicoanalisi non è una risorsa per chi crede che la mente del bambino, come quella dell'adulto, somigli più a un orologio che a un fiore.


Penultima revisione 4 novembre 2018
Ultima revisione 3 ottobre 2022