ADALINDA GASPARINI                PSICOANALISI E FAVOLE

UN ISTANTE PRIMA DI SVEGLIARSI. ANALISI DELLA STORIA DEL PRINCIPE CALLIGRAFO
In: AA.VV. Rappresentazioni,  n. 3, Gradiva, ETS, Pisa 1993; pp. 63-91



INTRODUZIONE 


Due tigri si slanciano al centro della figura, una delle due ha in bocca la coda dell'altra, ed è nelle fauci di un pesce rosso.
Il pesce sta uscendo da una melagrana, due chicchi stanno per toccare la superficie immobile dell'acqua. Su una specie di banchisa di ghiaccio è adagiata una fanciulla nuda addormentata,  le braccia rovesciate dietro la testa, mentre un fucile le preme la baionetta contro la pelle. In alto, a destra, sporge una rupe, accanto a tre quarti di luna, opalescente.
All'orizzonte colori rosati e caldi, di aurora.  Sullo sfondo un elefante entra da destra e cammina nel mare con zampe mostruosamente fini, lunghissime. Il suo grigio sfumato,  la gualdrappa azzurra, si intonano alle nuvole. Attraversa con un  barrito la figura, e trasporta un obelisco grezzo, di pietra chiara, la cui punta si perde oltre il limite superiore della rappresentazione.

Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un istante prima di svegliarsi è il titolo di questo dipinto di Salvador Dalì del 1944.

 Le figure del sogno non hanno dimensioni spazio-temporali stabili, sono come i luoghi e i personaggi delle fiabe tradizionali,  che mutano forma, muoiono e risorgono, coprono in un batter d'occhio distanze incommensurabili, devono

servire qualcuno umilmente per un tempo che appare interminabile. Le leggi di non contraddizione, di irreversibilità temporale, di costanza nella forma, che rendono stabile la realtà quotidiana, sono sospese e infrante.
 Nella fiaba  le trasformazioni che appaiono bizzarre e perfino insensate sono declinate attraverso una funzione specifica: la magia. Descrivere la sintassi della magia che è presente dove la legge comune è sospesa, come una norma che lega il caos apparente delle trasformazioni, è possibile nella prospettiva psicoanalitica.

 La legge della stabilità, della permanenza delle forme, della misurabilità delle distanze e dell'irreversibilità del tempo, è sospesa, oltre che nel sogno notturno e nel delirio, nelle personalità dominate dalla presenza di elementi scissi, da equazioni simboliche. Queste implicano una coincidenza e, quindi,  un'interscambiabilità, tra gli oggetti psichici, desiderati o temuti, e le loro rappresentazioni.

Il paziente border-line presenta equazioni simboliche confuse   con oggetti della vita comune, con i quali intrattiene una  relazione apparente. Nel  lavoro analitico è possibile osservare che la persona, pur presentandosi nel contesto sociale come ben adattata, fornita  in certi casi di un alto grado di istruzione,  ha un mondo affettivo primitivo, vive relazioni di tipo diadico,  e deve fronteggiare una continua minaccia di annientamento.  L'identità che presenta è una sorta di involucro, che copre  la sua struttura arcaica, dominata dall'onnipotenza/impotenza  infantile. In una prospettiva kleiniana e bioniana possiamo  osservare che su questo tipo di paziente incombe la minaccia di una potenza distruttiva legata all'invidia, mentre  il pensiero  simbolizzante è interdetto a causa del rifiuto di accettare la  rottura della relazione diadica, che impedisce di entrare nella  depressione e procedere verso l'elaborazione del lutto.

Le figure magiche della fiaba personificano l'onnipotenza infantile, modificando la realtà in una misura illimitatamente superiore rispetto alle attività comunemente possibili.  Il dispiegamento della magia provoca l'istantanea realizzazione sia dei desideri, ricchezza, potenza, unione con l'essere amato, sia degli impulsi distruttivi,  morte e distruzione dei nemici. Le fiabe rappresentano inoltre, accanto a questa  ambivalente onnipotenza, un assetto di realtà analogo a quello stabile e consensuale di ogni giorno. Come all'inizio non erano in mano al soggetto, alla fine i talismani devono tornare nel regno della magia, lasciando il soggetto in una realtà trasformata,  ma priva di ulteriori alterazioni magiche.

 Comprendere come si manifesta la magia nelle fiabe significa indagare come certi racconti universali, sogni collettivi ricorrenti, rappresentino relazioni tra onnipotenza infantile e potenza adulta. Ogni fiaba di magia contiene elementi di impotenza infantile, abbandono nel bosco, carestie che minacciano  di morte un'intera città, elementi di onnipotenza infantile, il talismano che consente di estrarre tesori, di raggiungere in un istante il luogo che appariva inaccessibile, ed elementi della realtà di ogni giorno.  A questa si deve tornare alla fine della storia: nelle Mille e una notte si dice che i protagonisti della storia appena raccontata vissero felici fino a che non giunse: "...Colei che separa gli amanti e rovina le migliori compagnie...". Il fine di tornare alla realtà quotidiana è raggiunto anche dai noti adagi dei contastorie, del tipo: "Stretta la foglia, larga la via/ dite la vostra che ho detto la mia", che riportano al gioco della finzione narrativa l'attenzione investita nelle vicende narrate. 

La presenza nelle fiabe di rappresentazioni simboliche profonde è stata indagata sia in campo freudiano che junghiano. La fiaba risponde  plasticamente  all'interpretazione, perché racconta  un dramma psichico  centrale in ogni teoria psicoanalitica: la vicenda dell'onnipotenza/impotenza  infantile.

Per le storie più antiche delle Mille e una notte ci pare particolarmente efficace il modello kleiniano e bioniano, che utilizzeremo per Il principe calligrafo.  Vorremmo in ogni caso, nell'ambito della concezione  rappresentazionale che caratterizza la nostra ricerca, evitare di stabilire tra le figure della fiaba e le figure di una particolare impostazione psicoanalitica un'equivalenza  che, per quanto corretta, rischia di risultare poco utile per una  comunicazione non dogmatica, che intende rivolgersi sia ad analisti di impostazione diversa, sia a studiosi di altri campi disciplinari.

Interpretare significa usare una chiave che consente di visitare un luogo altrimenti poco accessibile. Ma gli oggetti psichici profondi, della cui sostanza sono costituiti gli scenari  e le figure della fiaba, come quelli del sogno notturno, possono avere  mille nomi, come il lapis alchemico, e restare innominabili.








LA STORIA CORNICE


La storia di cui proponiamo una lettura psicoanalitica, appartiene alla raccolta araba Le Mille e una notte. Ricordiamo la vicenda di Shahriyar, sultano delle Indie, che, dopo aver scoperto il tradimento della sua sposa, la uccise, e vagò per il mondo incerto se continuare a vivere e regnare dopo aver subito una ingiuria tanto grande. Un  giorno giunse in riva al mare e vide un demone, che aveva rapito una fanciulla la notte delle nozze e la teneva prigioniera in una cassa in fondo al mare, legata con catene d'oro e d'argento. La fanciulla riusciva a tradirlo regolarmente. Allora Shahriyar tornò al suo regno, deciso a non subire mai più un tradimento: ogni sera si faceva condurre una fanciulla vergine, e alle prime luci del giorno la faceva soffocare dal visir.  
Trascorso qualche tempo, la crudeltà del sultano aveva causato perdita e lutto, quando la figlia del visir, Shahrazad, che conosceva innumerevoli storie, volle essergli condotta in sposa, contando di trovare il modo di salvare se stessa e tutte le fanciulle della città. Narrava storie ogni notte, nell'ora che precede la luce  del giorno, e, inducendo il desiderio del sultano di conoscere la fine di una storia,  o di sentirne una nuova, ancora più bella, Shahrazad ottenne che l'esecuzione fosse rimandata di mattino in mattino. Dopo mille e una notte di racconti, chiese al sultano di  lasciarla in vita. Shahriyar disse allora che da tempo l'aveva perdonata rinunciando al suo crudele proposito, benedisse lei e chi l'aveva generata per la sua saggezza e la sua costanza, e proclamò un tempo di feste in tutto il Paese.  Al rifiuto della sofferenza della perdita, corrisponde nel sultano la coattiva uccisione della parte con la quale può nascere la relazione. Shahrazad, nel nucleo più antico della raccolta, gli propone storie avvincenti che raccontano di crudeltà e misericordia, di tradimenti e fedeltà, declinate attraverso espansioni e contenimenti della onnipotente magia.
 
 La comunicazione tra Shahrazad e il sultano ha luogo  verso il mattino, è al limite tra la notte e il giorno.  Come la relazione analitica, non appartiene né alla vita
quotidiana, che dovrebbe essere il campo dell'esperienza concreta, né alla solitudine densa di fantasmi del sogno notturno. 
 Nel setting si tesse una trama che consente al paziente di presentare 6 gli oggetti psichici scissi, aggregati in equazioni simboliche,  che, saturando la vita psichica, impediscono sia la relazione con l'altro che lo strutturarsi di un'attività simbolica. Nello spazio affettivo transferale e controtransferale i fantasmi presentati  possono essere contenuti,  l'equazione simbolica può  cedere spazio e consentire la costruzione del legame. Solo a questo punto può iniziare un'attività di simbolizzazione, che coniuga il riconoscimento dell'altro da sé e la rinuncia all'onnipotenza infantile. Non solo la storia di Shahrazad, ma anche le storie che racconta  riguardano  la trasformazione  dall'onnipotenza infantile alla potenza adulta, dalla negazione della sofferenza e della  perdita, che implica il misconoscimento della relazione affettiva, all'accettazione del limite, che rende possibile  la relazione affettiva con l'altro da sé. Il finale della storia di Shahrazad, e delle storie che narra, conduce a una rappresentazione del valore psichico al quale dovrebbe pervenire chi intraprende il viaggio psicoanalitico, che Melanie Klein designa col termine gratitudine.
 
 Molti dei personaggi di Shahrazad sono guidati dal desiderio di narrare o ascoltare storie. Chi presta ascolto al racconto, ne riconosce il valore, e trasforma la sua decisione, umanizzandola, ottiene salvezza, chi non vuol accoglierne il messaggio è perduto. per quanto sia potente. La vicenda del principe calligrafo fa parte di una storia  che occupa quaranta notti di racconti. Presenteremo la storia cornice limitandoci agli elementi indispensabili per comprendere la vicenda che abbiamo
scelto.  Nella ventinovesima notte Shahrazad raccontò al sultano che una volta un facchino di Baghdàd aveva portato molti cibi prelibati a tre bellissime dame. Sulla porta d'ingresso della loro casa, a lettere d'oro, stava scritto:
 
    Chi parla di cose che non lo riguardano rischia di sentire
   parole che non gli piaceranno.
 
 Vedendo che le dame erano sole, il facchino chiese di essere ammesso al loro convito, affermando che una riunione di soli uomini non è mai compiutamente bella, come una di sole donne.  Le dame risposero che ricevendo estranei temevano di divulgare i  loro segreti, ma il facchino replicò che è invece bene
confidarsi con chi è degno di fiducia e sa mantenere il silenzio. Le dame decisero allora di permettergli di restare, purché prestasse un giuramento: qualsiasi cosa vedesse o sentisse nella loro casa, non avrebbe chiesto spiegazioni. Più tardi bussarono e furono ammessi, prestando lo stesso giuramento del facchino, tre mendicanti ciechi da un occhio, e successivamente  tre mercanti stranieri. Questi ultimi erano in realtà il califfo Harun ar-Rashid, signore dei credenti, il suo visir e il suo boia, che quella notte percorrevano in incognita le vie della città.
 
 A un certo punto del lieto convito una delle tre dame si alzò, si fece  portare due cagne nere e diede a ciascuna di loro cento frustate, poi, piangendo, le abbracciava e le carezzava.  Turbati e già colmi di meraviglia, i convitati videro allora la seconda dama sedersi al centro della stanza. La terza prese il liuto e intonò una melodia struggente, che narrava di un amore perduto: la seconda dama gridò,  si lacerò le vesti, e mostrò il seno sfregiato da cicatrici.
 La curiosità degli uomini era tanto grande che, trascurando il giuramento prestato, chiesero spiegazioni. Immediatamente una delle dame battè le mani ed apparvero sette schiavi neri, ciascuno dei quali atterrò uno degli ospiti, e, tenendolo con la scimitarra alla gola, restò in attesa degli ordini. Allora il facchino le supplicò di essere clementi, e le dame concessero la vita a lui e agli altri,  a patto che ciascuno raccontasse la sua storia, e come fosse giunto  alla loro casa a Baghdàd.
 Appena finivano di raccontare, le padrone di casa dicevano loro che potevano  andar via, ma ciascuno voleva restare per sentire la storia dei compagni di convito. Si venne a sapere che i tre mendicanti si erano conosciuti solo davanti alla porta delle dame, che erano figli di re, e avevano perso l'occhio a causa di eventi meravigliosi e terribili. Il secondo di loro raccontò questa storia.

 



LA STORIA DEL PRINCIPE CALLIGRAFO E IL DUELLO MAGICO



Suo padre lo aveva fatto istruire fin da bambino dai sapienti del regno, tanto che conosceva tutte le discipline del tempo; in particolare nessuno poteva competere con lui nella raffinata arte della calligrafia. Ben presto la sua fama uscì dai confini del Paese e siccome il re delle Indie voleva conoscerlo, il re padre lo fece partire con un ricco seguito. Ma dopo qualche tempo i predoni assalirono la  carovana e uccisero tutti tranne lui, che fuggendo giunse a una grande città, il cui re era acerrimo nemico di suo padre. Arte e sapienza non erano tenute in alcun conto, e l'immensa cultura del principe non gli sarebbe bastata nemmeno a guadagnare un po' di pane. Dovette inoltre tener segreta la sua origine, per non essere perseguitato dal sovrano.
Si adattò allora a fare il taglialegna;  dopo molto tempo gli capitò di addentrarsi più del solito nel bosco, dove, sradicando un tronco, scoprì una botola. La sollevò e scese una scala,  fino a giungere in un palazzo sotterraneo, nel quale gli venne incontro una donna  bellissima. Era una principessa, e  gli raccontò la sua storia. Da venticinque anni era prigioniera di un demone, che l'aveva rapita la notte delle nozze, e passava con lei nel palazzo sotterraneo una notte ogni dieci. Per il resto del tempo era sempre stata sola, ma, se voleva chiamare il suo sposo demone, le bastava sfiorare un'iscrizione magica sulla soglia, che mostrò al principe. Anche il calligrafo le raccontò le sue disavventure, poi la principessa prigioniera gli offrì un bagno e abiti da re, mangiarono cibi prelibati, bevvero vini inebrianti, e trascorsero insieme la notte. Al mattino il principe le propose di tornare con lui sulla terra, ma lei sorridendo gli rispose che era molto meglio che lui si trattenesse da lei nei nove giorni in cui era sola, lasciando il decimo al demone. Il principe calligrafo, che era ancora un po' ebbro,  montò in collera, e gridò lui avrebbe ucciso quel maledetto demone. Senza ascoltare le preghiere della donna,  che lo supplicava di non provocare la rovina di entrambi, colpì l'iscrizione magica con tanta violenza che la mandò in pezzi. Con un terrificante boato sopraggiunse il demone, e il principe si diede precipitosamente alla fuga, dimenticando però le sue scarpe  e l'accetta da taglialegna. Vedendo che un uomo era stato nel suo palazzo, il demone torturò a sangue la sua sposa sotterranea perché confessasse, poi prese l'accetta e le scarpe e andò in città a cercare il loro proprietario. Lo trovò ancora tremante, e sollevandolo in volo tornò con lui nel sotterraneo. La principessa, che  non lo aveva tradito, era  incatenata, sanguinante per le torture subite. Il demone le diede una spada e le disse di provare che non conosceva il giovane uccidendolo, ma la donna non volle farlo. Fece allora la proposta al principe, e al suo rifiuto replicò gridando che avrebbe mostrato come puniva i traditori. Levò la spada, tagliò le mani alla donna, e la lasciò morire dissanguata. A quella vista il principe calligrafo perse i sensi, e appena rinvenne  supplicò il demone di perdonarlo. Gli raccontò anche una storia,  in cui un uomo che era oggetto dell'invidia del suo vicino non si era mai vendicato, e per vie misteriose aveva ottenuto un'immensa fortuna. Ma il demone non volle fare come l'invidiato della storia,   che era stato generoso con l'invidioso, e, sollevato in volo il principe, lo trasportò su un'alta montagna. Con un incantesimo lo trasformò in scimmia, e lo abbandonò.
 Il principe scimmia disperato scese dalla montagna e camminò verso il mare. dalla riva un giorno vide passare una nave, allora colse un grosso ramo, ci si mise a cavalcioni, e con due bastoni cominciò a remare, fino a che i marinai lo videro e lo fecero salire a bordo. Dopo una lunga navigazione, la nave gettò l'ancora nel porto di una splendida città, dove alcuni ufficiali chiedevano  a tutti gli stranieri, in nome del sultano, un saggio della loro scrittura. Era morto il visir,  grande calligrafo, e il sultano ne cercava il degno successore. Il principe scimmia riuscì ad avere il rotolo di carta della prova, e  tra gli astanti stupefatti prese a scrivere versi secondo ogni modello di calligrafia, con stupefacente abilità. Quando il sultano vide i caratteri vergati dalla scimmia,  ordinò agli ufficiali di vestire l'autore di quella scrittura meravigliosa con un abito regale e di condurlo da lui sul cavallo  più bello delle sue scuderie. Così la scimmia con vesti di broccato azzurro cavalcò per la città tra la folla, e  giunta dal sultano diede nuove prove della sua abilità, scrivendo poesie e giocando a scacchi.
Al colmo della meraviglia il sultano mandò a chiamare sua figlia, Signora di Perfezione,  per mostrarle quel portento.  Appena entrata, la principessa rimproverò al padre di non curarsi del suo onore, perché la mostrava svelata a un uomo estraneo. Il re non capiva, e Signora di Perfezione gli disse che la scimmia era in realtà un principe incantato da  un potente demone di cui lei conosceva il nome. Quando il re le chiese come faceva a sapere tutto questo, la figlia rivelò che da bambina aveva imparato da una vecchia tutta  l'arte della magia, tanto che con un incantesimo avrebbe potuto trasportare in quell'istante l'intera città oltre il monte Qaf, ai confini della terra.
 Subito il re la pregò di restituire al principe la sua forma umana, perché voleva nominarlo suo visir e farglielo sposare. La principessa si disse pronta a obbedire. Si trasferirono in un cortile segreto, Signora di Perfezione   si fece portare un coltello che aveva sulla lama un'iscrizione ebraica e  tracciò un cerchio, nel quale scrisse antichi caratteri arabi, poi  pronunciò le parole segrete di un incantesimo.  Allora, raccontava il principe calligrafo alle dame e agli altri  compagni di quella notte, l'aria si oscurò e apparve il demone, che aveva la forma...

    ....di un leone grande come un toro, e noi fummo in preda al  terrore. La fanciulla gridò: - Vattene, cane!      Il demone rispose: - Tu, traditrice, tu mi hai tradito e hai    rotto il giuramento. Non avevamo giurato noi due di non    metterci mai l'uno contro l'altro?       Lei disse - Tu maledetto, come potrei serbar fede a un patto    stipulato con uno come te?     Il demone gridò: - E allora ricada su di te ciò che hai   rotto  - e con la bocca spalancata si lanciò contro la    fanciulla, che in un istante si strappò un capello e appena lo    ebbe fatto  ondeggiare nell'aria mormorando un incantesimo, lo   trasformò in una spada dalla lama tagliente, con la quale    colpì il  leone, tagliandolo in due. Ma mentre le due metà    volavano  via, la testa rimase e si trasformò in uno    scorpione. La fanciulla velocemente si trasformò in un immane    serpente, e i  due combatterono un'aspra battaglia per molto    tempo . E poi lo scorpione si trasformò in un avvoltoio e volò   via dal palazzo,  e la fanciulla prese la forma di un'aquila e   volò dietro  all'avvoltoio. I due erano andati via da molto   tempo, ma all'improvviso la terra si aprì e dalla fenditura   emerse un  gattaccio maculato, che miagolava, sputava e   soffiava. Era inseguito da un lupo, e i due combatterono nel   palazzo per molto tempo, e quando il gatto vide che stava   perdendo dal lupo, fece un verso acuto, si trasformò in un   verme, e si  infilò in una melagrana che si trovava accanto   alla fontana.  La melagrana si gonfiò come un'anguria striata,   e il lupo si trasformò immediatamente in un gallo bianco come   la neve. La  melagrana volò nell'aria e cadde sul pavimento di   marmo della sala, rompendosi in  tanti pezzi, e appena i   chicchi si sparsero dappertutto, il gallo si mise a beccarli.   Li beccò tutti, tranne uno che si trovava sull'orlo della   fontana. E  poi il gallo cominciò a gridare e a cantare, a   sbattere le  ali, a muovere il becco come chiedendoci: - C'è   rimasto ancora qualche chicco?    Ma noi non capimmo, e lui emise un verso stridulo così forte    che noi credemmo che il palazzo stesse cadendo sulle nostre   teste. E poi al gallo capitò di girarsi verso l'orlo della    fontana. Si lanciò per beccare il chicco, e allora quello   rotolò nella fontana, diventò un pesce, e si immerse    nell'acqua. Il gallo si trasformò immediatamente in un pesce   più grosso e si tuffò dietro a lui, e i due scomparvero nel   fondo  della fontana per un tempo molto lungo. E poi noi   sentimmo alti gridi, versi e mugolii, che ci facevano    tremare, e un momento dopo  il demone venne fuori come una   fiamma lucente. Il demone soffiò fuoco e scintille dalla   bocca, dalle narici e dagli occhi, e combatté la fanciulla    per molto tempo, finché le loro fiamme li avvolsero, e il fumo   riempì il palazzo finché ci rassegnammo certi di soffocare,    mentre stavamo pervasi dalla paura per le nostre vite, certi    della disgrazia e della dannazione,  e mentre il fuoco   infuriava e diventava più forte, noi gridammo: - Non v'è   potenza né forza che in Dio,  l'Onnipotente, il Magnifico!    All'improvviso, prima che potessimo accorgercene, il demone   dardeggiò come una fiamma fuori dal fuoco, e con un balzo fu    nel salone di fronte a noi, soffiando fuoco sui nostri visi,   e la fanciulla lo inseguiva, con un alto grido. Appena il    demone soffiò il fuoco verso di noi, le scintille volarono,    e, mentre ero lì con le sembianze di una scimmia, una di    quelle mi colpì l'occhio destro e lo distrusse. Una seconda   scintilla colpì il re, bruciandogli metà del volto, con la   barba e il mento, e il colpo gli fece rotolare fuori una fila    di denti. Una terza scintilla colpì il servo nel petto e lo    uccise sull'istante. In quel momento, mentre eravamo sicuri    della distruzione e ci consideravamo perduti senza rimedio, sentimmo un grido: - Dio è grande, Dio è grande! Lui ha conquistato e trionfato, lui ha sconfitto l'infedele!    Era il grido della figlia del re, che proprio in quel    momento aveva sconfitto il demone. Noi guardammo e vedemmo un   mucchietto di cenere.

Signora di Perfezione riapparve con la sua forma e si fece portare una ciotola d'acqua, la rese incantata con parole misteriose, e aspergendo il principe annullò l'incantesimo del demone e gli restituì la sua figura umana. Ma disse al sultano che non ci sarebbe stato nessun matrimonio, perché nel duello il fuoco le era penetrato dentro e la stava consumando. Non aveva avuto difficoltà fino a quando, non riuscendo a trovare in tempo l'ultimo chicco della melagrana, aveva dovuto aprire altri  domini della magia, fino a quello del fuoco, dal quale nessuno può uscire indenne. Era riuscita a vincere, ma era stata  ferita a morte. Il sultano e il principe piansero con lei, che di lì a poco, gridando: "Il fuoco! il fuoco!", divenne un  mucchietto di cenere.
 Il principe raccontava alle dame e agli altri convitati di Baghdàd quale grande dolore aveva provato per le due principesse,  di cui pur involontariamente aveva causato la morte. Per questo si era rasato la barba e le sopracciglia in segno di penitenza,  aveva  indossato vesti da derviscio, e si era messo in cammino alla volta di Baghdàd, dove sperava di essere ascoltato dal signore dei credenti, Harun ar-Rashid.


 



ANALISI

In questa storia si tratta della crescita come possibilità di simbolizzazione, che non corrisponde al possesso di una cultura consensuale. L'enfasi è posta sul sistema segnico per eccellenza, la scrittura.
 Il principe appare impotente nonostante l'immensa quantità di segni che possiede, di fronte alle figure arcaiche che non ne riconoscono il valore.  L'istruzione che ha ricevuto non lo ha fornito di strumenti per essere principe: non sa organizzare alcuna  difesa del suo seguito dai predoni, né è in condizione di elaborare una strategia personale quando giunge alla città nemica. Non pensa alla fuga, con la quale potrebbe tornare dal padre, andare verso le Indie o cercare un'altra città. E' dominato dalla distruttività con la quale si scontra uscendo dalla tutela paterna, e non ha capacità di pensare, di contenere la contraddizione ed elaborarla.
 Restando nell'ambito della letteratura, possiamo ricordare, al suo opposto, la figura che per eccellenza è caratterizzata dare ali processi di pensiero:  Ulisse.   Quando l'identità si fonda sulla capacità di simbolizzazione,  il soggetto resta saldo nella sua forma, nell'espressione della sua umanità, anche quando si trova, come Ulisse, nelle situazioni più distruttive, come nell'antro di Polifemo. Alla capacità di simbolizzare corrisponde nelle fiabe, come nella psiche, la capacità di affrontare e superare condizioni distruttive. Anche quando le storie parlano di disgrazie che si abbattono sul soggetto innocente, ciò che conta è il modo in cui il soggetto elabora una strategia efficace per contenere il danneggiamento o volgere gli eventi in suo favore.
 E' evidente che nell'esperienza umana, fin dalla nascita, si danno situazioni distruttive, intrapsichiche e provenienti dal mondo esterno. La fiaba, nelle sue mille e una forma, è anche una storia di come gli uomini affrontano le forze disgreganti che incontrano nella vita: in termini psicoanalitici, di come gli uomini affrontano le modalità predatorie dell'onnipotenza infantile.
 Il sapere come insieme di segni scissi dall'esperienza, come quello del principe calligrafo, rappresenta un tentativo di controllare le strutture arcaiche attraverso oggetti consensuali di copertura, embricati a desideri infantili. I segni separati dai significati profondi saturano l'identità-involucro del soggetto, che può presentarsi fornito di un sapere mirabile.  La struttura psichica rivestita da questi segni resta dominata dall'onnipotenza, e le sue figure non hanno con le figure culturali l'articolazione flessibile che la simbolizzazione consente. E' quindi destinata a  subire uno scacco dall'esperienza, che fa sgretolare l'identità-involucro e l'apparente accordo tra figure consensuali e fantasmi infantili.
 Il principe  si trova dominato dagli aspetti primitivi e distruttivi della sua struttura psichica.  La sua identità-simulacro, la sapienza che lo aveva reso celebre, ridondante di segni senza vita rivela la sua impotenza, sbiadisce, scompare nella città del nemico del padre.   Il calligrafo  privo di risorse fa allora il taglialegna, ma il suo destino è quello di confrontarsi col padre negativo, opposto complementare del padre che lo aveva fornito di tanta istruzione.
 La regressione  del principe è parallela allo sgretolamento dell'identità-involucro. La scena è invasa da  una realtà affettiva arcaica, prigioniera, legata ai fantasmi della relazione diadica confusiva. Al posto di una relazione tra sé e altro da sé troviamo meccanismi di identificazione proiettiva  con il genitore onnipotente, che può dispensare la vita e la morte.  Il regno del nemico del padre è allo stesso tempo il regno del padre-nemico, ostile al principe quanto indifferente alle sue conoscenze di tutte le discipline. In questo regno il demone, che nel regno dei credenti dovrebbe sottomettersi all'autorità dei sovrani, tiene prigioniera la madre-sposa.
 Il rapimento nella notte delle nozze, prima dell'unione con lo sposo, rappresenta in termini junghiani la cattura dell'elemento femminile da parte dell'elemento pulsionale scisso, che imprigiona la fanciulla, bloccando nel momento critico delle nozze la possibilità di accedere a una  una relazione adulta. In ogni caso la situazione attua un possesso violento,  rimandando a fantasmi sado-masochistici.  Il padre è demoniaco, onnipotente, violento. La madre-amante è prigioniera di questo essere non umano  da un numero di anni che può corrispondere all'età del principe.
 Nel sotterraneo il tempo è come sospeso, come lo spazio è un  non-luogo della realtà: splendida rappresentazione della regressione  alla madre, della reinfetazione, dove le leggi che consentono di orientarsi, di creare processi di apprendimento e di memoria, non esistono, come nelle coazioni.
 Le parole incise sulla soglia sono antitetiche rispetto all'arte della calligrafia del principe: hanno una potenza magica e  implicano una relazione segreta, mentre i segni del principe non  hanno potenza né lo aiutano a entrare in relazione. L'iscrizione magica è il mistero che lega stabilmente il demone alla  principessa, e il principe si illude di poter rompere il legame spezzando l'oggetto che ne reca la cifra.  Possiamo considerarla una rappresentazione dell'attacco rivolto  al legame tra i genitori. La distruzione della cifra magica, del segreto dell'unione parentale, provoca distruzione, smembramento, ferite.  Anche in questo caso il principe non guida la sua vita: come ha sempre fatto si lascia portare, dal piacere, dalla collera, infine dalla paura.
 Il demone di questa storia ha in comune con quello incontrato nel suo peregrinare da Shahriyàr la messa in atto di tutti gli accorgimenti magici per non essere tradito. Entrambi i demoni tengono prigioniera la donna che hanno rapito, ed entrambi ne subiscono il tradimento.  Vale a dire che la diade genitoriale indifferenziata deve fatalmente essere aggredita, perché si compia il percorso regressivo e dalla condizione di disperazione che ne consegue possa nascere il riconoscimento della sofferenza, e l'elaborazione del lutto.
 Viene da pensare che se l'antico narratore arabo avesse  conosciuto la teoria kleiniana, non avrebbe potuto rappresentarla in maniera più puntuale: quando il principe supplica il demone  di non distruggerlo con la sua rappresaglia, paragona sé stesso  all'invidioso e lui all'invidiato. Raccontando questa storia il principe riconosce di essere stato dominato dall'invidia. Gli attacchi rivolti contro l'oggetto buono, collocato alternativamente dentro e fuori di sé, occupano lo spazio  psichico e impediscono ai processi di simbolizzazione di aver luogo.  Il principe viene abbandonato dal demone in un luogo deserto, non umanizzato, dopo aver subito l'incantesimo e la perdita della forma umana.  E' difficile non restare ammirati dalla potenza rappresentativa della fiaba, quando il principe calligrafo viene trasformato nell'animale più simile all'uomo, che l'uomo stesso vede come  una sua grottesca imitazione. Possiamo dire che la conoscenza di discipline apprese in maniera  scissa rispetto alla propria  realtà psichica scimmiotta la vera cultura, senza possibilità  creative, limitandosi a sterili riesposizioni e imitazioni dei prodotti di altri.   Producono aridi scimmiottamenti i tentativi di coprire conflitti  profondi attraverso operazioni che non è corretto definire di apprendimento, e che appaiono come tentativi abortiti di sublimazione. Non è raro, e non solo nel lavoro analitico, osservare pratiche di tipo cannibalico rivolte alla cultura, che viene frammentata e incorporata senza che possa nutrire, perché nessuna elaborazione è possibile, o atteggiamenti  di tipo sadico-anale, quando l'oggetto culturale, sia libro,  sia informazione, viene collezionato ossessivamente.
 La figura della scimmia sta alla figura umana come il dominio  dei segni consensuali scissi dalla realtà personale sta alla competenza affettiva e di pensiero che lega i processi simbolici personali alle rappresentazioni collettive.  In questa condizione di perdita il principe è però capace di porsi in relazione con il mondo esterno, forse la forma della scimmia è quella più corrispondente alla sua realtà psichica. Improvvisa una barchetta col tronco, si ingrazia il capitano della nave, e con un movimento rapido si impadronisce della pergamena per dar prova della sua perizia.  Nella città di mare viene accolto con ogni onore da un sovrano che, come  suo padre, tiene nel massimo conto l'arte della scrittura, trovando che il possesso di questo requisito possa far passare in secondo piano l'aspetto animale.
 L'opposizione tra il dominio dei segni consensuali e quello in cui gli stessi segni sono privi di valore ha causato la perdita d'identità e di forma del principe. La storia esige che i due mondi entrino in rapporto. Sono vicini nel re e nella principessa: Signora di Perfezione domina la sfera della magia mentre suo padre ne ignora la potenza, e questi loro mondi entrano in contatto di fronte al principe-scimmia. Il padre  chiede alla figlia di rendere la forma umana al principe, senza desiderio di conoscere per quale ragione sia stato stregato, e senza domandare alla figlia cosa significhi per lei rompere l'incantesimo. La principessa, dopo aver vantato il suo immenso potere, dichiarandosi obbediente lo mette al servizio  della volontà del padre.
 Con le sue cifre magiche traccia il cerchio nel quale affronterà il demone. In molte storie delle Mille e una notte possiamo incontrare uomini e donne stregati, e incantesimi che ridanno loro forma umana, ma nessun duello magico.
 Lo scontro metamorfico si trova in una storia che più di ogni altra mette in scena una separazione estrema tra la legge consensuale e le misteriose regole della magia.  In forma di leone il demone ricorda alla principessa il loro giuramento, di non affrontarsi mai, al quale la fanciulla risponde che il suo legame con la legge del padre rende nullo quel patto.
 La principessa dà battaglia al demone in nome della legge paterna, ma con i mezzi magici dei quali anche il demone dispone, mentre il principe scimmia e il re sono impotenti.
 La permanenza nella forma, la sua stabilità, sono proprietà di un'identità pregnante, che si trasforma attraverso relazioni di scambio, non  attraverso atti predatori, incorporazioni. Il duello mette in scena una discontinuità di forme.  Le trasformazioni sono catastrofi. In un punto che è legato alla magia, in un punto incantato, la forma non mantiene la sua pregnanza e la continuità che le consente di essere stabile. La successione delle figure può ricordare la frenesia di un delirio o certe immagini ipnagogiche e ipnopompiche.  Il rapporto tra le forme contrapposte della principessa e del demone configura modalità predatorie che riportano all'oralità e  ai meccanismi di relazione arcaici, di identificazione proiettiva e introiettiva. Ricordiamo che il duello ha lo scopo di fare ritrovare al soggetto della storia una forma perduta catastroficamente.
 L'abilità nel passaggio catastrofico sembra essere lo strumento  specifico della potenza magica nella sfida, e si esprime sia  nella rapida intuizione della forma adatta a incorporare  l'avversario,  sia nella capacità effettiva di  portare a compimento la predazione, annientandolo.    Mentre al demone basta essere preda che efficacemente sfugge,  alla principessa serve invece diventare predatore.   Il demone nella prima forma, quella di leone, vuole distruggere  la principessa, è predatore, ha fauci enormi, ma subito dopo assume forma di preda, e la principessa sarà predatore e inseguitore fino al dominio del fuoco. La predazione, che esprime la voracità, implica la preda, la forma che rischia l'annientamento per incorporazione. L'identificazione proiettiva esiste insieme alla reazione schizoide, di fuga dal predatore.
Niente è più bizzarro di questa sfida di magia.   E' come se solo passando attraverso innumerevoli forme si esaurisse un potenziale bizzarro, in termini bioniani, e potesse quindi ripristinarsi una stabilità minima perduta,   la forma umana del principe. Opposte e analoghe sono alternativamente le forme dei duellanti.
 All'inizio le forme sono opposte: la coppia leone/fanciulla con la spada ricorda l'arcano maggiore XI dei Tarocchi, il cui significato simbolico è il dominio delle pulsioni. Subito dopo abbiamo scorpione e serpente, entrambi legati alla terra oscura e capaci di dare la morte con il veleno. A questi  succedono due forme simili per le grandi ali, ma contrapposte, perché l'avvoltoio è legato alla morte, mentre l'aquila è solare,  e come tale è simbolo regale della legge paterna.  Gatto e lupo sono animali notturni, trasgressivi rispetto alla legge degli uomini.  Il vertice espressivo del duello è nel verme che entra nella  melagrana facendola scoppiare. L'essere meno strutturato, quindi più distante dalla forma umana, penetra in un simbolo universale della fecondità femminile , e lo fa esplodere, mentre i suoi chicchi, i suoi frutti nascosti, si spargono, come schegge schizoidi, dappertutto. Catturare e quindi neutralizzare gli elementi separati impegna l' animale che saluta il giorno col canto, e il biancore del gallo è sottolineato a enfatizzarne la valenza solare. Ma questa metamorfosi non basta a controllare la dispersione e la scissione operata dal demone-verme, e la fanciulla-gallo con versi perturbanti chiede aiuto al padre e al principe.  La loro cecità di fronte al mondo della magia impedisce loro di favorire la sua ricerca.
 E le forme tornano ad essere simili, due pesci entrano nella vasca del cortile segreto, aprendo il dominio delle acque, dopo aver giocato nel dominio della terra e dell'aria.  Nessuno, dirà la fanciulla morendo, resiste dopo aver aperto il dominio del fuoco: dove le forme riconoscibili sono dissolte, e la fiamma divora più del leone, del lupo, del grande uccello. L'estremo dominio dello scontro catastrofico è il dominio della distruzione delle forme stesse. Non c'è più un corpo che contenga  il demone e la principessa, che articoli la loro lotta: pervadono l'intero palazzo, colmandolo di scintille e di fumo. La distruzione sembra inevitabile, nel buio illuminato da bagliori di morte. Alla fanciulla-predatore e al demone-preda succede un fuoco in cui non si può dare neppure quella coppia arcaica  preda-predatore che è pur sempre una forma. La distruzione manifesta i suoi effetti irreversibili sul volto, la parte più espressiva, del re e del principe. Al principe la perdita dell'occhio resterà oltre il duello, come a sancire la sua incapacità, perché non ha saputo vedere la funzione della cifra magica sulla soglia del sotterraneo della sposa-prigioniera, né ciò che gli chiedeva la principessa-gallo.
 Nella storia sono contigue l'invocazione di Dio da parte degli  astanti, il danno inflitto dal demone che dardeggia dal duello di  fuoco contro di loro, e il grido di vittoria della principessa.
 Signora di Perfezione ha il tempo di aspergere d'acqua incantata la scimmia, che torna principe. La diversità tra la principessa e il demone ha dato il frutto che la legge del padre ha chiesto,  ma la loro eguaglianza diviene identità nella morte: entrambi sono ridotti a un mucchietto di cenere.
 Il principe calligrafo riprende il cammino con una catastrofe parziale, una ferita, una diminuzione del suo essere, che asseconda volontariamente accentuandola e incrementandone il senso con valenze collettive: si rasa il mento e si taglia i capelli, in segno di lutto, e veste gli abiti di un ordine mendicante. Col suo dolore finalmente inelusibile il principe si mette in cammino vestito della sua sofferenza, e del suo rimorso per la morte che ha provocato. La non volontarietà, l'inconscienza del soggetto nelle azioni distruttive non è più vissuta come non responsabilità, perché il calligrafo riconosce che si tratta della sua storia, e sua è la responsabilità del viaggio.






CONCLUSIONE


Quando fu il loro turno, il califfo e i suoi dignitari raccontarono di essere mercanti di Mossul capitati per caso di fronte alla  porta delle dame. Paghe delle storie meravigliose ascoltate, le dame liberarono tutti i loro convitati, e il califfo curò che i tre principi mendicanti fossero ospitati degnamente per  quella notte. Al mattino fece chiamare anche le tre dame e, dopo aver svelato loro che avevano ospitato il califfo in persona, chiese quale storia le avesse condotte a comportamenti tanto sorprendenti.

 Seppe che la fanciulla che aveva le cicatrici sul seno era stata sposa di suo figlio, che l'aveva punita tanto duramente e abbandonata per una piccola infedeltà. La prima dama raccontò una  storia di magia, e le due cagne erano le sue sorelle invidiose,  che avevano voluto persino ucciderla. Una demone l'aveva salvata e  aveva incantato le sorelle, obbligando lei a frustarle ogni  sera: se non lo avesse fatto la demone sarebbe venuta e avrebbe inflitto a lei stessa la punizione.

 Il califfo Harun ar-Rashid fece comparire la demone, e le ordinò di restituire alle due sorelle la forma umana. Fece riconciliare suo figlio con la sposa, diede in mogli le tre sorelle ai tre principi mendicanti e si sposò lui stesso, con la terza dama, quella che non aveva raccontato nessuna storia.
  Comprendiamo perché i tre principi penitenti volessero trovare ascolto presso il signore dei credenti. Ci troviamo di fronte a un personaggio unico nelle fiabe arabe,  una rappresentazione  paterna in armonia con i valori simbolici trascendenti espressi dal monoteismo, che si prende cura del suo popolo.  Il potere di Harun ar-Rashid, la cui figura storica è servita da spunto per la creazione del personaggio delle Mille e una notte, delimita il dispiegamento della magia. Abbiamo cinque racconti, fatti dai tre principi mendicanti e dalle due dame. All'interno di questi  sono contenute numerose altre storie: in quella del terzo principe compaiono addirittura altri dieci personaggi che hanno perduto l'occhio destro per aver  voluto vedere ciò che non avrebbero dovuto vedere; non raccontano la loro storia individuale, ma dicono che ciascuno ne avrebbe una meravigliosa.
   L'incontro tra il facchino e le dame, il convito che inizia col giuramento di rispettare l'iscrizione aurea della casa, di non curarsi dei segreti degli altri per non incorrere in sventure, sembra dischiudere il suo opposto, il desiderio irrefrenabile di udire cose mai viste e sentire cose mai sperimentate. E' questo il desiderio di racconti che fa muovere in incognita per le strade della sua capitale il califfo, che opera, lui solo, una relazione tra le storie notturne e la realtà del giorno. Che allo stesso tempo è relazione tra il mondo della magia e il mondo della legge, della consensualità e della stabilità delle forme.
Il signore dei credenti sembra muoversi nelle due realtà quasi con la stessa naturalezza, senza dubitare del valore, della verità di entrambe. Il dramma dell'invidia, dell'impotenza e dell'onnipotenza infantile, le sue catastrofi marcate dalle figure magiche, si conclude nelle cinque storie in un dolore, in una penitenza. La liberazione viene nel momento in cui, a prezzo della vita, la vicenda diviene comunicazione, racconto, mentre gli eventi si ordinano in una storia. Il destinatario ultimo della storia è il califfo, che usa il suo potere in primo luogo per esigere che il superamento del segreto chiuso nella dimora delle dame si manifesti come narrazione, poi per mettere fine alla pena, restituendo ai tre principi mendicanti la dignità che meritano per nascita e per le sofferenze, e forma umana alle due sorelle stregate.
 Il califfo è figura di relazione tra il mondo soggetto alle catastrofi della magia infantile e il mondo regolato dalla religione storica e dalle sue norme. Dove la demone aveva decretato una pena senza appello per le due sorelle invidiose, il califfo decreta che è tempo di liberazione e di unione stabile tra le parti maschili e quelle femminili.
Harun ar-Rashid libera  dalle coazioni, accoglie l'appello di chi è nel lutto, esercita una funzione paterna che protegge l'identità come struttura di relazione con tutte le altre parti rappresentate nella storia.
Non per la sua perizia di calligrafo, né per il suo straordinario sapere in tutte le discipline, ma per le sofferenze e le catastrofi che ha provocato e attraversato, il principe trova pace e unione presso il califfo, come i suoi compagni e le sue compagne di convito.
Accostiamo il sapere iniziale del principe calligrafo, costitutivo dell' identità-involucro, alla competenza simbolica del califfo, che lega comprensione della magia e norma, liberando il soggetto dalle ipoteche dell'arcaismo infantile.
Un istante prima di svegliarsi: il quadro di Salvador Dalì contiene una vicenda che rappresentandosi alla luce del giorno partecipa della stabilità formale della coscienza, e nascendo dal sogno vi porta il mistero della vita psichica che si svolge quando c'è assenza di luce, dietro le palpebre. Animali che si divorano, la donna addormentata minacciata da un'arma, la melagrana, rimandano ai contenuti della storia che abbiamo ripercorso. L'elefante  col suo obelisco che il quadro non contiene completamente ci sembra portatore del senso che le sorprendenti storie delle Mille e una notte trasportano attraverso lo spazio e il tempo.



NOTE



Nella tradizione delle Mille e una notte, in caratteri misteriosi era scritto il nome segreto di Dio sul sigillo di Salomone. Il suo anello per questo era il talismano più potente delle storie magiche, e poneva Salomone, per volontà di Dio, al comando di tutti gli esseri delal terra, compresi i demoni. Con la forza del su osigillo Salomone costringeva i demoni ribelli, che rifiutavano di convertirsi all'Islam e di riconoscere la sua autorità, a entrare nei boccali di rame, che venivano poi gettati in fondo al mare. In questa tradizione possiamo leggere la metafora del rapporto tra l'assetto monoteistico e il mondo più arcaico. Il demone come rappresentante dell'onnipotenza infantile deve sottomettersi alal struttura più evoluta e cooperare con questa, altrimenti viene rimosso, sigillato, nel fondo del mare. Giacendo nell'inconscio, accade che per caso venga ripescato, come nella storia del demone, e il rimosso riaffiorando genera catastrofi e nuove storie.



Ringrazio l'arabista Muhsin M. Mahdi, dell'Università di Harvard, per avermi inviato la traduzione inglese del brano riportato, da me reso in italiano. Fa parte della versione di H. Haddawi dal testo arabo del XIV secolo, conservato a Parigi, noto come il Manoscritto di Galland. Muhsin Mahdi inviandomela mi segnalava come particolarmente interessante per un'interpretazione psicoanalitica questo straordinario duello magico. [vedi i riferimenti ad Haddawi in Bibliografia; vedi anche, dallo stesso manoscritto, al 2004 non ancora tradotto in italiano, il testo integrale de La storia delle tre mele]


Il termine regressione indica un movimento da strutture complesse della personalità a strutture infantili, meno differenziate. Nel paziente border-line possiamo però dire che si tratta di un moto apparente, in quanto non possiamo affermare che ci sia stata una storia del soggetto. Senza che si sia stabilita una irreversibilità del tempo, l'emergere sulla scena psichica di fantasmi legati al dramma dell'impotenza/onnipotenza infantile e a relazioni diadiche appare come regressivo, ma è la manifestazione di un movimento tra elementi dell'identità-involucro ed equazioni simboliche, strutture atemporali. Si potrebbe dire che in questi casi ogni possibilità di movimento verso le relazioni adulte e la simbolizzazione implica una discesa nel sotterraneo, una perdita di struttura. In realtà questo movimento ha maggiore rispondenza con la verità psichica del soggetto delle presentazioni legate all'identità-involucro.


È implicito che gli abitanti della città non conoscono la vera fede, quella monoteista, altrimenti la perfetta conoscenza del Corano basterebbe al principe per essere onorato.

  Il lettore avrà probabilmente associato il duello tra Merlino e la maga Magò messo in scena da Disney nel cartone animato La spada nella roccia (Usa 1963), che somiglia troppo al duello arabo per non dipenderne direttamente. Desideriamo qui ricordare la splendida versione della storia nel film di P.P. Pasolini Il fiore delle Mille e una notte (Italia-Francia 1974), con Franco Citti nella parte dle demone.

Il duello magico mette in scena una successione di predazioni che sono rappresentabili in geometria topologica con la catastrofe a grinza. Nella teoria di René Thom sull'origine del linguaggio il "cappio di predazione" ha un'importanza e una posizione analoghe al concetto di identificazione proiettiva e introiettiva nella concezione psicoanalitica. Vedi R. Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi, 1980 [...] [Vedi Thom in Bibliografia]

Riteniamo che in una fiaba il vertice espressivo sia contemporaneamente vertice letterario, estetico, e vertice di pregnanza simbolica.

Nelle Mille e una notte le melagrane sono spesso usate per designare i seni ben formati.

In un'altra storia il califfo convoca un demone che ha condannato due fratelli invidiosi alla forma di due cani neri, e le ordina di restituire loro la forma umana. Il fratello li ha ormai perdonati, ma, come la dama di Baghdàd, subirebbe la collera della demone se non li bastonasse ogni sera. La demone chiede allora a suo padre se anche i demoni devono obbedienza al califfo. Il demone padre le risponde che se il califfo volesse, per il potere conferitogli da Dio, con un cenno li ridurrebbe come un gregge di pecore in mano al beccaio. Vedi Le Mille e una notte a cura di Francesco Gabrieli [...] [Trova in Bibliografia]
Notiamo qui, sperando di tornare in seguito sull'intera storia, che i racconti degli altri due principi presentano significative analogie con quella del calligrafo: l'assoluta assenza di figure materne, l'incapacità di elaborare un vero pensiero, la mancanza di simbolizzazione. Anche gli altri due principi ciechi da un occhio si sono trovati a vedere ciò che non dovrebbe essere visto o a non vedere ciò che dovrebbe essere visto. In una delle due storie compare il motivo dell'incesto. Impossibile non ricordare la cecità di Edipo, analogamente collocata tra la colpa legata al vedere e l'entrata nella fase del lutto, dell'elaborazione della colpa. Simmetricamente, nella storia delle tre dame è assente la figura paterna, che con la norma liberi dalla coazione distruttiva dell'invidia.










 
 

 


 





Penultima revisione 2 novembre 2018
Ultima revisione 3 ottobre 2022